Speciale: X-Men: 50 anni mutanti
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Prima una riflessione sulle regole
Alcuni lavori impongono regole proprie, anticipando alcuni mutamenti in atto, e diventano dei punti di riferimento per l’intero settore. Uno di essi è stato, senza dubbio, Uncanny X-Men della gestione Claremont.
Provo a riassumere in modo estremamente sintetico alcune delle regole che la serie ha imposto sul mercato:
- continuità stretta e progettata con anni di anticipo;
- evoluzione psicologica dei personaggi, secondo un movimento narrativo tipico delle soap opera;
- cambiamento costante degli equilibri strutturali alla serie, sostenuto da un impianto di fondo costante e riconoscibile;
- costruzione di climax narrativi funzionali a shoccare i lettori;
- allargamento “a macchia d’olio” della presenza dei concept di fondo della serie e dei suoi personaggi all’interno dell’intero mondo editoriale Marvel (per capitalizzare il più possibile il successo della serie, attraverso miniserie, spin-off e cross-over).
Uncanny X-Men non è stata pioniera su tutti questi temi, ma per anni ha rappresentato una delle massime espressioni e, senza dubbio, la serie di maggiore successo all’interno di questi parametri.
La cosa che credo sia importante evidenziare da subito, è che la testata impone tali regole in funzione del suo successo e che, contemporaneamente, tali regole sono la condizione essenziale per il successo stesso. Insomma, un meccanismo virtuoso che si auto-alimenta fino a far diventare la serie di Chris Claremont il successo editoriale più clamoroso e longevo della storia moderna dei comics di supereroi.
Il cambiamento e il successo nel fumetto seriale
Chiunque non conosca il mondo degli X-Men classici di Claremont, dovrebbe prendere in mano l’intero ciclo di storie realizzate in coppia con John Byrne, il cui culmine narrativo è rappresentato dalla saga di Fenice Nera. I mutanti di Claremont e Byrne, agli inizi degli anni ’80 del secolo scorso, sono uno dei migliori esempi della concezione moderna del fumetto seriale americano: un progressivo e costante rinnovamento e ribaltamento degli equilibri interni alla serie, sostenuto da uno scenario di base costante e riconoscibile.
Tale scenario, che potremmo chiamare pre-testo narrativo, è costruito attraverso alcuni semplici idee:
- la classica lotta tra Bene e Male (che supera tuttavia le schematizzazioni manichee e moraliste della golden age, attraverso un relativismo etico dinamico e realistico);
- il razzismo verso qualunque cosa sia classificato come diverso;
- il multiculturalismo dei personaggi (che trova il suo riflesso speculare nella polifonia di voci e di caratteri che si incontrano/scontrano storia dopo storia);
- la riflessione “politica” sul concetto di potere e di controllo (e di perdita di controllo).
Il pre-testo ha rappresentato un importante elemento di novità, non solo per lo specifico dei suoi contenuti, ma soprattutto per la consapevolezza e la maturazione che ha raggiunto nel corso degli anni, a un livello prima impensabile in altri fumetti seriali. Si tratta di uno scenario flessibile ma riconoscibile, stabile ma sufficientemente aperto da favorire continue evoluzioni e “rivoluzioni” narrative, che hanno attraversato negli anni le vicende dei personaggi degli X-Men.
È proprio nell’equilibrio tra pre-testo costante e rivoluzioni narrative che si spiega il successo della serie degli X-Men. Al lettore, il gusto di ritrovarsi a suo agio all’interno di tematiche riconoscibili e familiari (alcune delle quali poste già a fondamento nella serie classica degli X-Men di Stan Lee e Jack Kirby) e di sorprendersi numero dopo numero nello scoprire cosa potesse succedere ai personaggi tanto amati.
Alcuni esempi: la perversione “metafisica” di Jean Grey nella saga di Fenice Nera; il futuro apocalittico di Giorni Di Un Futuro Passato; le evoluzioni personali di Wolverine, teso tra un’improbabile ricerca di equilibrio interiore e la sua sete di sangue; il rapporto contraddittorio e mutevole tra Xavier e Magneto; l’inserimento nel gruppo di personaggi difficili, se non ambigui, come Rogue e l’evoluzione caratteriale al limite della schizofrenia di altri protagonisti, come Tempesta.
Per anni, chi prendeva in mano un numero degli Uncanny X-Men si chiedeva cosa sarebbe successo di nuovo quella volta.
Il punto di non ritorno, la Marvel Comics non è più d’accordo
Claremont ha spinto a tal punto in avanti tale impostazione, da provocare scossoni narrativi ed editoriali eclatanti, come il periodo di “invisibilità” nel ritiro australiano, iniziato su Uncanny X-Men #229 (e la scomparsa dei mutanti da tutte le serie Marvel), o come quello che, in definitiva, ha portato alla rottura dello sceneggiatore con la Marvel Comics nel periodo in cui la direzione era affidata al “normalizzatore” Bob Harras (cambiamenti che avrebbero previsto, tra l’altro, la morte della superstar Wolverine).
È osservando tali cambiamenti e lo show-down finale che ha portato, nel 1991, alla dolorosa separazione tra Claremont e la Marvel, che ci è possibile comprendere il paradosso che caratterizza il fumetto seriale statunitense da decenni. Il successo di una serie come Uncanny X-Men si è costruito attraverso l’innovazione,
Claremont ha avuto la forza di mantenere, anche nei momenti di maggiore condizionamento editoriale da parte della dirigenza, la lucidità e la forza (contrattuale) di imporre almeno in buona parte le proprie scelte, fino al punto di non ritorno della gestione Harras, che ha imposto un sostanziale congelamento, attraverso cross-over e saghe a ripetizione, normalizzando le dinamiche narrative dell’intero universo mutante, ponendo malamente l’accento sull’ingrediente sbagliato della formula vincente: la spettacolarizzazione dei disegni e dei “fenomeni” emergenti in quegli anni (Jim Lee e Marc Silvestri su tutti).
Le idee di Claremont sono, col senno di poi, in completa continuità con quanto realizzato e sviluppato negli anni precedenti, e non rappresentano di certo scelte particolarmente clamorose o innovative. L’autore aveva semplicemente proseguito, anche negli ultimi mesi della propria gestione, a rivalutare il suo patrimonio narrativo attraverso il cambiamento, per colpire il lettore e non annoiare se stesso. Peccato che l’irrigidimento editoriale ed economico della Marvel ha impedito l’assorbimento e la comprensione di tale ennesima evoluzione.
Per sempre Marvel, un triste ritorno a casa
Parzialmente più felice, ma comunque dimenticabile, la sua breve gestione dei Fantastici Quattro, che ha preceduto il ritorno ai mutanti, dove se non altro l’autore ha mostrato di sapersi ancora divertire, privo dalla pesante eredità di un confronto con il suo lavoro precedente.
In ogni caso, Claremont è tornato per restare. Una ricompensa tardiva per il monumentale lavoro svolto negli anni passati e per la quantità imbarazzante di soldi che aveva portato nelle casse della Marvel Comics.
La gestione della serie Exiles o il ritorno sull’agonizzante Excalibur sono a loro volta dimenticabili parentesi di una carriera ormai in declino, prima che Joe Quesada decida di dare all’autore lo spazio per riprendere le fila di quanto aveva lasciato in sospeso negli anni ’90, al momento del divorzio con la Casa delle Idee.
Per sempre X-Men, ovvero la fine del fumetto seriale
Nella serie, iniziata nel giugno del 2009, Claremont è fedele al suo motto e sviluppa, nel giro di due cicli narrativi, una serie di cambiamenti straordinari e, per molti versi, difficilmente comprensibili.
X-Men Forever è una serie paradosso: fuori dalla continuity ufficiale della Marvel Comics (concetto che, come ha più volte dimostrato Grant Morrison, non ha più nessuna attualità) ha l’ambizione di tornare a sviluppare temi vecchi di vent’anni. Una serie che “non esiste” vuole rinnovare concetti e percorsi narrativi ormai dimenticati. Siamo nella piena, totale involuzione del concetto di serialità, che appare per molti versi come l’ultimo, straziante canto del cigno di un’epoca.
Lo sceneggiatore si impegna e sembra giocare con rinnovato entusiasmo, ma il meccanismo è ormai rotto. La sensibilità ha perso qualunque contatto con il reale e non riesce a toccare in alcun modo l’emozione del lettore. Le idee appaiono non solo invecchiate, ma tutto sommato decisamente ridimensionate dal tempo, e dalle tante, reali innovazioni che sono avvenute negli anni (anche nella famiglia dei mutanti, basti pensare alla gestione Morrison).
Claremont, come emerge anche dalle interviste rilasciate di recente (compresa l’ultima, resa in esclusiva per Lo Spazio Bianco), appare amareggiato e posseduto da un rimpianto insanabile che si riflette nell’impostazione delle sue storie. L’autore sembra costantemente in lotta per ritrovare il momentum ormai sparito; sembra più interessato a rivivere il passato che a raccontare qualcosa di nuovo.
X-Men Forever è quindi un monumento funebre a un’idea di fumetto seriale che non è più attuale. È un viaggio nostalgico che non emoziona per i suoi contenuti narrativi, ma per il senso di straniamento e di malinconia che caratterizza ogni parabola discendente. Ed è, in definitiva, un grande insegnamento sul paradosso della condizione umana, la creatività e la serialità: niente è destinato a ripetersi senza rinnovarsi, il rinnovamento è un’illusione.
X-Men Forever in Italia è stata presentato su:
Marvel Mega #61, 67, 70, 81
Marvel Italia – Panini Comics, 2010-2013
pagine. variabili, brossurato, colori – € 5,30
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