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ZURBARAN | Francisco de Zurbarán in mostra a Ferrara, Palazzo dei Diamanti

Creato il 20 dicembre 2013 da Amedit Magazine @Amedit_Sicilia

bannerzurbarandi Massimiliano Sardina

Il pittore deve avere una facoltà simile a quella del romanziere,

in virtù della quale può scivolare dentro la pelle dei personaggi che crea

e pensare i loro pensieri e sentire i loro sentimenti.

Questa facoltà è l’immaginazione e questa Zurbarán possedeva.

W. Somerset Maugham, Zurbaran, 1952

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Francisco de Zurbarán è nativo di Fuente de Cantos (provincia di Badajaz, Estremadura), ma si trasferisce ben presto a Siviglia dove è documentato il suo apprendistato nella bottega di Pedro Diaz de Villanueva. All’età di ventiquattro anni ottiene la commissione per la pala d’altare della Virgen de Nuestra Senora de la Granada nella sua terra natale; nel 1626 il giovane Francisco è al lavoro per un ciclo di ventuno tele su commissione del convento domenicano di San Pablo el Real (tra i soggetti rappresentati un Sant’Ambrogio, un San Gregorio e un San Girolamo, oggi conservati presso il Museo di Belle Arti di Siviglia). Sebbene il primo vero capolavoro di Zurbarán sia all’unanimità considerato il Cristo sulla croce (1627, Chicago art Institute), già nei santi del ciclo domenicano sono ampiamente ravvisabili quelle qualità che di lì a poco contraddistingueranno la sua opera matura; le figure si stagliano ieratiche su fondi neutri monocromi, stabili, maestose, ben individuate sia nell’emotività dei volti sia, più in generale, nella cura dei dettagli. Tra tutte le opere del ciclo domenicano spicca, dicevamo, il Cristo sulla croce, un dipinto di forte impatto visivo caratterizzato da un disegno essenziale e da un’efficace sintesi cromatica chiaroscurale. Per questo dipinto, come per altri della produzione successiva di Zurbarán, si è parlato di “caravaggismo” (non a torto, certo, ma quella del sivigliano non è stata affatto una mera emulazione stilistico-espressiva quanto piuttosto un’adesione, una genuina affinità); va detto, inoltre, che l’etichetta di “Caravaggio spagnolo” gli ha più nuociuto che altro, ridimensionandone per lungo tempo l’importanza anche agli occhi degli storici.

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D’altra parte Zurbarán non compì mai il viaggio in Italia, quindi per quel che concerne Caravaggio (e il “caravaggismo”) si trattò di relazioni e contaminazioni indirette; Zurbarán ebbe sicuramente modo di visionare numerose incisioni calcografiche, disegni e copie su tela, nonché dipinti presenti in Spagna come La crocifissione di Sant’Andrea di Caravaggio (citata nel Cristo sulla croce) o gli Apostoli di Jusepe de Ribera. Il Cristo sulla croce è inoltre palesemente in debito con le sculture lignee di Juan de Mesa e Juan Martinez Montanés, anzi di queste restituisce, amplificata dalla suggestione pittorica, tutta la plasticità del realismo anatomico. Alla resa realistica, tuttavia, Zurbarán non sacrifica tout court l’eleganza anatomica: la tortura della crocifissione turba appena la venustà della figura, e così la torsione delle membra si adagia in una posa armonica. Il dramma c’è, è dichiarato, esposto, sottolineato dal fondo nero, ma al tempo stesso contenuto, attenuato, implicitato. Così anche nel celebre San Serapio del 1628, realizzato per il monastero dei mercedari di Siviglia. Per il convento della Merced Calzada Zurbarán realizzerà ben ventidue opere (tra cui il citato San Serapio) ispirate alla figura di Pietro Nolasco, fondatore dell’ordine dei mercedari. Nella posa esausta e quasi esanime del martire Serapio riecheggia quella del Cristo crocifisso (analogia del sacrificio). In quest’opera, una delle più pregevoli della produzione zurbaraniana, la teatralità e il realismo si coniugano senza prevaricazioni restituendo un’immagine autentica, efficace, sincera. Il candore della tonaca fa da contraltare all’oscurità dell’ambientazione, e la sintesi cromatica del bianco e del nero ha il merito di focalizzare tutta l’attenzione sul dramma umano e divino. Più che al “caravaggismo” ci si dovrebbe caso mai riferire al “naturalismo”, e comunque a un atteggiamento tipico dei primi decenni del Seicento, tanto nella pittura figurativa che in quella di genere (specie nature morte).

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Una curiosità: tanto nel Cristo sulla Croce quanto nel San Serapio è ben visibile un cartiglio con la firma del pittore. Con queste opere Zurbarán non tarda a guadagnarsi il plauso generale, e subito fioccano nuove grandi commissioni; dopo i lavori per il convento della Merced Calzada (oggi sede del Museo delle Belle Arti di Siviglia) Zurbarán si misura con opere più impegnative dal punto di vista prospettico e compositivo: Il funerale di San Bonaventura (1629-1630) e L’apoteosi di San Tommaso d’Aquino (1631). Nel San Bonaventura Zurbarán adotta uno schema fortemente scorciato, con la salma del compianto che taglia la scena per obliquo; al pallore cadaverico del volto si contrappone, speculare, il rosso cardinalizio del cappello poggiato sui piedi, un contrasto ulteriormente esaltato dal candore anemico della tonaca e dalla saturazione dei neri. Effetti analoghi saranno adottati dal pittore anche in dipinti successivi come Il frate Pedro Machado o il San Cirillo (1632). Nell’Apoteosi di San Tommaso d’Aquino lo schema è più complesso e i personaggi sono distribuiti su tre piani (terreno, meta-terreno, ultraterreno); una suddivisione similare è presente anche nel dipinto coevo Il miracolo della Porziuncola (entrambe le opere vantano un efficace impatto visivo ma hanno indubbiamente un taglio prospettico “meno moderno” rispetto al San Bonaventura). Databile al 1630-31 è anche l’Immacolata Concezione, su commissione del Capitolo di Siviglia (che con l’occasione invita ufficialmente l’artista a stabilirsi, con famiglia al seguito, definitivamente in città); nelle atmosfere che circonfondono la bella e metafisica vergine sospesa sembra quasi di ravvisare un che di daliniano. In questi anni, oltre alle grandi commissioni religiose, Zurbarán lavora anche ad alcune nature morte eseguite, verrebbe quasi da dire, con pennellate silenziose e metafisiche; allineati su un piano gli oggetti appaiono isolati e solitari, con più o meno esplicite allusioni religiose, modellati dalla luce e contrastati dai fondi bui. Nel corso degli anni Trenta Zurbarán lavora anche a delle nature morte meta-figurative: il Volto santo (del quale realizzerà una seconda versione, più rarefatta, circa trent’anni dopo) e l’Agnus Dei (anche questo in due esemplari) trasposizione simbolica Tamquam Agnus della rassegnata e serena immolazione del Gesù. Tra le figure che più hanno ispirato Zurbarán c’è sicuramente quella di San Francesco d’Assisi. Nell’abbracciare l’iconografia tradizionale del saio e del teschio, molto diffusa nel XVII secolo, Zurbarán delinea al contempo elementi di novità; lungi dall’esaurirsi in mero attributo iconografico il teschio sembra rivendicare una centralità tutta particolare, ben al di là del semplice rimando alla vanitas e al memento mori. Nel San Francesco in meditazione (1635) il santo genuflesso si comprime il teschio tra il petto e le mani giunte, come a voler incamerare morte e finitezza per congiungersi al divino. Nel San Francesco nella tomba (1630-34) il teschio diviene immagine speculare ribaltata del volto del santo; in quest’opera – forse il capolavoro di Zurbarán – sembra quasi di scorgere un funebre Narciso alla fonte intento a contemplare la terribile bellezza del suo destino. La perfetta simmetria della figura è accentuata dal cappuccio quasi appuntito (chiara allusione alla triangolarità trinitaria) e trova sfogo solo nel piede scalzo a destra (dettaglio che rimarca la corporeità terrena di Francesco, la disarmata umiltà e il cammino sofferto della fede); alla ponderata stabilità si accompagna una spinta propulsiva, un’aspirazione alla verticalità che quasi si traduce in un accenno di levitazione. L’ombra proiettata a destra – come nota bene Francesca Cappelletti – sta a sottolineare la fisicità di Francesco, la sua esistenza reale, la natura tutt’altro che solo simbolica del suo sacrificio. Mani, piedi e volto fanno capolino da una veste scultorea, più simile a una struttura architettonica che a un abito monastico, una corazza spessa e impenetrabile che cela ogni curva del corpo; inoltre, mentre i connotati del volto emergono appena dall’ombra del cappuccio, il colore del teschio si sintonizza all’unisono con quello del saio, come se si trattasse di un tutt’uno (l’abito, infatti, più che a una corazza rimanda a un esoscheletro). L’intera figura poi, se guardata con licenza da una certa distanza, sembra assumere la morfologia di un grande teschio stilizzato (un Dalì ante litteram!?).

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Nel 1634 Zurbarán è attivo a Madrid dove lavora, con altri, alla decorazione del palazzo del Buen Retiro (le opere più importanti furono affidate a Velázquez); qui realizza le sue uniche opere a tema mitologico (sulle fatiche di Ercole), nelle quali è ben visibile l’adesione a certe soluzioni di Velázquez. A Madrid Zurbarán ha modo di misurarsi anche con il ritratto (si veda, tra gli altri, quello del giovanissimo Don Alonso Verdugo de Albornoz). Il rientro a siviglia coincide con i nuovi lavori commissionati dalle grandi istituzioni religiose cittadine, tra cui il convento della Merced Descalza per il quale realizza il polittico per l’altare maggiore; tra i pezzi del polittico, oggi smembrato, fanno bella mostra di sé le sante Lucia e Apollonia a figura intera, riccamente vestite con fogge contemporanee. Del 1635 sono anche la Sant’Orsola e la Santa Casilda, che più che sante paiono nobildonne e quasi delle regine, tanto per la preziosità dei tessuti quanto per la ricercata eleganza delle pose (nulla di più lontano dal san Francesco dipinto l’anno precedente, un saggio quindi di straordinaria versatilità). L’anno successivo dipinge una pala d’altare per la chiesa di Nostra Signora de la Granada le Llerena; nel 1638 dipinge il Beato Suson e il San Luis Beltran (per la chiesa sivigliana di Santo Domingo) e nel ’39 dipinge una Circoncisione per la Certosa di Jerez. Sempre nel 1639 lavora a otto opere di grandi dimensioni destinate alla sagrestia del monastero di Santa Maria di Guadalupe (Estremadura). Per tutto il corso degli anni ’40, a fianco di altre importanti commissioni su suolo spagnolo, Zurbarán realizza (con lauto aiuto della sua bottega) numerosi dipinti devozionali destinati alle colonie spagnole in America, un lavoro certo meno ispirato ma nient’affatto dozzinale. Del 1647 è la Santa Margherita (oggi alla National Gallery di Londra) che funse da modello per numerosi analoghi realizzati dalla bottega zurbaraniana e spediti nelle colonie americane. Nel 1648 dipinge le pale d’altare per la cattedrale sivigliana di San Pedro e per la chiesa di San Esteban. Tra i capolavori di Zurbarán degli anni ’50 va menzionato il Cristo sulla croce e un pittore (1655), che secondo l’interpretazione di W. Somerset Maugham potrebbe includere un potenziale autoritratto di Zurbarán; va da sé che si tratti di un’iconografia davvero insolita e singolare, e qui il pittore fa nuovamente dialogare quasi illusionisticamente i due medium pittura-scultura (come nel Cristo sulla croce del 1627 e nel San Francesco nella tomba del 1630-34). Alla fine degli anni ’50 Zurbarán abbandona definitivamente Siviglia (città in grave declino e provata dalla peste) e si trasferisce a Madrid. Nelle opere senili prevalgono cromie più tenui e meno “caravaggesche” e, più in generale, atmosfere più intime e delicate. Morirà a Madrid all’età di sessantasei anni (1664).

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Quella di Francisco de Zurbarán al Palazzo dei Diamanti di Ferrara è davvero una signora mostra, e val davvero la pena visitarla, a dispetto di tanto quadrettume esposto attualmente su e giù per il Paese. La grande monografica (la prima in Italia per Zurbarán), curata da Ignacio Cano Rivero con il supporto del consulente scientifico Gabriele Finaldi, è strutturata secondo uno schema cronologico e tematico, al fine di restituire quanto più compiutamente la portata del grande pittore sivigliano. Non manca nulla, dalle grandi committenze ecclesiastiche e aristocratiche fino alle tele di piccolo formato, per lo più nature morte con elementi floreali. Chi era Francisco de Zurbarán? Che notizie ci sono pervenute sulla sua vita? Quali influenze ha avuto la sua lezione pittorica sulle generazioni successive? Quali punti di contatto ci sono tra la sua opera e quella di Velázquez? Il ricco apparato storico critico presente nel catalogo – con testi di Odile Delenda, Benito Navarrete Prieto, Maria del Valme Munoz Rubio, Paolo Tanganelli, Alessandro Del Puppo (oltre ai già citati Ignacio Cano Rivero e Gabriele Finaldi) – ci introduce bene a una delle personalità artistiche più significative e rappresentative del XVII secolo. Certe soluzioni plastico-cromatiche di Zurbarán furono più che determinanti per artisti come Manet e Derain (e anche il nostro Giorgio Morandi, tra gli altri, ha fatto propria quell’ovattata silenziosità delle nature morte zurbaraniane).

Un interessante contributo su Zurbarán lo ha stilato nel 1952 lo scrittore e commediografo inglese W. Somerset Maugham, ma più che un semplice contributo critico o storiografico sarebbe meglio definirla una testimonianza, un delicato omaggio; Maugham si inchina al cospetto della <> dell’opera zurbaraniana, e in questo stato d’animo colmo d’ammirazione si propone di descriverla. Il piccolo saggio Zurbarán (edito in Italia da Skira, con traduzione di Masolino d’Amico) raccoglie dati e aneddoti non sempre riconducibili a fonti attendibili, ed è anzi Maugham stesso a precisare che <<Zurbarán visse nell’oscurità, e poco di lui si può dire che non sia più che congetture>>; individua nel suo stile compositivo e pittorico <<quell’onesto realismo così distante dall’abbagliante aerea brillantezza di Velázquez e dall’appassionata intensità di El Greco>>. Di Zurbarán Maugham segnala impietosamente anche certi limiti (la mancanza di fantasia, la poca inventiva, l’essersi prestato spesso a opere commerciali) ma puntualizza, acutamente, che <<un artista ha il diritto di essere giudicato in base alla sua produzione migliore>>, produzione che Maugham circoscrive negli anni tra il 1626 e il 1639. Nel descrivere Zurbarán spesso Maugham si contraddice: nella stessa pagina afferma che <<non era un genio>> ma che <<a volte superava se stesso>>; lo colloca in una zona franca tra arte e alto artigianato, tra schiettezza naturalistica e aderenza a modelli vigenti, tra sincera drammaticità e calcato misticismo, ed è un ritratto che convince, una lettura critica assolutamente condivisibile.

Massimiliano Sardina

Cover Amedit n° 17 – Dicembre 2013. “Ephebus dolorosus” by Iano

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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 17 – Dicembre 2013

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