X-Men Seconda Genesi: I tanti padri della rinascita degli X-Men

Creato il 18 settembre 2013 da Lospaziobianco.it @lospaziobianco
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Che l’uomo abbia paura di ciò che non conosce, del nuovo e del cambiamento è un concetto universalmente riconosciuto.
Ma questa regola vale anche per il gradino evolutivo successivo della nostra razza? Vale anche per l’Homo sapiens superior, comunemente detto, nell’universo Marvel, mutante?
A ben guardare la copertina di Giant-Size X-Men #1 (uscito nel febbraio del 1975 pur riportando la data di maggio dello stesso anno) sembra proprio di sì.
Una cover, citatissima e ancora di più imitata, che non si è limitata a segnare la storia di alcuni dei personaggi più celebri della cultura pop contemporanea, ma che ha anche avuto la capacità di racchiudere in una sola immagine un concetto potentissimo: fuori il vecchio, avanti il nuovo.
E il vecchio, in questo caso, era rappresentato dalla prima generazione di X-Men, quelli creati da Stan Lee e Jack Kirby, nel 1963.

Partiamo dall’inizio, o meglio, dalla fine: marzo 1970, esce il numero 66 dell’albo degli X-Men scritto da Roy Thomas e disegnato da Sal Buscema. Sarà, per qualche tempo, l’ultimo numero della serie a contenere storie inedite. Nonostante l’ottimo lavoro negli ultimi numeri di Thomas e, soprattutto, di Neal Adams la serie non vendeva abbastanza. Una grossa crisi di mercato bussava ormai alle porte e gli X-Men furono tra i primi a pagare. Dal numero 67 la serie diventò bimestrale e iniziò a presentare ristampe di vecchi episodi.

Da sinistra: Jack “The King” Kirby e Stan “The Man” Lee

Per Ciclope, Marvel Girl, Bestia, l’Uomo Ghiaccio e Angelo era il momento di sedersi in panchina.
La ristampa andò avanti per cinque anni, fino al numero 93 dell’aprile del 1975.
I pupilli di Xavier non scomparvero del tutto dalle pagine dei fumetti Marvel. Continuavano ad apparire come guest star in storie dell’Uomo Ragno e dei Vendicatori suscitando l’attenzione dei lettori che, evidentemente, non li avevano ancora dimenticati.
Inoltre, aspetto editorialmente molto strano, i dati di vendita delle ristampe degli X-Men erano significativamente più alti delle altre ristampe bimestrali.
Furono questi i segnali che indussero la Casa delle Idee a decidere di rilanciare la serie.
Almeno questa è la versione più o meno ufficiale. In realtà Roy Thomas non si arrese mai del tutto alla fine dei suoi X-Men e probabilmente stava riflettendo da tempo su come farli tornare alla ribalta; da qui le apparizioni su altre testate di successo. In quel tempo Thomas ricopriva  il ruolo di caporedattore della Marvel e, forte del suo potere e della sua influenza, stava aspettando solo il momento giusto.
L’occasione gli venne da Al Landau, a quel tempo presidente della Marvel e proprietario della TransWorld, società che si occupava di cedere all’estero i diritti dei fumetti americani.

Roy Thomas

L’idea di Landau era di creare dei personaggi dalla connotazione internazionale per rendere più agevole la cessione dei diritti nel mondo, che già stava portando interessanti risultati (si pensi per esempio all’Editoriale Corno che in Italia pubblicava un notevole quantitativo di fumetti Marvel, versando fior di royalties alla casa madre). Thomas colse la palla al balzo e, con l’approvazione del Sorridente Stan Lee, dal 1974 iniziò a svilupparla.
Purtroppo non tutte le ciambelle escono col buco (o con la X in questo caso) e nel 1975 Thomas, soffocato dalla mole di lavoro che si era generata, dovette fare un passo indietro e cedere il timone della redazione a Len Wein.
Wein non sostituì solo Thomas nel ruolo di caporedattore; prese anche il posto di Mike Friedrich, che Thomas aveva ingaggiato, insieme al disegnatore Dave Cockrum, per il progetto del rilancio degli X-Men.

Mike Friedrich

Wein, come dichiarò successivamente in modo esplicito, non era interessato alle strategie di mercato, anche se l’idea di metter su un gruppo multietnico lo stimolava.
Lo dimostra il fatto che tra i nuovi X-Men, oltre al canadese Wolverine e al tedesco Nightcrawler, provenienti da paesi che potevano essere teoricamente mercati  editoriali interessanti per la TransWorld, c’erano anche il russo Colosso e l’africana Tempesta, che, evidentemente, erano rappresentanti di realtà territoriali che difficilmente sarebbero potute essere interessate ai fumetti americani.
Così, all’inizio del 1975, le splendide matite di Dave Cockrum giunsero nelle mani dei lettori americani, nell’albo Giant-Size X-Men #1 dal costo di copertina di cinquanta cent!

Dave Cockrum

Restando sull’aspetto editoriale della vicenda, se il lavoro di Wein riscosse un discreto, per quanto non eclatante, successo tra i lettori, non piacque a livello redazionale. Forse gli fu fatale non aver tenuto conto dell’opinione dei piani alti che volevano un concetto di “internazionale” più utilitaristico, forse semplicemente Wein aveva altri progetti, ma, di fatto, poco dopo lasciò il posto di caporedattore/direttore editoriale a Marv Wolfman. Sul fronte delle storie invece, l’autore aveva realizzato il soggetto per Giant-Size X-Men #2, ma non ne scrisse mai sceneggiatura e testi. Wein affidò questo compito a Chris Claremont…e nulla sarebbe stato più lo stesso.

Così come era stato concepito, tuttavia, il secondo Giant-Size non uscì mai.
Si fece una scelta diversa. Lo speciale fu spezzato in due parti, parzialmente riscritto e trasformato in X-Men 94 e 95. La serie regolare riprendeva la sua corsa, che l’avrebbe portata nell’ottobre del 1978, col numero 114, a diventare Uncanny X-Men e a continuare spedita fino ai nostri giorni (In seguito uscì un albo dal titolo Giant-Size X-Men #2 ma si limitava a ristampare tre storie di Roy Thomas e Neal Adams, dietro una splendida copertina di Gil Kane).
Il numero 96, “La notte del demone”, fu il primo completamente realizzato ad opera di Claremont. Cockrum invece era salito sulla barca della seconda generazione degli X-Men fin dall’inizio. Il progetto gli era stato presentato da Thomas come una sorta di “Blackhawk mutante”. Blackhawk è un personaggio della golden age, inserito nell’universo DC, con protagonista un pilota d’aereo supportato da una squadra di suoi colleghi dalle origini internazionali e di cui l’autore era molto appassionato.

Blackhawk

L’intuizione geniale di chi affidò il progetto a Cockrum fu di dargli anche carta bianca.
L’artista riprese Nightcrawler da una vecchia idea avuta mentre era al lavoro su La Legione dei Super-Eroi della DC; ridefinì leggermente l’aspetto dell’artigliato Wolverine (eliminando alcuni dettagli come i baffetti sul costume) che, se pur apparso per la prima volta disegnato da Herb Trimpe in una storia di Hulk, fu graficamente concepito da John Romita Senior; fuse in un unico personaggio due donne, Black Cat e Tifone, regalando al mondo quella meraviglia visiva che è Tempesta; infine introdusse Colosso, Thunderbird e riprese adattandoli leggermente, da alcune vecchie storie, Banshee e Sole Ardente. Il gruppo era al completo.
La forza dirompente che i disegni dell’autore ebbero sul futuro successo della seria, fu assoluta. Il tratto era al tempo testo moderno e classico. Conteneva la baldanza statuaria delle creature di Neal Adams e la plasticità del tratto di John Romita Sr.
Una fusione perfetta che sfociò in un tratto denso, pastoso, pieno. In due parole: potente ed epico.  

Epicità che trasudava anche dalla scrittura di Claremont. I nuovi X-Men non erano ragazzini per bene dell’America degli anni ’60 accolti da Xavier, come l’Uomo Ghiaccio, Angelo e Bestia. Non erano neppure orfani in cerca di una guida come Ciclope. Erano in parte uomini già adulti, come Banshee, Wolverine, Thunderbird e, seppur non anagraficamente, Sole Ardente, in parte personaggi che se pur giovani portavano sulle loro spalle numerose tragedie o esperienze di vita che ne avevano formato il carattere, come Nightcrawler, Tempesta e Colosso.


Il tono delle storie non poteva restare lo stesso. Inoltre, era nell’intenzione dei fautori del cambiamento porre i nuovi protagonisti in situazioni notevolmente più complesse di quelle che la seria aveva presentato con la prima generazione di mutanti.
Che c’è qualcosa di diverso si capisce da subito: “Non è un trucco! Non è un sogno! Un X-Men morirà” recita lo strillo del numero 95.
E così fu. Qualche tempo prima si era provato un esperimento narrativo del genere anche in Amazing Spider-Man, con la sconvolgente morte di Gwen Stacy, una delle poche (più o meno) definitive della storia del fumetto supereroistico. La morte di James Proudstar, a.k.a. Thunderbird, non sarà stata altrettanto clamorosa, anche perché parliamo di due personaggi con caratura e storia editoriale molto diversa, ma lasciò il segno. Sconvolse la squadra, sconvolse soprattutto il suo leader, Ciclope, l’unico della vecchia generazione a essere rimasto col gruppo.
Sconvolse i lettori.
Il gioco si era fatto serio. Gli X-Men iniziavano a morire e, in futuro, questo sarebbe stato quasi un marchio di fabbrica per i supereroi mutanti.
Allora, in tempi non sospetti, fu una scelta coraggiosa. La prima di una lunga serie che, piano piano, premiò la casa editrice con delle vendite portentose, facendo giungere e restare per anni e anni la serie in cima a tutte le classifiche di vendita. Quale fu l’alchimia che Claremont riuscì a raggiungere è difficile da identificare.
Forse fu la sua capacità di legare le storie alla realtà che lo circondava (l’atteggiamento all’Errol Flynn di Nightcrawler o il disorientamento del compagno Colosso di fronte all’american life style o ancora le ambientazioni spaziali, proprio mentre Star Wars spopolava) o forse fu la prosa e il ritmo narrativo unico di Claremont, che del mondo teatro, grande passione del giovane Chris,  ha tanto.
Risposta non c’è, o forse chi lo sa, smarrita del tempo sarà, per citare Bob Dylan.

Resta tuttavia la più grande operazione di rilancio di una seria a fumetti per qualità dei risultati e del successo in termine di vendita e il tutto parte…da una metafora grafico-narrativa.

Chris Claremont

Torniamo alla copertina di Giant-Size X-Men #1: sullo sfondo abbiamo la vecchia generazione spaventata, impaurita. Al centro la nuova generazione balza minacciosa fuori con un effetto visivo che, sembra, li porti a sfondare la pagina. Verrebbe da chiedersi di cosa hanno paura Ciclope & co.?
Di essere messi da parte? O c’è un’altra minaccia che provoca loro terrore?
Non è chiaro. Ciò che sappiamo che è l’albo speciale si apre con il Professor Xavier in giro per il mondo a reclutare nuovi mutanti. La squadra originale degli X-Men ha bisogno di aiuto, essendo stata catturata da un cattivo quasi Kirbyano: Krakoa l’Isola Vivente, organismo che si nutre dell’energie dei mutanti rendendoli incoscienti.
Nel giro di poche pagine Havok, Polaris, Angelo e Marvel Girl vengono messi in salvo, ma il vero scontro, quello che deve ancora iniziale, sarà generazionale.
Tornati nella Scuola per giovani dotati, copertura della base degli X-Men, iniziano subito le defezioni: per primo Sole Ardente, troppo legato al suo paese, il Giappone,  per legarsi ad un altro, e poco dopo, Ciclope escluso, tutto il gruppo dei primi allievi di Xavier se ne andrà.

La metafora, voluta o casuale, è palese: per la sopravvivenza della testata, i vecchi X-Men hanno dovuto chiedere aiuto, dato che erano intrappolati nell’oblio delle ristampe. Per loro, ora, non c’è più posto e il nuovo diventa presente per essere un giorno futuro, perciò il passato si deve fare da parte.

Resta solo Ciclope, stoico, legato al sogno del suo mentore, per addestrare i nuovi arrivati. A dire il vero Claremont avrebbe voluto far restare anche Jean Grey, personaggio a cui era legatissimo per letture adolescenziali, ma le tavole che la vedevano in partenza erano già state inchiostrare e non fu possibile introdurre questo cambiamento. Poco male. Nel giro di una manciata di numeri il padre adottivo della nuova generazione di Uomini-X la reintrodurrà, rendendola per gli anni a venire una delle più amate protagoniste del fumetto supereroistico di tutti i tempi, immolandola al sacrificio supremo per scolpirla in modo indelebile nella mente dei lettori. Ma questa, è un’altra X-storia.

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