X) i figli dei marinai

Da Foscasensi @foscasensi
Scilla si diverte a frequentare il locale. Si manifesta sotto forma di mucillagine sul giudizio o sulla natura sensibile delle cose. Per essere un fantasma (ma non so se di fantasma si possa parlare, dato che non è morta), ha un'incidenza affatto pragmatica sulla vita della balera. Per esempio, l'unto indefinibile sui bicchieri, il rumore che fanno i boccali pieni se cadono, e ultimamente è successo parecchie volte, le bolle di accompagnamento sbagliate sui salatini e le forniture di cocacola. Le crepe sui wc, e la particolare conformazione delle ferite, peraltro inconsapevoli, dei clienti ubriachi se si siedono per liberarsi. Il velo grasso sulle lampade della cucina. Il tubo rotto e il modo quasi marino con cui l'acqua ha inzuppato l'ingresso. Se capitano nella balera, le persone sono impacciate come fossero arrivate per errore: chiedono mille volte dov'è la toilette, si fanno ripetere le portate sul menù, rifiutano le pietanze. Ascoltano la musica distratti,  non parlano, e prima della mezzanotte se ne sono andati tutti. Insomma, alligna una sensazione di balordaggine.
In senso occidentale, la confusione è la carne dell'anticristo. Più semplicemente, è la violenza dell'azione deliberata nei confronti della gerarchia naturale. Dell'armonia.
Lha, nyen e lu sono principi molto semplici. Le cose, tutte le cose, soggiacciono alle qualità semplici lha, nyen e lu. Lha è o rappresenta ciò che sta su, il capo le altezze; nyen, le spalle la robustezza toracica o i fianchi delle montagne; lu, i liquidi il bagnato, le virtù dell'emanazione alcolica e la fondamentalità delle acque materne. Lha, nyen e lu sono le cose al proprio posto.
Scilla ha pesanti capelli imbionditi dalle tinture, capezzoli dai quali estirpava lunghi fili neri con pinzette da sopracciglia. Adesso che non può, hanno germogliato come seta sulla pelle mammellare e la pancia nella quale, in anni passati, sono marciti e poi lavati via più di un bambino, ma ancora sotto forma di grumo e rimorso dimenticabile. Pochi giorni fa la Padrona ha fatto dipingere di nero la sedia in cui si è accasciata; adesso la sedia è accanto al vestibolo e porta un mazzo di fiori di plastica sull'impagliatura. Scilla è l'urgenza di altri posti.
Le mie visioni hanno luogo per la pietà di Florio. Se dormo, sogno di essere immersa in una pozza. L'acqua è verde e minerale come fosse una bottiglia. Non ho nemmeno bisogno di respirare. Tutta la mia pelle è nuda e straordinariamente aperta. Non ci sono buchi, nel mio corpo. Non ci sono sensi. Luce tepore liquidità proscioglimento: non li sento, li sono. E poi arriva quel chiacchiericcio, arriva la voce rabbiosa, sono immersa in una schiuma frollata biancastra, mi tirano su, le parole mi tirano su e mi sento di vomitare e di cadere. E quando mi sveglio vomito sul serio.
Oppure faccio sogni vuoti fino a scoppiare. Vorrei aprire gli occhi e non riesco. Sono sveglia e non posso muovere un muscolo. E in silenzio appare dietro il vetro o per meglio dire nel fondo della palpebra la superficie di un corpo di donna, una ballerina come una madonna, ma con la testa secca, le mammelle acide e un orribile mescolarsi di pancia. E io bestemmio perché non voglio vedere un secondo di più la carne di Scilla, non voglio sporcarmi della sua oltraggiosa anarchia, ma non è possibile impedirmi di vedere perché ho già gli occhi chiusi.
È appunto in quelle notti in cui mi tiro su con la vescica piena di paura che ascolto e sento nell'altra stanza parlare a bassa voce. L'appartamento è al buio, se non faccio rumore posso premere il volto contro la fessura della porta e vedere quello che succede. Una volta Carla si è concessa un gomito sul bracciolo del divano e attorciglia una ciocca intorno all'indice. Florio scuote in aria il fiammifero col quale ha appena acceso un sigaro. Un'altra sera  bevono liquore. Un'altra ridono e piangono e si tengono allacciati. Altre volte semplicemente non mi sveglio, oppure vorrei alzarmi ma Scilla preme con il corpo su tutta la mia coperta e la raffredda ed è come mi succhiasse. Così faccio del mio corpo un gomitolo e respiro nelle lenzuola e prego per scacciarla fino a che l'aria non diventa troppo viziata e mi sveglio del tutto – per soffocamento. Ogni notte sembra una conversazione che ha raggiunto il proprio epilogo: Scilla mi raccoglie le budella e le spreme per farne sudore, il sudore dei cattivi sogni; Florio e Carla, probabilmente, si amano quanto consentono loro le differenze di età  e cupidigia, che è una forma di distinzione sociale simile, per conseguenze, quasi all'istruzione.
Nel giorno libero mi alzo con calma, ascolto. Se ne ho lascio i vestiti della notte (se non ne ho resto nuda) e preparo il caffè, che è sempre lunghissimo e senza parlare e consumato sul suo letto. Poi Florio prende la macchina e andiamo a mangiare in un bar a caso lungo la costa.
Può essere il ripostiglio che serve le colazioni ai nottambuli, dove ci sono vassoi e vassoi di cornetti pesanti di creme o marmellate, frittelle unte e un odore violento di vaniglia e caffè; il ritrovo di uomini di fatica coi giornali impilati per terra e le sigarette divise per marca; può essere il ristoro lungo l'autostrada. Del resto non ha perfettamente importanza. Che ci sia sempre la strada che sgomitola via, il sole in faccia, l'appena coscienza del proprio riposo e del lavoro degli altri, le briciole e l'odore di burro e caffè, la sensazione salina della costa, invisibile e incombente, nella quale si scioglie quell'altra calma, a metà fra la saggezza e l'autodistruzione, che restituisce all'uomo l'inclinazione a perdere tempo, a lasciar stare, al silenzio e al nutrimento.  
Un giorno capita proprio di avere il sole in faccia, il mare dista non più di cento metri e sulla spianata di granito piroettano una trentina di tavoli rotondi minuscoli imbiancati da tovaglie fiammanti. Florio guarda affogare nel cappuccino le briciole del suo cornetto, e io gli leggo nella faccia, ma più di tutto nelle mani, un pensiero di esitazione e raccoglimento per il quale mi prendono immagini di dolore, come la notte in cui ho scoperto che fuma sigari. Senza di me.
Ma qui c'è una sensazione di universo, agita il cucchiaino e ha della schiuma sui baffi, una sensazione in non so quale modo sottile gigantesca aggrappata al sale i tavoli e ai suoi favoriti. È un lievito violento senza che la si possa vedere. Si conosce per l'ingombro e per come ingiunga sopportazione. A me sono gelate le mani ma forse anche la parte esterna delle cosce, e lui si pulisce i baffi con un suono come avesse già parlato e la voce appartenesse a un altro.
E in effetti è così, ha parlato da molto tempo: “e se tu puoi pensare una cosa per come credi che sia dovresti cercare di avere presente i confini, Fosca, i confini di quello che hai detto, che, vedrai, saranno sempre più ingrati di quel recinto liquido in cui hanno galleggiato prima di venire fuori, quando erano ancora nel buio della testa. I pensieri vengono fuori necessariamente da un movimento più alto, o se preferisci più profondo, in cui non si distinguono luce e distruzione; come succede per le bombe in cui la sopravvivenza è questione di distanza e non si può fare a meno di sentirsi attratti, e ciò che resta porta necessariamente sconforto e ricordo. Le scorie sono sempre imbarazzanti, non c'è dubbio, ma non se ne fa a meno, esattamente come il chiacchiericcio che adesso hai qui, no non pulirti” col cucchiaino mi tocca la fronte e quando alzo il tovagliolo mi trattiene il polso e bacia la fronte e succhia “che hai qui, in questa adorabile scatoletta miracolosamente chiassosa e vuota, non offenderti, tesoro, non offenderti per quello che sei, che sei già molto di più di tutti quelli che avrebbero potuto e non sono venuti al mondo. Se sapessi darti la sensazione delle possibilità. Ameresti tutti. Saresti poetessa. Berresti vino e finiresti perennemente gravida e spossata. Ma resta sporca di quello di cui ti macchiano gli altri, sfiorisci per i baci, macerati, insodisci a volte o invecchia di entusiasmo o disperazione: basterà lo stesso”. Mi prende in braccio “Anzi. Anima mia, se vuoi, lasciati ingravidare da me. Sai, esiste un posto sotto terra dove entrano solo di notte, sotto terra non esiste penombra ed è impossibile vedere senza luce artificiale, esiste una ragnatela lunga cento chilometri, ha pavimenti di linoleum e pareti luccicanti. Sembrano intonacate a cristalli e biancastre, ogni cinque metri portano confitti dei perni di acciaio zincato, perni come mani aperte, e su di esse dei globi al neon. Ogni mese una galleria chiude, è come una spugna o un corallo che vengono riempiti, che si accartocciano. E di cosa sono pieni, ti domanderai” mi mette una mano sulla pancia “sono pieni di scatole blindate. Per ogni scatola c'è un reattore che ha frantumato una parte infinitesimale di materia, una barretta, una deliziosa barretta di metallo, lucente, immaginati un braccialetto di uranio, immaginati una collana su questo tuo” prova a baciarmi ma non glielo permetto “splendido, splendido collo di cigno, mia scontrosa, e questa materia si è scissa nelle sue componenti atomiche trasformandosi in una sorta di vento torrido, in un grido, in un'esplosione nucleare addomesticata.
I depositi di scorie nucleari funzionano per accumulo e dimenticanza. Ogni volta che una galleria si riempie saldano una porta, le mani di zinco si chiudono sui globi e sulle scatole scende la notte. Cosa si può sentire laggiù, cosa si può vedere. Non pensare pensieri poetici. La risposta è: niente. L'uranio laggiù, o è plutonio, adesso mi confondo, sono lasciati nel cavo di una conchiglia di sale o di roccia o che so io nella speranza che nessun terremoto le porti alla luce per qualche decina di migliaia di anni. Migliaia di anni. Non si riesce nemmeno a immaginarlo. È così facile dimenticare ciò che non si vede. Ma l'uomo segnato non può lasciarsi persuadere, Fosca: laggiù c'è solo l'imbarazzo dei vestigi della luce e della distruzione, troppo virulenti per la salute umana.
Esattamente come i pensieri”.

Ma resta sporca di quello di cui ti macchiano gli altri, sfiorisci per i baci, macerati, insodisci a volte o invecchia di entusiasmo o disperazione: basterà lo stesso