ZERO DARK THIRTY (Usa 2012)
Io ho un problema con le teorie del complotto. Nel senso che tendo a crederci più o meno sempre, acriticamente. Questo per una semplice ragione: esse pongono il dubbio laddove c’è solo certezza, fanno domande laddove qualcuno – generalmente un qualcuno molto potente e interessato – ha fornito risposte ufficiali. E dubbi e domande, ne converrete, sono sempre più utili (e interessanti) di risposte e certezze. La teoria del complotto, ad esempio, non ti dice che l’uomo non è mai sbarcato sulla luna, ma ti chiede perché mai le foto dell’allunaggio che da 40 anni ci propinano sono evidentemente ritoccate. Non ti dice che l’11 settembre è tutto una bufala, ma ti chiede come sia possibile che le Torri Gemelle, quel giorno, siano crollate in un modo così improbabile.
Ovviamente ci sono (state) parecchie teorie del complotto anche su Osama bin Laden, generalmente e genericamente additato dai più come capo supremo del terrorismo islamico internazionale. Figuratevi un po’, per un certo periodo sono stato pure convinto che quest’uomo misterioso e dalla faccia simpatica nemmeno esistesse, che fosse – per dire – un banalissimo capro espiatorio inventato dagli Stati Uniti per giustificare guerre mosse in realtà da ben altri scopi – il petrolio, quelle robe lì. Un po’ come il Goldstein di 1984. Be’, o mi sbagliavo io (può anche capitare, alle volte) oppure nemmeno la CIA era stata avvisata di tutto ciò, dal momento che per dieci anni parecchi uomini e ingenti risorse sono stati impiegati per dare la caccia a un qualcosa che, più che a un essere umano, somigliava a un fantasma. Di questa caccia all’uomo parla Zero Dark Thirty, diretto dalla regista più potente di Hollywood, la temibile Kathryn Bigelow. Protagonista è Maya, giovane agente della CIA ossessionata dall’idea di catturare il povero miliardario jihadista. Accanto a lei torturatori, terroristi, burocrati in carriera, militari, interpreti geni dell’informatica e, in generale, tutto quel genere di entourage che fa tanto anni Zero, epoca Bush, scontro di civiltà.
Un film inutile. Non brutto: inutile. Freddo, stilisticamente impersonale, umanamente distaccato, poco coinvolgente… Zero Dark Thirty è una pellicola ben fatta che, nel tentativo di risultare “oggettiva”, tecnica e razionalmente interessata a raccontare i fatti più che le emozioni, di emozioni finisce per non trasmetterne nemmeno un po’. Di solito i personaggi cinematografici ossessionati da una missione, quale che sia, finiscono per risultare simpatici (Carrie Mathison, la protagonista di Homeland, che di questo film sembra essere la versione più coinvolgente e originale, ne è esempio lampante): Maya no, è odiosa. Come tutti i suoi colleghi. Con il risultato che, sebbene tutti noi si sappia perfettamente com’è andata a finire la storia, fino all’ultimo la speranza è che in quella squallida villetta di Abbottabad, in Pakistan, bin Laden non ci sia affatto.
C’è poi la questione etica, di cui poco mi importa ma che merita comunque una breve citazione: il fatto che questo film inizi con le voci registrate di alcune vittime dell’11 settembre è un colpo basso e scorretto, come a dire “Ehi mondo, guardate cosa ci hanno fatto questi stronzi! Ora è nostro diritto, anzi dovere, reagire con tutti i mezzi che abbiamo a disposizione”. E giù di waterboarding, privazione del sonno, digiuni forzati e altre torture assortite, senza che mai nessuno, nel corso della pellicola (tantomeno la protagonista, donna con le palle come forse si vede Kathryn Bigelow), si ponga una sola volta una semplice domanda: è giusto quello che stiamo facendo? Anzi, quando si arriva all’elezione di Barack Obama la presa di posizione di costui contro la violenza nelle prigioni segrete americane viene vista come una scocciatura, un ostacolo al tranquillo svolgimento del lavoro da parte degli agenti della CIA. Per non parlare di quel collaboratore del presidente, così scioccamente fissato con la prudenza e la necessità di prove: un comunista, con ogni probabilità. Ma, come dicevo, dell’aspetto etico di Zero Dark Thirty mi importa in realtà assai poco: vado al cinema per vedere cose belle, non cose giuste. Se poi sono giuste, be’, tanto meglio.
Questo film, d’altro canto, ha dalla sua il fatto di non essere noioso – nonostante i 157 minuti di durata, che non pesano o quasi – e di non scadere mai nell’enfasi, nella retorica: conservatore sì, ma con un certo understatement. La protagonista, Jessica Chastain, trasmette meno empatia di una puntata dell’ispettore Derrick, ma forse l’obiettivo era proprio quello. Strange days, in ogni caso, era decisamente di un altro livello.
Alberto Gallo