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YVES SAINT LAURENT | Delle ceneri, dell’abbandono e del rimpianto del nostro amato amor

Creato il 10 dicembre 2014 da Amedit Magazine @Amedit_Sicilia

yves_saint_laurent (3)di Carlo Camboni

La verità appartiene solo a coloro che la conoscono,

gli altri hanno il diritto di avere quella che si sono inventati.

 

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Le vie per cercare di sfuggire alla pazzia in questo scorcio di terzo millennio sono chiuse per lavori in corso. Serietà, integrità e ironia non sempre sono salvifiche, non ci resta che la scrittura anche per elaborare un lutto, posto che qualche volta si può decidere d’impazzire del tutto per libera scelta, perdersi alla maniera dei personaggi pirandelliani pur di sfuggire alla realtà. Sia come sia, scisso o intero, il flusso di coscienza di Pierre Bergé si esprime attraverso un epistolario brutale e necessario, ma anche insolito e bizzarro visto che il destinatario delle lettere, Yves Saint Laurent, non solo è defunto ma è anche l’uomo che l’autore ha amato per cinquant’anni; un amour fou come tanti, quasi non importa che sia questo in particolare, che sia reale o inventato. Emerge dalle lettere il racconto di un amore delirante e vagamente malato iniziato nel 1958 che ha come background lo scintillante mondo della moda; un dettaglio, un elemento come un altro perché la fama e il glamour, fugaci e mortali, non mi interessano quasi mai se non quando leggo un’autobiografia.

La fama di un artista non è che un indizio che stimola la mia curiosità, quel che di morboso c’è nell’ammettere che l’effimero ha attinenza con l’arte, talvolta: Yves Saint Laurent e il suo compagno e socio Pierre Bergé si sono amati perdutamente, ma anche odiati lasciati e ripresi amando altri uomini in un turbinio di gelosie da melodramma, bevute leggendarie e scenate memorabili

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che tutto ha travolto tranne la costanza del loro legame, la presenza a se stessi nell’essere presenti l’uno all’altro in ogni momento della loro esistenza. Che cosa resta di tutto l’amore che abbiamo provato o creduto di provare per il nostro amato quando viene a mancare l’oggetto del nostro sentimento? Come si racconta un distacco e dove comincia e finisce l’amore che resta, cosa potrebbe arginarlo o contenerlo, perché posto che deve continuare a vivere trasformandosi in quanto il cambiamento è l’unico modo plausibile per evitare razionalmente la follia, quale strumento tra quelli che conosciamo, farmaci a parte, è il più adatto per lenire il dolore di una perdita? Quanto egocentrismo in amore, quanto amiamo il teatro dell’amore, soprattutto se è amor perduto! Bergé scrive all’amico e compagno di una vita a partire dai momenti successivi alla sua morte e per oltre un anno, presentandosi con carta e penna o più verosimilmente con tastiera e cognac a degli appuntamenti fissati da qualche parte nell’emisfero boreale della sua mente. Ah, a quanti appuntamenti arriviamo in ritardo, ad altri manchiamo del tutto; ad evocare i miei appuntamenti mancati impiegherei un’altra vita oltre questa e perderei tempo in inutili rimpianti, ma di vita ne ho una sola e rimpianti preferisco non averne, per cui trovo che scrivere alla persona perduta con una penna che gronda rimpianto e nostalgia sia come erigerne il monumento a futura memoria e morire un minuto dopo senza avere la possibilità di correggere eventuali errori, ovvero modificare la memoria labile e volubile per natura, e si sa, le persone sono imperfette e inafferrabili per definizione mentre ciò che è scritto resta là nel testo alla portata di tutti, edizione dopo edizione, lettore dopo lettore, e il dolore riversato dall’autore sulle pagine diventa universale, condiviso, partecipato, perché ciò che è scritto è scolpito, eterno.

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Cosa ci sfugge dunque, quando erigiamo altari alla memoria, autocompiacimento a parte? L’ineluttabilità della morte, il nulla eterno, l’inutilità delle tombe? No, Foscolo non abita da queste parti, nessuna complessità, siamo sul terra terra dei sentimenti tra umani, e in ogni caso Saint Laurent è stato un uomo come tanti, con un’anima nera e disperata quanto basta per essere ricordato come un grande tormentato stilista e morta là. Ma allora perché Bergé è così spietato nel regolare i conti col suo dolore? Descrive il suo compagno come un solitario depresso o aspirante suicida a seconda dei giorni e dell’umore, grafomane se innamorato, collezionista sfrenato per nevrosi, alcolista per dimenticarsi, dipendente dalla cocaina sniffata come antidepressivo: Saint Laurent era insomma, per dirla con Rimbaud, un “ladro di fuoco”, sperimentava “tutte le forme d’amore, di sofferenza, di pazzia per non conservarne che la quintessenza” e trasferirla nelle sue creazioni. Il senso più intimo di una lettera che non avrà mai una risposta è quello di dare una dimensione all’assenza per ricevere in cambio il barlume di una presenza immaginata. Da questa aspettativa tradita sul nascere deriva un’ansia devastante acuita dall’ovvia mancanza di un cenno, un assenso, una parola come risposte, nonostante l’offerta del dono più prezioso, il tempo, rubato alle incombenze della quotidianità; Pierre Bergé si libera del peso dei ricordi e si illude di non perdere il filo di un monologo con aspirazioni da dialogo: l’insensato e l’immaginario si fondono col mito falso e illusorio dell’immortalità, l’essenza è rivelare. Diceva Susan Sontag che rivelare agli altri e a se stessi è mestiere da fotografi: e allora lo scrittore che lavoro fa? Certo, ci insegna la dura legge dell’integrità, ma è consolatoria? Strano, siamo sempre in cerca di un’autoassoluzione a costo zero, soprattutto quando leggiamo…

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Assuefatti al sollazzo pigramente borghese dei piccoli piaceri della vita facciamo spallucce davanti alla Grande Rimossa ma il fascino di letture come questa consiste nel destituire di ogni fondamento la grande paura ancestrale: mi hanno confortato il mistero, il pudore e l’amore di Pierre Bergé nel prendersi cura del cadavere del suo Yves che solo gli amici intimi hanno potuto salutare; apprendiamo che Catherine Deneuve si è stesa accanto e l’ha abbracciato per l’ultima volta, donna dal grande genio, nessun dubbio a riguardo. Così, mentre leggendo cercavo prove della mia vacuità da archiviare tra gli atti del processo a me stesso che prima o poi intenterò, mi sono imbattuto nella prova regina del vero amore, quella che mi ha fatto provare un pizzico di invidia: la dispersione delle ceneri nel roseto della casa di Marrakech, oasi e rifugio di due uomini che si devono essere amati alla follia, senza condizioni. Chi e con quanto amore curerà le nostre spoglie terrene quando non ci saremo più? Ci vuole delicatezza, pudore, pietas. Forse quei due, Pierre e Yves, avevano capito il segreto più intimo della vita, indugiare nell’inganno di rifugiarsi in un mondo di illusioni; ed è questo ciò che li accomunava. “La verità appartiene solo a coloro che la conoscono, gli altri hanno il diritto di avere quella che si sono inventati.” (lettera del 14 marzo 2009)

Dall’epistolario giunto in Italia alla terza edizione, prende spunto il film Yves Saint Laurent (2014) di Jalil Lespert, film interessante per le performances attoriali (Guillaume Gallienne è, come sempre, geniale) ma scolastico e piatto dal punto di vista registico, un biopic che non riesce a catturare sino in fondo la complessità dei due amanti.

Carlo Camboni

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