Non ho mai ritenutoimprescindibile conoscere la biografia di un autore per comprenderne la suaopera. Ho sempre creduto che un testo artistico dovesse, innanzitutto, esserein grado di parlare in sé e per sé a coloro a cui è destinato. Ma un film come Yomigaeri no chi mi spinge, in parte, aricredermi. Il suo potente fascino, o almeno quello di alcune sue parti, nonpotrebbe essere avvertito senza conoscere un fatto essenziale della vita edella carriera del suo autore. Toyoda Toshiaki è stato tra la fine degli anniNovanta e la prima metà degli anni Zero, uno dei cineasti più importanti delNuovo cinema giapponese, come testimoniano, in misura diversa, film quali Pornostar, Unchain, Aoi Haru (Blue Spring), Nine Souls e KūchūTeien(Hanging Garden), sui cui ritorneremocertamente sulle ‘pagine’ di questo blog. Ma nel 2005, arrestato per possessodi stupefacenti, e, secondo un metodo frequente in Giappone, isolato eallontanato bruscamente dal mondo del cinema, la sua carriera subisce un gravearresto. Dopo quattro anni di silenzioobbligato, Yomigaeri no chirappresenta così la resurrezione - «yomigaeri», «rebirth» - di un cineasta.Girato con un budget ridotto – e non poteva essere altrimenti – il film siambienta in un lontano passato mitico e astorico, dove gli uomini convivono conun mondo immaginario. La storia, ispirata a una leggenda più volte messa inscena dal kabuki e dal bunraku, è quella di un massaggiatore itinerante, Oguri(interpretato da Nakamura Tatsuya,percussionista del gruppo «Twin Tail»), che finisce nell’accampamento diun signore locale, Dayo (Shibukawa Kyohiko), crudele e malaticcio, nonostantela giovane età, a cui presta i suoi servigi e l’arte delle sue mani. Accortosiche la sua donna, Terute (Kusakari Mayu) è attratta dal nuovo venuto, Dayo loavvelena, prima, e finisce con la spada, poi.Giunto in una sorta di limbo, a metà strada fra l’inferno e il paradiso,Oguri ne convince il suo guardiano a rispedirlo sulla terra. Fatto ritorno nelmondo dei vivi, l’uomo si scopre privo di ogni forza ed energia. Ad accudirloci penserà Terute, nel frattempo fuggita dal campo del suo signore. Ma Daio nonne vuole sapere e, raggiunta la donna, la uccide con un colpo di spada. Rimastosolo, Oguri riesce a raggiungere una magica pozza d’acqua rossa (sangue?),grazie a cui, dopo esservisi immerso, ritrova le sue energie.L’uomo potrà così portare a termine la suavendetta contro Daio, prima di morire e rinascere ancora insieme a Terute. Quella di Yomigaeri no chi è così una storia di morti e rinascite, cheriecheggia in modo evidente la sorte dello stesso Toyoda, sia come uomo, siacome cineasta. I momenti di maggiore intensità del film sono, infatti, quellilegati alla ‘convalescenza’ di Oguri e alla sua rinascita vera e propria; primale lunghe scene in cui l’uomo privo di energia è trascinato nei boschi su unaslitta, che Terute traina a fatica; e poi, quando si immerge nella magica pozzache gli consente, davvero, di risorgere. Quest’ultima sequenza si affida sia almontaggio,sia al long take dinamico persprigionare tutta la propria forza. Dapprima l’immersione di Oguri è associataalle immagini di Terute che trascina la slitta, e un dettaglio al rallentatoremostra la corda che si spezza (il necessario, e un po’ nicciano,strappo del cordone ombelicale, come niccianaè la logica dell’eterno ritorno che soggiace al film); poi le immaginidell’uomo che urla la propria ritrovata energia sono accompagnate da una lungae ininterrotta ripresa in movimento (quasi cinque minuti) che lo avvolge esostiene, sino a che una dissolvenza in rosso (il colore preferito da Toyoda)pone termine alla sequenza. Il tutto è accompagnato dalla “liquida” esuggestiva musica dello stesso Nakamura e delle «Twin Tail». Se associamoqueste immagini (e questi suoni) a quella che è stata la drammatica storia di Toyodae alla sua resurrezione, che questo film rappresenta,dobbiamo riconoscere ad esse un rara forzaespressiva, che ne fa uno dei momenti più alti del cinema giapponese del nuovomillennio. Altri elementi che caratterizzanoil film sono: l’attenzione al paesaggio (che gli conferisce una dimensionequasi mistica, o se preferite un po’ new age, insieme a un andamento moltoallentato dello sviluppo narrativo, favorito anche dall’insistenza deiralenti); l’adesione dell’autore al suo protagonista (suo evidente alter ego, e alla resa dei conti unoutsider simile a quelli degli altri film di Toyoda); l’insistenza – ancheattraverso i dialoghi – nel definire il mondo dei vivi come un inferno,peggiore dell’inferno vero e proprio; un certo gusto per l’astrazione (inparticolare nel prefinale, in cui le teste decapitate di Oguri e Dayocontinuano la loro lotta, immerse in un liquido rosso, quasi trasformandosiesse stesse in macchie di colore); e, infine, un buona dose di humor (come ènella rappresentazione del perfido Dayo, in realtà una figura basso mimetica,che soprattutto ci fa sorridere nella sua crudele dabbenaggine; e, soprattutto,nella scena in cui gli uomini dello stesso Dayo tengono in mano i teschi deidue rivali e litigano nel sostenere quale sia dell’uno e quale dell’altro).[Dario Tomasi]
Non ho mai ritenutoimprescindibile conoscere la biografia di un autore per comprenderne la suaopera. Ho sempre creduto che un testo artistico dovesse, innanzitutto, esserein grado di parlare in sé e per sé a coloro a cui è destinato. Ma un film come Yomigaeri no chi mi spinge, in parte, aricredermi. Il suo potente fascino, o almeno quello di alcune sue parti, nonpotrebbe essere avvertito senza conoscere un fatto essenziale della vita edella carriera del suo autore. Toyoda Toshiaki è stato tra la fine degli anniNovanta e la prima metà degli anni Zero, uno dei cineasti più importanti delNuovo cinema giapponese, come testimoniano, in misura diversa, film quali Pornostar, Unchain, Aoi Haru (Blue Spring), Nine Souls e KūchūTeien(Hanging Garden), sui cui ritorneremocertamente sulle ‘pagine’ di questo blog. Ma nel 2005, arrestato per possessodi stupefacenti, e, secondo un metodo frequente in Giappone, isolato eallontanato bruscamente dal mondo del cinema, la sua carriera subisce un gravearresto. Dopo quattro anni di silenzioobbligato, Yomigaeri no chirappresenta così la resurrezione - «yomigaeri», «rebirth» - di un cineasta.Girato con un budget ridotto – e non poteva essere altrimenti – il film siambienta in un lontano passato mitico e astorico, dove gli uomini convivono conun mondo immaginario. La storia, ispirata a una leggenda più volte messa inscena dal kabuki e dal bunraku, è quella di un massaggiatore itinerante, Oguri(interpretato da Nakamura Tatsuya,percussionista del gruppo «Twin Tail»), che finisce nell’accampamento diun signore locale, Dayo (Shibukawa Kyohiko), crudele e malaticcio, nonostantela giovane età, a cui presta i suoi servigi e l’arte delle sue mani. Accortosiche la sua donna, Terute (Kusakari Mayu) è attratta dal nuovo venuto, Dayo loavvelena, prima, e finisce con la spada, poi.Giunto in una sorta di limbo, a metà strada fra l’inferno e il paradiso,Oguri ne convince il suo guardiano a rispedirlo sulla terra. Fatto ritorno nelmondo dei vivi, l’uomo si scopre privo di ogni forza ed energia. Ad accudirloci penserà Terute, nel frattempo fuggita dal campo del suo signore. Ma Daio nonne vuole sapere e, raggiunta la donna, la uccide con un colpo di spada. Rimastosolo, Oguri riesce a raggiungere una magica pozza d’acqua rossa (sangue?),grazie a cui, dopo esservisi immerso, ritrova le sue energie.L’uomo potrà così portare a termine la suavendetta contro Daio, prima di morire e rinascere ancora insieme a Terute. Quella di Yomigaeri no chi è così una storia di morti e rinascite, cheriecheggia in modo evidente la sorte dello stesso Toyoda, sia come uomo, siacome cineasta. I momenti di maggiore intensità del film sono, infatti, quellilegati alla ‘convalescenza’ di Oguri e alla sua rinascita vera e propria; primale lunghe scene in cui l’uomo privo di energia è trascinato nei boschi su unaslitta, che Terute traina a fatica; e poi, quando si immerge nella magica pozzache gli consente, davvero, di risorgere. Quest’ultima sequenza si affida sia almontaggio,sia al long take dinamico persprigionare tutta la propria forza. Dapprima l’immersione di Oguri è associataalle immagini di Terute che trascina la slitta, e un dettaglio al rallentatoremostra la corda che si spezza (il necessario, e un po’ nicciano,strappo del cordone ombelicale, come niccianaè la logica dell’eterno ritorno che soggiace al film); poi le immaginidell’uomo che urla la propria ritrovata energia sono accompagnate da una lungae ininterrotta ripresa in movimento (quasi cinque minuti) che lo avvolge esostiene, sino a che una dissolvenza in rosso (il colore preferito da Toyoda)pone termine alla sequenza. Il tutto è accompagnato dalla “liquida” esuggestiva musica dello stesso Nakamura e delle «Twin Tail». Se associamoqueste immagini (e questi suoni) a quella che è stata la drammatica storia di Toyodae alla sua resurrezione, che questo film rappresenta,dobbiamo riconoscere ad esse un rara forzaespressiva, che ne fa uno dei momenti più alti del cinema giapponese del nuovomillennio. Altri elementi che caratterizzanoil film sono: l’attenzione al paesaggio (che gli conferisce una dimensionequasi mistica, o se preferite un po’ new age, insieme a un andamento moltoallentato dello sviluppo narrativo, favorito anche dall’insistenza deiralenti); l’adesione dell’autore al suo protagonista (suo evidente alter ego, e alla resa dei conti unoutsider simile a quelli degli altri film di Toyoda); l’insistenza – ancheattraverso i dialoghi – nel definire il mondo dei vivi come un inferno,peggiore dell’inferno vero e proprio; un certo gusto per l’astrazione (inparticolare nel prefinale, in cui le teste decapitate di Oguri e Dayocontinuano la loro lotta, immerse in un liquido rosso, quasi trasformandosiesse stesse in macchie di colore); e, infine, un buona dose di humor (come ènella rappresentazione del perfido Dayo, in realtà una figura basso mimetica,che soprattutto ci fa sorridere nella sua crudele dabbenaggine; e, soprattutto,nella scena in cui gli uomini dello stesso Dayo tengono in mano i teschi deidue rivali e litigano nel sostenere quale sia dell’uno e quale dell’altro).[Dario Tomasi]
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