“Zero Dark Thirty” (termine che si usa per riferirsi ad un orario ignoto quando c’è buio) è un film lento, lunghissimo, a tesi e con personaggi monodimensionali che è candidato all’Oscar e che uscirà in Italia il 10 gennaio 2013.
Da lì il film non cerca neanche più di presentare punti di vista diversi: Maya adotta la tecnica della tortura (ma è una donna, così fa umiliare e malmenare i suoi prigionieri da altri uomini), ed inizia a fare la prepotente con i vertici della CIA quando scopre (in realtà lo scoprono il suo partner – torturando – ed una assistente – cercando negli archivi- ma il merito va inspiegabilmente a Maya) che il galoppino di Bin Laden vive in un compound in Pakistan, a Lahore.
Insomma, è una dura perché scrive con faccia arrabbiata su un vetro il numero di giorni che stanno passando senza una decisione ad intervenire da che il compound è stato trovato e perché si riferisce a se stessa come “the motherfucker” parlando a un ministro. L’ho detto, è un film a tesi.
Il fine giustifica i mezzi.
“Zero Dark Thirty” mostra la tortura in modo crudo, in particolare il waterboarding (asciugamano sulla faccia, su cui si versa una caraffa d’acqua), ma non la condanna mai. Cerca di aprire una discussione a riguardo, quando Maya e la sua amica che crede di poter corrompere gli iracheni – Jannifer - vedono Barak Obama in televisione dichiarare che la tortura non viene usata dagli Stati Uniti. (AhAh).
Lo spettatore vede che la tortura è dolorosa ed umiliante (e si vede solo qualcosa, neanche così atroce, come il già citato waterboarding, il chiudere il prigioniero in scatole, l’appenderlo, il lasciarlo nudo) e anche che la tortura fa trovare e uccidere Bin Laden.
Questo – ci viene detto – è ciò che andava fatto.
Questo è il modo in cui si è potuto farlo.
In Italia in molti pensavano, e dopo l’uscita del film saranno parecchi di più, che Osama Bin Laden non dovesse essere ucciso, ma arrestato e processato, per cui credo sarà piuttosto dura che nel nostro paese passi la teoria di “Zero Dark Thirty”.
Un altro messaggio ambiguo è che tutti questi attentati e queste morti (in realtà solo l’amica di Maya, Jessica, quella che voleva corrompere il nemico, e che era tra l’altro parecchio antipatica e supponente, muore) rafforzano Maya e la sua volontà di ammazzare Bin Laden (insomma, il capo di al Qaida è morto per volontà di vendetta di una ragazza?), quando a nessuno importa più nulla, neanche al Governo.
Non si parla mai di prenderlo, ma di ucciderlo, e il continuare a ripeterlo normalizza l’informazione. Si arriva a pensare che sia ovvio e pacifico che uno Stato uccida i suoi nemici invece di processarli.
La musica è usata in modo epico, esagerato ed irritante, i personaggi non dubitano mai, le inquadrature dall’alto indicano una volontà divina nello sviluppo della vicenda.
A far ridere anche la soggettiva dei militari che entrano nel compound cercando i vari uomini che vivono nella casa. Li chiamano per nome (in un film di due ore e e mezzo non si è trovato il tempo di spiegarci come li abbiano scoperti) e li ammazzano. L’ultimo uomo è Bin Laden. Il militare entra e dalla soggettiva sussurra premuroso “Osssssama?”. Grasse risate dal pubblico. Per la Bigelow credo quello fosse un momento di tensione. Ahimé.
Quando la carneficina è finita, restano solo i bambini, una decina, sul letto, ammassati, a piangere, e c’è il militare che cerca di farsi dire da una bimba che ha perso tutto il nome dell’uomo con la testa spappolata a terra (per sapere se era Osama, ma per intanto lo si è ucciso).
Alla fine “Zero Dark Thirty” è solo la storia di un’ossessione, quella della protagonista, che non è affatto una donna forte, ma una femmina che ha deciso di fare il maschio per affermarsi. È casta, sola e musona, è fredda, usa ossessivamente il turpiloquio, diventando una specie di caricatura di Terminator, ma senza speranza: fino al termine del film è e resta “la ragazza”. Insomma, una donna forte per la Bigelow è solo un uomo travestito.
Written by Silvia Tozzi