L’intervistatrice, Simonetta Bitasi, confessa di non essersi preparata come avrebbe voluto per questo evento, ma la colpa è di Zadie Smith, che le ha fatto rileggere i grandi autori di cui parla Zadie nel libro, che spaziano da Vladimir Nabokov a David Foster Wallace. Solo su una cosa non è d’accordo con Zadie: Grace Kelly è migliore di Katherine Hepburn, scherza Simonetta Bitasi. Perché tra i suoi saggi, che trattano gli argomenti più disparati, ce ne è anche uno sul cinema classico.
Nel caso dell’autrice, la saggistica è più personale della narrativa: si imparano molte più cose sulla famiglia e sulla vita di Zadie Smith nel leggere questo libro che non nei suoi tre romanzi. Lei spiega, ostinandosi a parlare il suo “italiano bambino”, che il ritratto di suo padre che aveva fatto in “Denti Bianchi” era comico e leggermente volgare. Ora che lui non c’è più, sente quindi il bisogno di omaggiarlo in modo diverso. Un discorso che è uscito anche nell’incontro con Hanif Kureishi, quasi che il loro “incrocio di antiche culture” abbia portato inevitabilmente ad uno scontro generazionale. O forse no, forse è inevitabilmente quello che succede agli scrittori, che “manipolano vite” anche in modo crudele.
Parlando della lettura, Zadie Smith è convinta che ciò che si legge dai 14 ai 16 anni sia quello che conta di più, che ti caratterizza maggiormente. Dev’essere stata piuttosto precoce come lettrice perché io le mie letture più importanti le ho fatte piuttosto tra i 16 e 18 anni. La lettura ti rende parte di una comunità: due persone sono accomunate solo dal fatto di essere dei lettori. Zadie Smith si fa delle domande buffe (“Ma che legge Berlusconi?”), poi spiega che la sua non era una famiglia di intellettuali, di qui il suo entusiasmo per il mondo dell’università. Zadie Smith, infatti, insegna scrittura creativa alla New York University ed insegna ai suoi studenti che, più che scrivere continuamente o tenere diari (“Quello è cazzo” dice lei, facendo ridere il pubblico in sala), è importante mantenere sia il “sense” che la “sensibility”, cioè non sacrificare il sentimento, la passione che si prova per la letteratura, per l’approccio analitico ai testi in questione.
Alcune domande interessanti arrivano dal pubblico, per esempio sul significato degli incontri con gli autori. Zadie ammette di essere andata solo una volta ad un incontro con uno scrittore che ammirava durante gli anni dell’università. Si trattava di Martin
Alla fine ci rivela che ha in serbo per noi un romanzo di non più di 200 pagine, intitolato “NW”, il codice postale della zona di Londra dove è cresciuta, ma che ha bisogno ancora di qualche ritocco. D’altronde, con una bambina piccola, il tempo è poco e tutti le preoccupazioni vertono su questioni banali, come quale nido scegliere.
Inutile dire che ho ordinato questa raccolta di saggi (la voglio leggere in inglese) e che mi è venuta voglia di leggere come minimo Martin Amis e David Foster Wallace, che se piacciono a Zadie Smith credo (spero) che piaceranno anche a me, perché come ha osservato lei in questo splendido incontro, uno scrive quello che vorrebbe leggere.