Più che una successione, una puntata di “Beautiful”. L'incertezza sul nuovo corso del paese – accentuata dalla serie di tradimenti che si stanno verificando in questi mesi – vede per ora due potenti fazioni in lotta sia per la “successione al trono” sia tra di loro, per la ridefinizione degli equilibri di potere che normalmente avvengono in questi casi.
Da una parte c'è il clan guidato da Joyce Mujuru, attuale vice-presidente e moglie del generale Solomon Mujuru, morto – in circostanze ben lontane dall'essere chiarite – in un incendio nella sua abitazione lo scorso 15 agosto, dall'altra Emmerson Mnangagwa, attuale ministro della Difesa.
Ambedue – come ricorda il sito PeaceReporter – possono contare su un sistema di potere molto simile, essendo appoggiati da settori importanti delle forze armate e potendo disporre di quote in società statali e parastatali, imprese, proprietà immobiliari e terriere accumulate attraverso gli espropri. E si sa come, nell'Africa delle dittature, siano più le fortune personali – e le amicizie con i salotti buoni dell'Occidente – a fare la differenza politica.
Tra i due litiganti il terzo gode? Mentre le due fazioni giocano a scacchi con l'equilibrio dei poteri, proprio dalle forze armate potrebbe arrivare, per entrambi, la minaccia più consistente. All'interno dei militari, infatti, si starebbe creando un terzo gruppo, «contro il Global Political Aggrement del 2008 e contro il governo di unità nazionale, così come anche contro la road map elettorale», come riporta un editoriale dello Zimbabwe Independent. Questo gruppo, che «sembra pensare che le due principali fazioni dello Zanu (il partito di Mugabe) abbiano fallito nel gestire la successione a Mugabe» potrebbe ritrovarsi alleato proprio il futuro ex-presidente, alla luce anche del patto che sarebbe stato stipulato tra Joyce Mujuru e Mnangagwa.
È stato sventato anche il possibile attacco che i due avrebbero portato al presidente nel congresso di partito che si terrà a Bulawayo tra il 6 ed il 10 dicembre prossimi, tramutato invece in conferenza (e dunque depauperato di qualsiasi potere decisionale).
Il mio regno per un carico di diamanti (insanguinati). Una decina di giorni fa – come ricorda Alberto Tundo sul già citato Peacereporter – in Zimbabwe sarebbe arrivato un carico di armi “made in China”, attraverso un non meglio identificato mediatore africano. È bene ricordare che da ormai un decennio lo Zimbabwe si fa ufficialmente rifornire nel settore da società come il ramo internazionale della Norinco (China North Industries Corporation), con la quale dal 2006 ha creato una joint-venture – 60 per cento all'industria cinese, 40 per cento alla Zimbabwe Defense Industries – che prevede la fornitura di armi in cambio dello sfruttamento delle risorse minerarie, in primis di diamanti.
In tal senso un segnale importante sembra essere arrivato lo scorso 31 ottobre, quando il Kimberley Process – l'accordo tra industria diamantifera, i governi dei paesi coinvolti in tale industria (tra cui l'Italia) ed alcune organizzazioni non governative per fermare la commercializzazione dei “blood diamond” - ha dato il via libera alla vendita dei diamanti raccolti in tre siti del complesso di Marange. Victoria Nuland, rappresentante americana alla riunione, ha definito “compromesso necessario” il voto favorevole (gli Stati Uniti si sono astenuti) per evitare che il Kp si sfasciasse. Con questo voto, comunque, il potere di persuasione sullo Zimbabwe è fortemente diminuita. E quei 340 milioni di dollari su cui si attesta – dati 2010 – la produzione dei diamanti fa gola a più d'uno.
Tra diciotto mesi, dunque, lo Zimbabwe potrebbe trovarsi ad un bivio: da una parte l'ennesima guerra civile, dall'altra un presidente che, come seconda lingua, potrebbe parlare cinese.