ZERO67
Gino Nardella
ZERO67 - Gino Nardella
in copertina, “Nicol”, acrilico su tela di Andrea Tarli
Gino Nardella
Gino Nardella: autore televisivo e teatrale, scrittore, videomaker, attore.
Dal 1993 pubblica racconti e articoli per La Gazzetta del Mezzogiorno, i giornali di satira Boxer ed Extralarge, e le riviste Il Racconto, Lettere,Virgole e Frigidaire. Nel 1998 pubblica il romanzo Agenti Atmosferici, edizioni BESA. Nel 2001 vince il Premio Letterario “Città di Vico del Gargano” col romanzo breve Gigolò, edizioni Stampa Alternativa, e collabora col nuovo settimanale di satira Il Cuore. Nel 2002 escono il romanzo Il senso della vita è non rompere i coglioni (ristampa di Agenti Atmosferici), sempre per Stampa Alternativa, e la commedia “Il Cavaliere della Mel@” nell’antologia Commedie & Ragazzi, edita da Erga. Nel 2003 pubblica il racconto di fantascienza 12X Files, nell’antologia Il Futuro nel sangue, edita da R&D-Carmilla.
visita il sito il fantasmagorico sito internet di Gino Nardella:
ZERO67 – Gino Nardella – Cicorivolta edizioni – collana i quaderni di Cico – ISBN 978-88-97424-05-5 – pp. 177 – € 12,00
Brano tratto da ZERO67
1.
Pioveva e i soldi stavano finendo, giù al bar ridevano quando aprivo bocca, in cuor mio vomitavo per loro, per la loro Lazio e la loro Roma, il totocalcio e tutto il resto, che poi al massimo erano donne e motori, e che il cielo li seppellisca, ma io parlavo e loro ridevano:
-…ouh, t’immagini uno che gli piace il silenzio ma abita a Chiasso?
-Ah ah ah!
Solo al Bagaglino si sentiva di peggio, eppure loro ridevano, si erano dati troppe sofferenze, e avrebbero spaccato le facce di tutti i maschi del mondo, ma non potevano, troppo pavidi, allora ridevano per un’ idiozia, gliene bastava una, il senso della loro giornata era nella caccia alla idiozia, una sola, e poi a dormire, forse.
Facevo la spesa dal macellaio e ordinavo: -Un lenzuolo, tenero- e il macellaio mi tagliava una fetta di fracosta così ampia che un lenzuolo non lo facevi, ma una federa sì. Pagavo, uscivo con la carne cancerogena, ed ero soddisfatto perché gli stavo simpatico, al macellaio. Io, il cavernicolo in missione nel futuro. Oh Gesù.
Così tutti mi dicevano ma perché nun fai er comico? fai ride, sei forte, e qqua e llà. Io mi guardavo allo specchio e vedevo frantumi sparsi, punti neri e occhi allagati. La storia con Mara mi aveva fraccato il cuore. “Occhi Belli! Occhi Belli!” mi chiamava lei, poi mi lasciò, e in capo a sei mesi era già incinta di un altro.
Farsi pagare per far ridere: chissà se aiuta a tenere lontano il terrore. Che altro fare, sennò? Lavare vetri ai semafori? ne avevo lavati fin troppi quand’ero benzinaio. Pony express? Compravo Porta Portese, leggevo Offerte Lavoro Generico, non ero specializzato in niente. Cercavano un sacco di ambosessi, e qualche rappresentante di cosmetici, barman esperti, un fresatore, un tatuatore. Ecco qua: pony express. Telefonai:
-Ce l’hai il motorino?
-Ci ho la macchina.
-No, motorino.
-Non ce l’ho.
-Allora niente.
-Perché, la macchina non va bene?
-Ma quanti anni hai?
-Trentaquattro.
-Nooo, a noi servono GIOVANI.
Mi sbronzai pesante quella sera, non ero più giovane. Nudo coi calzini, in camera palpai ciò che restava, senza neanche lo specchio davanti: mani, petto, ventre, cosce, chiappe, ciascuno al suo posto, ma per abitudine, anche loro avevano perso l’entusiasmo. Che ne era dei miei calzini bucati, dei libri letti? Tutto quel tempo speso sui libri, a che pro? Guardai i polpacci con le cicatrici dei mòzzichi del mastino napoletano, vecchie di tre anni. Le cicatrici sono un promemoria, con quelle non dimentichi. Mi si era gonfiata tutta la gamba per quel mastino di merda, “Nevrite” disse il medico, e mi diede l’Ananase in compresse. Ma molto di più fecero i soffocotti di Mara, altro che Ananase: un soffocotto dopo i pasti, e la gamba guarì presto. Guariva tutto, quella donna lì.
Li facevo ridere: cos’era? la mia faccia? l’accento foggiano? davo il ritmo giusto alle frasi? Mi vedevano e si preparavano a ridere, stava diventando un lavoro. Io avrei voluto essere un bel tenebroso, non mi piaceva far ridere, tantomeno gratis. E manco mi andava, alla fine, di fare il giro per raccattare spiccioli nel cappello. Buio pesto, niente che avesse senso, tranne prepararsi a morire, aspettare bene la morte facendo meno danni possibile.
Venni a sapere del Burlesque dal macellaio mentre mi tagliava il solito lenzuolo:
-E’ forte, ce fanno tipo ‘na corrida, ce so’ annato co’ mi’ móje, s’è divertita pure lei. Je p’oi tira’ o i fiori o i mattoni.
-A chi?
-A l’artisti. Si te piace je ti tiri i fiori, sinnò i mattoni. ‘A voi ‘na sarciccia?
-No, solo il lenzuolo. Mattoni veri?
-Ma qua’ veri, de spugna, aoh.
Due sere dopo ci andai, da solo. Era un ex garage circondato da immensi condomini. Una rampa in discesa portava all’ingresso: c’era una porta piccola, blindata, con spioncino e campanello in ottone con tanto di scritta, Burlesque. Sembrava la parodia di un night, era un locale da arricchiti, anelloni, braccialetti e carne da nozze in mostra. 20000 lire per ingresso e consumazione. Un posto da andarci solo se ti pagano. Un nano aprì, aveva le unghie mangiate e il papillon:
-Buonasera, ha prenotato?
-No. Perché, è pieno?
Era giovedì, non poteva essere pieno.
-C’è ancora qualche posto.
-Allora entro?
-Prego.
Mi indicò la cassa, un trabiccolo bardato di velluto rosso, il colore dei sipari, delle poltrone dei teatri, il colore della Cultura: si faceva Cultura, lì dentro. Dietro la cassa stava appollaiata una spilungona sui cinquanta, mora tinta, secca:
-Buonaseeera. E’ ssòlo?- domandò con accento siculo.
-Sì- le risposi.
-Ventimila- e mi diede un talloncino per la consumazione, niente biglietto regolare. Ventimila esentasse: e se ero un finanziere? Come aveva fatto a capire che non ero un finanziere? Ho la faccia da ridere, io, posso essere benissimo un finanziere. Poi capii: vanno sempre in due a fare controlli, io invece ero ssòlo.
Mi diedero un posto in fondo, ma la sala non era grande, si vedeva benissimo anche da lì. Metà posti occupati, metà no. Avevo un tavolino tutto per me, chiesi un rhum e coca, quando me lo portarono mi diedero anche un cesto con fiori di plastica e mattoni di spugna, marroni. La plastica dei fiori era sfregiata, la spugna dei mattoni deturpata, forse da morsi. Ai tavoli c’erano per lo più coppie o doppie coppie, pochi spaiati, con vestiti da trecentomila e scarpe della festa. Molti dei manichini di Rinascente erano più umani di loro. Le donne erano del modello che si sfascia dopo il primo figlio, e tutta la loro strategia protendeva a quello: il primo figlio, e maschio. Gli uomini che avevano al fianco sarebbero stati minacciosi e intimidatori, all’inizio, per poi tramutarsi in miti ciabatte. “Esco”, avrebbero detto due sere per settimana alle mogli, e su in macchina a caricare puttane da ventimila.
Taciùm-taciùm faceva la musica d’ascolto, e accompagnava tutte le chiacchiere lì dentro. La musica nei locali serve a dar valore alle chiacchiere, tu vedi queste bocche che si muovono, e di fronte a loro altre bocche si inarcano in un sorriso o in una smorfia. Una bocca si muove, quella di fronte sta a sentire. A un certo punto la prima bocca si ferma semiaperta perché l’altra bocca ha cominciato a muoversi lei, dopo un po’ si danno il cambio un’altra volta, e tu pensi “chissà di che parlano quei due, come sono intensi gli sguardi, si diranno cose d’amore, di vita, di morte”. Cazzate, novantanove su cento sono cazzate: la scadenza del bollo della macchina, il nuovo taglio di capelli, le mutande di tendenza, fa freddo, fa caldo, le ore che ci hanno messo per arrivare da un posto all’altro della città, il cane dal veterinario, la sorella scema, i soldi, i soldi, i soldi. Taciùm-taciùm. Con la musica sotto, ti sembra che le cose che dici hanno senso, spessore, perché è come se le cantassi, hanno un titolo, un autore, significano qualcosa. E alla chiusura, quando qualcuno azzera la musica di botto, per far sfollare gli ultimi pellegrini dal locale, beh, solo allora avverti la pochezza di quanto stai dicendo, perché ti hanno tolto la musica sotto.
La musica d’ascolto sfumò, si spensero le luci di sala, disco music anni settanta, luce a cerchio su una tenda di fianco al palcoscenico, la tenda si aprì e ne venne fuori un trippone in smoking con duecento anni di stanchezza in faccia:
-Buonasera, e grazie dell’applauso spontaneo.
Non male, mi fece ridere perché nessuno aveva applaudito prima che lui aprisse bocca. Ma fu l’unica cosa divertente della serata. Il trippone presentò a turno un disoccupato-cantautore tipo Claudio Baglioni, un bancario che diceva le barzellette, un impiegato comunale che faceva micromagia, una maestra che leggeva le sue poesie d’amore, e due studenti universitari con le maglie a girocollo che cantavano la parodia di Emozioni di Lucio Battisti intitolata Contrazioni, tutta una faccenda intestinale, cacarella e scorregge. Alla fine di ogni esibizione toccava a noi del pubblico tirare fiori o mattoni, ma il lancio cominciava molto prima, durava l’intera esibizione, i mattoni finivano presto, anche i fiori venivano lanciati come fossero mattoni, una cameriera provvedeva a rifornirci di nuove munizioni, che poi erano le vecchie raccolte sul palco.
Presto i maschi se ne infischiarono delle buone maniere e delle loro giacche e cravatte: sbraitavano, ululavano, si facevano belli davanti alle donne. Tutti diedero fondo ai drink e ordinarono un secondo giro, e anche le donne mostrarono come si sarebbero comportate tra le mura domestiche dopo un anno di matrimonio: lanciavano con rabbia, pensavano “chi se ne frega”, fischiavano con due dita in bocca, dopo ogni lancio badavano a rimettere giù la gonna che si era alzata troppo, non erano mica lì per far vedere il culo gratis, loro. Una inzuppò il suo mattone di acqua minerale e lo scagliò in petto alla maestra poetessa infradiciandole la camicetta: la gente perbene si diverte così. Sperai che cominciasse a volare anche qualche sedia o bottiglia, ma non accadde.
Così andai via prima che finisse.
-Quando c’è il cabaret?- domandai alla cassiera.
-Il venerdì e il sabato.
Pioveva, montai sulla mia Peugeot 5O4 diesel del ’79 con cambio al volante, color granata spento, gli anni si erano mangiati il lucido della carrozzeria, una gran macchina, era stata di un colonnello dell’esercito che la faceva pulire dai soldati ogni giorno, gli interni come nuovi, per togliere la polvere dalla fessure i soldati adoperavano i cotton fioc, e forse il colonnello l’aveva sempre guidata coi guanti.
Sul tavolo di casa ritrovo parecchie macchie, briciole e mezzo pacchetto di sigarette. Prendo una birra in frigo. Di fronte al letto la tv. Pioggia fuori e tv dentro, in certi casi persino la tv è meglio. Accendo. Sul primo c’è Uri Geller, un israeliano che muove gli oggetti con la forza del pensiero: sta lì che prova a piegare un cucchiaino da caffè, naturalmente ce la fa. Spengo il televisore, scolo la birra e mi schianto sul letto. Con la forza del pensiero provo a spegnere la luce, ma quei 25 W sono più forti del mio pensiero, e in più fanno oltre dieci anni che ho smesso di pensare. Ci pensa una delle mani a fare clic.
Buio. Uri Geller è un imbroglione, non è israeliano, è nato a Portici e vive a Forcella, smista sigarette per la camorra ed è pedofilo. Quel cucchiaino fa parte di una parure da dodici, regalo di nozze della cognata. Lui vende parure di cucchiaini, da sei e da dodici, sei cucchiaini dodicimila lire, dodici cucchiaini seimila lire. Vecchio Uri Geller, imbonitore da televendite, napoletano, nel bagno di casa sua ha i rubinetti laminati in oro, e davanti la porta di casa una montagna di gusci di cozze e torsoli di broccoli… Ho sonno e mi addormento.
Mi procurai tutto a Porta Portese: i cucchiaini li organizzai in un paio di scatole vuote di cioccolatini, sei cucchiaini in una, dodici nell’altra, e carta dorata incollata sulle scatole. Uno straccio luccicante arrotolato in testa, davanti allo specchio diventò un turbante. Trovai un disco quarantacinque giri degli anni sessanta, Quando dico che ti amo dei Surfs, lo spennellai di vernice dorata, lo attaccai a una catena e me lo appesi al collo. In cartoleria mi feci fare una fotocopia della mia mano sinistra, che venne bene. Mancava solo la croce di Tutankaniello: rimediai con due stecche di legno sagomate e la solita vernice dorata. Dopo una notte di prove in mutande, nel pomeriggio telefonai al Burlesque:
-Ho saputo che fate i provini.
-Per Fiori & Mattoni?
-No, per il cabaret.
-Sì, domani pomeriggio alle quattro.
-Va bene.
-Che ci ‘ai, un monologo?
-Sì.
-Come ti chiami?
-Sono Donato Nardecchia.
-Per il provino?
-Sì.
-Di là- fece il nano indicando la sala.
Ce n’era già uno sul palco, con la coppola e i capelli a zompafosso, siciliano, che si dimenava con una spina di corrente in mano, se la stringeva fra le chiappe, e diceva che era una presa per il culo. Il ciccione presentatore, che evidentemente comandava la baracca, era seduto a un tavolo appena sotto al palco con un bicchiere mezzo pieno davanti. Non rise, bevve un sorso. Quello con la coppola stava per partire con un’altra battuta, il ciccione lo interruppe:
-E’ vecchia. Non ce l’hai battute tue?
Quello con la coppola deglutì aria, poi rispose:
-No…
-Monologhi? canzoni comiche?
-No…
Una cappa di vergogna intasò la sala, mi vergognai per lui, e di lì a poco avrei dovuto vergognarmi di me. Quello con la coppola fu inghiottito da una quinta, non c’era nessun altro, c’ero solo io.
Salii sul palco, accroccai gli attrezzi e cominciai senza introduzione. Occhi puntati del ciccione, cuore mio che batte forte, orecchie rosse, caldo, luce in faccia. Terribile, triste. Odore di polvere, sedie rovesciate sui tavoli in sala, e sempre luce in faccia. Io mi do da fare, di fronte a me c’è solo il ciccione che non ride, le sedie non ridono, i tavoli non ridono, le pareti idem, finisco. Guardo il ciccione.
-Sì- disse.
Aveva parlato, aveva detto “sì”. Toccava a me, dissi:
-Eh.
-E’ roba tua?
-Sì, non è vecchia, no?
-No. La fai un po’ troppo lento, ma forse funziona uguale, bisogna provarla col pubblico. Come ti chiami?
-Donato.
-Va be’, ci vediamo stasera, proviamo col pubblico. Alle 10, puntuale.
Il ciccione si alzò a fatica, diede fondo al bicchiere, poi mosse via mentre io raccattavo le mie robe e le infilavo nella sacca. C’era un gran caldo lì sopra, polvere, polvere, polvere, e il becchino è un buon lavoro perché i clienti non si lamentano mai.
(…)
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