Zì Nicola (Piero Ferrante, St)
Bisaccia (Av) – CI sono ere in cui la Storia emana tanfo di sangue, terra e polvere da sparo. Sono quelle zone di tempo grigie, in cui il potere, spaventato dalla partecipazione e dal cambiamento, prova a legittimarsi attraverso la forza, il suo uso ed il suo abuso; corre con armi e manganelli dietro il progresso, fiato sul collo e voglia di randellare. Si rende forte lasciando vite sull’asfalto e si scopre debole quando quelle vite diventano foriere di altre esperienze ribelli, di altre resistenze.1950, Bisaccia, Alta Irpinia. Terra di agricoltori, braccianti, pastori. Terra di acqua che sgorga a fiotti dal terreno argilloso per impantanarsi proprio nel mezzo dei boschi che arricchiscono le creste dei monti. La Seconda Guerra Mondiale ha smesso di massacrare la popolazione da ormai sette anni. Il 25 luglio 1943, lo sbarco alleato, i bombardamenti a tappeto, le stragi naziste. E poi l’8 settembre, la disoccupazione, la prostituzione diffusa, la povertà, il contrabbando. Questo tutto ha segnato il corpo meridionale, dove il ritorno dal fronte di tanti giovani ha sovrapposto problema a problema. Bisaccia, ben prima dell’imposizione della longa manus di Ciriaco De Mita, il capo assoluto della tarda prima repubblica, la sua fame di sopravvivenza la misurava sul lavoro della terra. Erano i campi l’essenza di un’economia fortemente antropomorfizzata. Prima della finanza, prima dei mercati. Ma l’assetto sociale era tutt’altro che fondato sui possidenti. Che erano potenti, ma una ristretta minoranza. Fu il Ministro Gullo, servendosi dell’altoparlante del Pci, a propagandare l’idea che la terra fosse di chi avesse la capacità e la pazienza di farla fruttare. Ma per giungere sino in questa parte di mondo, il tam tam politico impiegò 6 anni.
Nel 1950, Zì Nicola aveva 26 anni “e due figli”. La guerra gli aveva lasciato in bocca il sapore della sconfitta. Avere poco più di vent’anni, il corpo di un leone, e non potere arare, zappare, seminare, raccogliere. La rabbia figlia della delusione che vien fuori dall’utero della quotidianità. Nicola non ha niente, sua moglie non ha niente. I braccianti di Bisaccia, dell’Irpinia, del Meridione, non hanno niente. Ed allora la soluzione è fare gruppo. “Gullo ce l’aveva detto” ripete a distanza di 60 anni per iniettare un motivo nelle vene delle azioni di allora. “La terra era la nostra, noi la lavoravamo, mica gli altri”. Non aspettano nemmeno lo scoppio della primavera. A marzo rompono l’argine sociale e inondano le terre incolte. Quelle appartenenti al demanio comunale e quelle appartenenti alle grandi famiglie aristocratiche dell’Alta Irpinia. L’invasione pacifica si fa con le bandiere rosse, anche se non tutti sono militanti del Partito Comunista e non tutti sono iscritti alla Cgil. Si fa con un’organizzazione minima, con poche risorse e addirittura qualche mulo. I braccianti bisaccesi si spargono come gocce di pioggia. Zi Nicola occupa un fondo appartenente alla famiglia Vitale. Lo lavora per un’intera giornata. Suda di nuovo e ne è contento. Nell’aria la festa, presto ci sarà anche una cooperativa agricola. L’hanno annunciato i compagni (in realtà dovranno passare ancora altri due anni). L’obiettivo: comprare una trebbia.
E invece le cose non vanno per il verso giusto. Fra i braccianti c’erano quelli che Nicola chiama “spioni”. Infiltrati democristiani e filogovernativi, amici degli scelbiani come della forza costituita. La repressione scatta quella stessa notte. Quattro braccianti vengono tratti in arresto. Uno, i Carabinieri lo vanno a recuperare in una cantina. Lui resiste, scaglia qualche pugno, resiste ancora. Si becca 2 mesi di carcere. È la mannaia del potere che cala sulla voglia di riscatto. La popolazione scende in strada. Il cielo dice che è mezzanotte, il sonno rintanato sotto la coperta del furore, e c’è “’na luna che jiev juorn’” (a giorno), ricorda Zì Nicola. Forse è per questo che i manifestanti tagliano i cavi della corrente. Una piccola rivoluzione. Il sindaco viene svegliato, e chiamato ad entrare in causa. Ma commette l’imprudenza di voler trattare con i carabinieri senza fascia d’autorità.
La resa dei conti, che, grosso modo, è la stessa di Portella della Ginestra, ma senza morti e senza il bandito Giuliano, è aperta. I braccianti sono stati tutti segnalati. Sono costretti a darsi alla fuga. Le pene sono severe. Si tratta di carcere, mica uno scherzo. E in tempi di povertà, il carcere sta a significare lasciare una famiglia sul lastrico, abbandonare a se stessi donne e bambini. Zì Nicola, per questo, sceglie neppure la fuga, ma la macchia. Come Carmine Crocco, che da queste parti c’è stato sul serio. Per quattro mesi e mezzo fa la spola tra il paese ed un granaio all’interno del quale ha ricavato un nascondiglio servendosi della paglia e di tanto coraggio. Racconta con orgoglio malcelato il suo stratagemma per eludere la sorveglianza: “Mantella e maccaturo (il fazzoletto che copre il capo, ndr)”. Varca il confine che, esteticamente separa i sessi. La vita diventa difficile. La mattina al lavoro; per le necessità, al paese in abiti femminili; e la notte ritirarsi nel pagliaio. A scoprirlo sono i Carabinieri. Lo sorprendono ad agosto che ha appena finito l’attività della pesatura del grano. Prova a fuggire per i monti e poi per le valli. Gli sbarrano il cammino, la fatica fa il resto. Partono ordini urlati di buttarlo in terra, fasi concitate. Raccontando l’episodio, Zì Nicola c’è un punto in cui alza il capo. È alla fine, quando gioisce della gloria di ricordare la data dell’arresto: “4 agosto 1950”. Lo dice tutto d’un fiato. Come se, ancora oggi, rivivesse l’affanno del tentativo di sfuggire alle forze dell’ordine. Non fa resistenza, Nicola. Viene ammanettato, poi trascinato come un trofeo in giro per Bisaccia, nella piazza centrale e in corteo “tra due ali di folla” fino alla stazione locale. Poche ore ed è caricato un camion che lo porterà a Sant’Angelo dei Lombardi. E, di lì, a Poggioreale, poi ad Avellino. Una vita di corsa, cuore dietro le sbarre, cuore in quelle terre che ancor’oggi non ha lasciato mai.
Testimonianza raccolta per Stato Quotidiano