Zia Dolores e la Siria

Creato il 13 aprile 2015 da Pim

Quando le raccontai della mia visita a Damasco, zia Dolores fece un sorriso sospeso tra amarezza e ironia. << Sì, certo, la Moschea degli Omayyadi, il Museo Nazionale, il Suq, la Cappella di San Paolo. È il percorso classico per i turisti occidentali. Certamente non vi hanno portato nel campo profughi palestinese >>. Rimasi perplesso. Di Damasco avevo sviluppato un’idea che ritenevo abbastanza nitida, la guida locale era stata prodiga d’informazioni storiche e culturali, ignoravo del tutto la presenza di campi profughi. << Esiste un enorme quartiere periferico che accoglie decine di migliaia di palestinesi fuggiti dalla Cisgiordania negli anni ’60 e ’70 >>, mi spiegò allora lei: << Palazzoni fatiscenti, baracche, tendopoli dove la gente abita in condizioni di povertà assoluta. Ci andai più volte e so per certo che c’è ancora oggi >>. Parlava sicuramente di Yarmouk, nome che non conoscevo o non ricordavo.

Zia Dolores aveva vissuto in Siria tra il 1959 e il 1971. Era infermiera e suora missionaria, nell’ordine. Il suo tempo non lo trascorreva a evangelizzare le folle bensì in sala operatoria, presso l’ospedale italiano di Aleppo e poi quello di Damasco. In più di una circostanza si era ritrovata a intervenire chirurgicamente in prima persona. << Facevo delle amputazioni bellissime >>, affermava con un certo orgoglio: << Zàc… così >>, e ruotava la mano nell’aria con gesto affilato da novello Dupuytren. Erano gli anni del conflitto arabo-israeliano e zia aveva le idee chiare in merito: << Quello che hanno fatto i soldati israeliani non l’ho mai visto fare da nessuno… >>. Era dichiaratamente filopalestinese, credo che per questo motivo, e per il carattere ribelle, le consorelle non la reggessero tanto. In compenso amava i beduini e su di loro mi riferiva episodi bizzarri che, lì per lì, facevano sorridere. Finché, durante i miei viaggi nel Vicino Oriente, i beduini non li incontrai davvero. Raccontava ad esempio che, poche ore dopo complessi interventi a stomaco o intestino, erano capaci di divorare un piattone di fagioli. Che nelle stanze d’ospedale dormivano in terra e sui letti ci camminavano. Quando vidi i beduini urbanizzati a forza dal governo israeliano trascorrere la notte all’addiaccio, sulla soglia delle loro abitazioni, davanti a un falò, capii che non aveva esagerato. E presi ad amarli anch’io.

Zia Dolores non c’è più. Credo che avrebbe sofferto molto nel vedere la sua adorata Siria ridotta a un cumulo di macerie, praticamente cancellata dalle mappe geografiche. Dal canto mio, provo un dolore immenso nel ripensare a tutte le persone che incontrai durante il mio viaggio: l’orafo del Suq di Damasco che mostrava con fierezza il proprio lavoro, la ragazza di Maalula che recitò il Padre Nostro in aramaico, i bambini di Aleppo in posa davanti alla fotocamera, il motociclista che fermò il pullman nel deserto di Palmyra solo per un saluto, il ristoratore un po’ checca di Krak des Chevaliers (<< Chi vuole una ba-nna-nna? >>). Mi domando con quale destino abbiano dovuto fare i conti Elia, Salah, le loro famiglie, sapendo che non avrò mai una risposta.

(Fotografia scattata al Museo Nazionale di Damasco il 6 agosto 2008)


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