Moreno è un bambino di 8 anni, ha un cervello grande come una Zigulì ed è cieco, è handicappato, e lo resterà per tutta la vita. Massimiliano è suo papà, un papà che ha fatto discutere molti critici e esperti, perché è riuscito a descrivere in poche righe la sua disperazione, la sua stanchezza, le difficoltà, e l’amore. Un papà che non sopporta la retorica:
Negli ultimi tempi gli handicappati li chiamano anche così: diversamente abili. Deve esserci in giro un virus che rende tutti più buoni. È il virus del politicamente corretto, che trasforma lo spazzino in operatore ecologico, il controllore del tram in tutor, il muratore in addetto dell’edilizia. (…) Tutta questa falsa eleganza nasconde il nostro senso di colpa (nel migliore dei casi), ma anche il nostro disprezzo, il nostro essere comunque tremendamente snob e classisti.
I pensieri di Massimiliano si rincorrono sulle pagine del libro, considerazioni feroci, brevi riflessioni, o lunghe descrizioni, distese quando racconta la sua Inter, colme di rabbia quando parla di se. Rabbia e dolore vengono, a volte, gettate su Moreno, assieme alla fatica fisica e psicologica, la cacca e il fango, ma la vera ferita di Massimiliano è la consapevolezza di aver smesso di amarsi.
Personalmente tra le parole di Zigulì ho letto un amore incondizionato di un padre verso un figlio, un figlio che non potrà mai essere autosufficiente, un figlio che non si vorrebbe mai dover lasciare.
Mi diverto a osservarli (i bambini, Ndr) quando si piegano, si contorcono, a volte si sdraiano perfino, alla ricerca degli occhi di Moreno. Non dico e non faccio nulla. Intervengo soltanto se i loro occhi si spostano su di me, con aria interrogativa. “Lui non ti vede.” spiego sempre. Anche se già conosco la domanda successiva, “Perché?”.
Zigulì
Massimiliano Verga
Mondadori