E così eccolo in sala con questo nuovo lavoro, Youth - La giovinezza, per il quale chiama a raccolta un cast internazionale di primo piano in un'ambientazione originale.
Protagonisti sono Fred (Michael Caine), ex compositore e direttore d'orchestra, e Mick (Harvey Keitel), regista famoso che sta scrivendo, insieme a un gruppo di sceneggiatori (che - a tratti - ricordano pericolosamente quelli di Boris!), il suo ultimo film che sarà interpretato dalla star Brenda Morel.
I due anziani amici sono ospiti di un grande albergo extra-lusso in mezzo alle montagne svizzere, in un'ambientazione che trasmette al contempo un senso di bellezza e maestosità, ma suggerisce anche una condizione claustrofobica e asettica.
La vita nel grande albergo scorre uguale tutti i giorni, tra passeggiate, trattamenti estetici, bagni nelle piscine termali, colazioni, pranzi, cene e spettacoli serali di dubbia e varia qualità. Intorno a Fred e Mick si muove un'umanità varia che comprende gli altri ospiti (la figlia di Fred lasciata dal marito (Rachel Weisz), l'attore in cerca di ispirazione (Paul Dano), un famoso calciatore sudamericano che gira con la bombola dell'ossigeno, una anziana e regale coppia che non spiccica una parola, il monaco buddista), nonché il personale dell'albergo (la giovane massaggiatrice che ama ballare musica pop davanti alla tv, la escort bambina che arriva ogni sera accompagnata dalla madre).
La cifra sorrentiniana è evidente nel ricercato mix di estetica visiva e musicale che - soprattutto negli ultimi due film - ha trovato la sua massima espressione. La fotografia di Bigazzi è a tratti rarefatta, ai limiti del manierismo, come piace a Sorrentino, ma tale cifra non è gratuita come il trailer lascerebbe immaginare e fa temere. La musica disperata e malinconica di Mark Kozelek (che compare anche in un cameo iniziale interpretando se stesso) è perfetta nel commentare e riempire quei vuoti che volutamente la storia raccontata non intende colmare.
Ho amato molto i primi due terzi del film, frammenti di vite di persone, illuminate brevemente dallo sguardo del regista, parole, osservazioni sul mondo, sensazioni portate allo scoperto per un attimo, ma spesso senza trovare alcuna spiegazione definitiva e senza voler avere pienamente un senso.
A me Sorrentino questo è sembrato volesse raccontarci: la molteplicità delle nostre identità, quello che si vede e quello che resta nascosto, quello che mostriamo e quello che teniamo per noi, quello che sentiamo e quello che riusciamo a esprimere, quello che agiamo e quello che da cui veniamo agiti, quello che interpretiamo e quello che ci scorre dentro. Ma anche il consesso umano che - anche nelle sue relazioni più forti e più intime - si configura come un pallido compromesso della nostra complessità, e al contempo l'unica possibile occasione che abbiamo per scoprire l'immagine di noi e degli altri che si rivela solo al completamento del puzzle.
Poi però arriva in scena Brenda Morel (una Jane Fonda quasi inossidabile) e tutto - da quello stato rarefatto, frammentato, scomposto in cui si trovava - rapidamente precipita, svelando verità, determinando scelte e rompendo in qualche modo la condizione di sospensione. E da lì in poi ho fatto fatica (un po' come mi era accaduto con This must be the place e in parte anche con La grande bellezza) a mantenere viva la sintonia con Sorrentino e a non percepirne qualche forzatura un po' fastidiosa.
Va però dato atto che la galleria di personaggi maschili dolenti e grotteschi che Sorrentino ha inanellato nei suoi film a partire da L'uomo in più compongono un personale e inconfondibile ritratto umano contemporaneo che - credo - resterà in qualche modo in eredità al cinema italiano e internazionale.
Voto: 3,5/5