di Michele Marsonet. Luigi Zingales, giovane e brillante economista italiano con cattedra all’Università di Chicago, ha dato alle stampe un volume dal titolo quanto mai accattivante: Manifesto capitalista. Una rivoluzione liberale contro un’economia corrotta (Rizzoli editore). Forse ancora più significativo il titolo dell’edizione originale in lingua inglese: , che lascia chiaramente intendere quale sia la tesi principale del libro. Secondo l’autore il capitalismo sta attraversando una crisi degenerativa che ne scuote le stesse fondamenta. I continui scandali, tipo Libor, dimostrano che esso ha bisogno di regole “giuste”, regole che le grandi banche non hanno alcuna intenzione di adottare. E’ più che mai necessario, pertanto, un controllo democratico, anche se Zingales sostiene di parlare da liberista convinto.
L’esordio suona così: “Gli americani sono arrabbiati. Sono arrabbiati con i banchieri che hanno contribuito alla crisi finanziaria, senza pagarne le conseguenze. Sono arrabbiati per l’incapacità del sistema politico che ha incolpato i banchieri, ma non è stato in grado di tenerli sotto controllo. Sono arrabbiati con un sistema economico che arricchisce ulteriormente i ricchi e abbandona i poveri al loro destino. Sono arrabbiati perché l’ideale di un sembra sparito dalla faccia della Terra”.
I movimenti che si oppongono a questo stato di cose, su versanti politici opposti, sono il “Tea Party” che punta a ridurre al minimo indispensabile la presenza dello Stato in economia e nella vita pubblica, e “Occupy Wall Street”, il cui scopo principale è denunciare gli abusi del capitalismo finanziario. Nessuno dei due, secondo Zingales, ha tuttavia presentato piattaforme in grado di dar vita a un’alternativa praticabile. Il “Tea Party” è riuscito a polarizzare la rabbia contro il governo federale ma non ha fatto altrettanto con la collera verso i banchieri. Dal canto suo “Occupy Wall Street” dichiara di parlare a nome del 99% dei cittadini americani ma “non ha detto nulla su come avrebbe condotto la sua battaglia”.
E allora che fare? L’autore ritiene che gli Stati Uniti debbano ritornare a una sana forma di populismo che appartiene alla loro storia. Rammentando che, negli USA, il termine “populismo” è privo delle connotazioni negative che gli europei sono soliti attribuirgli. Non è un fenomeno reazionario né progressista, bensì una sorta di reazione spontanea dei cittadini quando i vizi del sistema diventano intollerabili. “Soltanto in un Paese con una radicata tradizione populista – continua Zingales – i movimenti populisti possono evitare i programmi radicali e controproducenti. E’ grazie alla moderna tradizione populista americana che esiste la Carta dei diritti (Bill of Rights). E’ grazie a questa tradizione che gli americani hanno inventato la legislazione antitrust ancora prima che gli economisti capissero perché è stata un’idea brillante. Ed è infine grazie a questa tradizione che i senatori non sono più nominati ma eletti, in un processo che limita la corruzione”.
Diventa a questo punto urgente per lui un’etica basata sul mercato. Adam Smith – che pure era un filosofo morale – ha aperto la strada scegliendo di analizzare la produzione, la distribuzione e il consumo di beni e servizi prescindendo da considerazioni morali. Non si deve partire da temi etici (come le persone “dovrebbero” agire), ma oggettive (come “di fatto” agiscono), proprio come degli atomi non si studia il modo in cui dovrebbero comportarsi, bensì il modo in cui si comportano effettivamente. L’opinione di Zingales è che si tratti di una posizione ipocrita. In realtà gli economisti si occupano costantemente di analisi normativa, e cioé di come le cose dovrebbero andare. “Perché mai allora – egli chiede – gli stessi economisti che muoiono dalla voglia di dirci quali norme giuridiche siano ottimali da un punto di vista economico temono poi di indicarci le norme sociali che fanno funzionare meglio un’economia?”.
Il Manifesto capitalista dell’autore incita ad aver fede nel mercato contribuendo a cancellare le distorsioni che ne vengono fatte. Il punto più sorprendente è che, secondo Zingales, la degenerazione clientelare del mercato americano rende sempre più simili gli USA all’Italia. Scrive infatti di un “sistema colluso” nel quale la cattiva politica e il cattivo capitale si sostengono a vicenda. Quando il 77% dei cittadini americani pensa che il potere è detenuto da pochi grandi gruppi e grandi ricchi, abbiamo la fine dell’American Dream, il sogno che meritocrazia e libero mercato forniscano la chiave del progresso economico e anche sociale. Il problema è che invece, secondo l’autore, lo Stato è stato “catturato” dalla grande finanza e delle grandi industrie. Ciò significa che selezione e guadagni non si basano più sul merito, ma sulle relazioni. Proprio come avverrebbe in Italia e nelle nazioni latine in genere. La concentrazione estrema del business porta dritto a un’economia di sussidio, che poco ha a che fare con quella di mercato.
In sostanza il volume propone una sorta di “capitalismo dal volto umano”, con la concorrenza che riduce la disuguaglianza, distante dal potere politico, e dotato di regole chiare e semplici. Si percepisce una vena utopica nelle pagine del libro, testimoniata del resto dall’uso frequente della parola “perfezione”. Sappiamo tutti però quanto sia pericoloso pensare in questi termini, nessun sistema economico e politico può essere perfetto tranne che sulla carta.
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