(Andrea Zanzotto, Ecloga I da IX Ecloghe, Milano, Mondadori, 1962»
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di Giuseppe Panella*
Come Blanchot ha fatto con Foucault (sul quale pure ha scritto un libretto splendido), neppure io ho conosciuto di persona Andrea Zanzotto. Lo conosco solo attraverso la sua opera poetica e letteraria (Zanzotto è stato anche autore di magnifici saggi sulla letteratura del Novecento non soltanto italiana – Aure e disincanti del Novecento Letterario, Milano, Mondadori, 1994, tanto per citarne uno) e attraverso le traduzioni che in epoca più giovanile aveva pubblicato traendole dalla propria vasta conoscenza della letteratura francese (Età d’uomo di Michel Leiris, Nietzsche. Il culmine e il possibile di Georges Bataille – ancora solo un esempio).
Ma Zanzotto è stato essenzialmente poeta e poeta tra i più originali nella lirica italiana del Novecento. Questa potrà sembrare una banalità e sicuramente lo sarebbe se non si tenesse conto del fatto che la produzione del poeta di Pieve di Soligo è sempre stata in crescendo e in modificandosi, a partire dal tardo ermetismo di Dietro il paesaggio del 1951 al petrarchismo sostenuto e rimaneggiato di La Beltà del 1968 alla ricerca linguistica oltre il senso stesso del significante presente negli ultimi libri da Meteo a Sovrimpressioni del 1996-2001).
Zanzotto è riuscito a innovare profondamente la scrittura lirica italiana distruggendola e trasformandola, provandosi a devastare il suo significato privilegiando il significante e spingendosi sempre più oltre su questa strada. Un tale modello di riferimento non era rappresentato soltanto dalla cultura francese dello Strutturalismo o dalla psicoanalisi lacaniana (come si ripete spesso e volentieri) quanto dall’idea della poesia come produzione continua e in fieri, come racconto in-sensato di un “urlo” e di un “furore” che trovano sempre più difficoltosamente le parole per dirsi.
Non si tratta allora, a mio avviso, di trovare nella poesia di Zanzotto l’inconscio di Zanzotto che si esprime quanto un inconscio linguistico assoluto che produce e rovescia all’esterno la propria produzione di frammenti di senso sporgendosi sul bordo del verso e provando ad andare oltre di esso. Come scrisse a suo tempo Pier Paolo Pasolini (nel 1971 e sulla propria rivista “Nuovi Argomenti”):
«Questo intreccio fittissimo degli stilemi sublimi – odiati ma sopravviventi – e degli stilemi comici che li correggono e contraddicono, sono la più solida difesa che Zanzotto abbia potuto apprestare contro il più pauroso dei sé… Ma il più importante effetto dell’ intreccio dovuto all’alta frequenza dell’alternarsi degli stili, non è tanto quello di proteggere, e di nascondere, quanto quello di abolire ogni possibile delimitazione di campo semantico. Non si sa mai in che campo semantico ci si trovi: il lettore è messo in uno stato di estraniamento dalle abitudini che non ha precedenti. Non solo Zanzotto estranea il lettore da ogni possibile campo semantico perché li rifiuta tutti nella sua protesta di uomo disgustato e deluso, ma addirittura fa sì che non ci sia nemmeno il campo semantico della mancanza di campo semantico».
Qui Pasolini si riferisce ovviamente al primo Zanzotto (quello di Vocativo del 1957 o di IX Ecloghe del 1962) ma la sua ricostruzione può essere utilizzata proficuamente anche per l’opera successiva.
Il poeta di Pieve di Soligo procede sistematicamente a rimettere in discussione tutti gli stilemi della tradizione lirica italiana (massima di quelli della tradizione petrarchista) per giungere a una poesia spezzata e spesso apparentemente afatica, ai limiti dell’incomprensibilità del significato e al predominio dei bordi estremi del linguaggio del non-senso. Quest’ultimo, allora, nella scrittura che contraddistingue già la produzione degli anni Cinquanta (ma che si può tranquillamente far scivolare fino al 1983 dei Fosfeni), diventa una sorta di incubo quotidiano, di pressione spaventosa del mondo, ciò che il poeta chiamerà accentuatamente il “terrore quotidiano”.- Come scrive Agosti in una sua precoce introduzione alla poetica di Zanzotto (1):
«In questo senso ebbe a esprimersi Zanzotto in intervento pubblico (nel 1954, a San Pellegrino Terme, in occasione di un convegno di scrittori), adducendo, accanto o contro l’ottimismo progressista dell’ala culturale politicamente più impegnata, il “terrore di ogni giorno”, che solo oggi siamo in grado di considerare quale misura di consapevolezza storica e come forma di moralità (cfr. la relazione sul convegno in “Il Contemporaneo”, 31 luglio 1954). Con più precisione si potrà dire, a questo punto, che la ricerca di quei livelli verbali, magari quantitativamente ridottissimi, di autenticità, si inscrive in una duplice istanza: di fuga dal terrore, e di ricettacolo ove elaborare un “principio di resistenza”».
Resistenza al terrore sarà poi cifra essenziale di tutta la ricerca linguistico-lirica di Zanzotto, proiezione verso livelli sempre più elevati di scardinamento dell’opposizione con la realtà, nel tentativo di trovare ciò che è “dietro il paesaggio” ed esporlo in immagini, non più in parole.
«E perché si è – il mondo pinoso il mondo nevoso – / perché si è fatto bambucci-ucci, odore di cristianucci, / perché si è fatto noi, roba per noi? / E questo valere in persona ed ex-persona / un solo possibile ed ex-possibile? / Hölderlin. “siamo un segno senza significato” : / ma dove le due serie entrano in contatto? / Ma è vero? E che sarà di noi? / E tu perché, perché tu? / E perché e che fanno i grandi oggetti / e tutte le cose-cause / e il radiante e il radioso? / Il nucleo stellare / là in fondo alla curva di ghiaccio, / versi inventive calligrammi ricchezze, sì, / ma che sarà della neve dei pini / di quello che non sta e sta là, in fondo? / Non c’è noi eppure la neve si affisa a noi / e quello che scotta / e l’immancabilmente evaso o morto / evasa o morta. / Buona neve, buone ombre, glissate glissate»(2).
Segno senza significato che giunge fino al significante senza segno (è il caso di Meteo del 1996) dove il “terrore quotidiano” diventa apocalisse quotidiana e catastrofe indiscriminata del senso come incapacità a distinguere tra parola e immagine, tra una strabordante (e incomprensibile) visione del mondo e la comprensione im-possibile di essa, tra espressione del reale e sua rifrazione.
Per questo motivo, il terrore sfuma in incertezza e balbettio, si fa trappola linguistica e ricerca forsennata di ciò che non ha senso per distruggere fino in fondo la teleologia del segno:
«Non si sa quanto verde / sia sepolto sotto questo verde / né quanta pioggia sotto questa pioggia / molti sono gli infiniti / che qui convergono / che di qui s’allontanano / dimentichi, intontiti. / Non-si-sa / Questo è il relitto / di tale / relitto piovoso / il verde in cui sta redicendo / l’estremo del verde / Forse non-si-sa per un / sordo movimento di luce si / distilla in un suono effimero, e sa »(3).
Il “non-si-sa” della poesia vale il “si-sa” del mondo – quale sia “il falso e vero verde” caro a Quasimodo non è problema che affligga Zanzotto ma semmai che il verde sia-qualcosa che si può dire senza tradirne il senso rappresenta il suo interrogarsi sulla natura ormai perduta della percezione umana ormai ridotta a “relitto”. Di questo “relitto” è fatta la poesia e alla morte del significato e del suo senso riesce ancora a sopravvivere grazie all’inconscio inquieto del poeta che lo trasforma in desideri e in incubi.
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NOTE
(1) Stefano Agosti, Introduzione alla poesia di Zanzotto, in Andrea Zanzotto, Poesie (1938-1972), a cura di Stefano Agosti, Milano, Mondadori, 1973, p. 14..
(2) Andrea Zanzotto, Poesie (1938-1972) cit. , pp. 149-150.
(3) Andrea Zanzotto, Meteo, con venti disegni di Giosetta Fioroni, Roma, Donzelli, 1996, p. 19.
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