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24. Nell’azzurro

Creato il 07 ottobre 2011 da Fabry2010
24. Nell’azzurro

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Dove eravamo rimasti? Ah, sì, quegli occhi, gli occhi azzurri della laguna che mi fissano, le labbra aperte che inducono in tentazioni misteriose.
La faccia era come scolpita nella pietra, occhiali tondi e leggerissimi, mento pronunciato.
Fino ad allora mi ero tenuto su posizioni ferme, in obbedienza agli ordini provenienti d’Oltretevere.
Al di là del finestrino sembra una dea, con le palpebre ambrate e due perle che pendono leggere dagli orecchi.
Più tardi, le lenti si fecero spesse e gli occhialetti neri.
Tutto secondo copione, quindi: anzi, qualcuno cominciò a dubitare dell’etichetta di bontà che mi avevano affibbiato, perché mi pronunciavo sulla spregiudicatezza di vestiti femminili e mostre d’arte.
Sono i momenti folli in cui ti chiedi se davvero una donna così bella possa essere solo di un marito.
Un sorriso appena accennato si trasmetteva dagli occhi semichiusi alle labbra incastonate nella faccia tonda.
Ma poi arrivò il congresso, capirai: i nemici in casa, il lupo nella stalla dell’agnello.
E’ il momento in cui ti chiedi se, alla fine, non si sia costretti a indossare qualche maschera, una delle maschere del nostro carnevale.
Gli operai, le macchine, la fatica immane pagata quattro soldi erano una ragione valida di vita, anzi, la tua vita.
Mi ricordai la neve, la chiesa irrigidita dal freddo, gli alberi stecchiti che sembravano ondeggiare per scaldarsi a vicenda.
Immagino la bocca che si apre, in cerca d’aria, una fame di sogni, petali caduti e portati via dal vento in un giorno d’autunno di qualche altra dimensione.
La fabbrica, la fabbrica, l’inferno di ferro e calore, dove gli schiavi dimenticano di esserci venuti da se stessi, di aver dovuto mettere la testa sotto la lama della ghigliottina.
E la casa di mattoni grigi, la galleria di pietra oltre la quale intravedevo un futuro con facce sempre nuove, a seconda del tempo, dell’umore.
La gondola galleggia sull’acqua come la terra nella giostra di galassie che non si sa dove inizi né finisca.
La lotta, la lotta, riuscire ad alzarsi, a dire no, spezzare la catena interminabile dell’ingiustizia umana.
La strada saliva verso il duomo, il campanile provava a sollevarsi sulla punta dei piedi per ritrovare qualche pecora smarrita, qualcuno che aveva perso il desiderio di guardare negli occhi suo fratello.
Gli archi, le bifore e le trifore sono pori della pelle, ventri di donna che aspettano un turista, un amante, un principe dello stesso colore del canale.
La marcia, la marcia, lo sciopero che apre le labbra, libera le mani, ridà forza alle gambe, un’energia che sembrava dissipata per l’eternità.
Quando guardavo il Colle di San Giovanni e il Monte Canto immaginavo un animale addormentato, che da un momento all’altro dovesse svegliarsi e imbizzarrirsi.
L’isola di San Giorgio è un pezzo di terra staccatasi dalla riva di chiese e ristoranti, un pezzo di cuore che decide di andarsene dal corpo.
La libertà, la libertà, gridata contro il mondo, per il mondo, perché il mondo è in attesa di un grido, anche se ormai non lo sa più, anche se hanno fatto di tutto per farglielo scordare.
La bambina sorride: nei suoi occhi,Venezia è una maschera appesa alla parete, una nuvola che fugge via, dietro le case, un sogno che si nasconde dentro le bifore e le trifore.
Quando li accolsi in città, con una lettera benevola, gridarono allo scandalo, vollero che mi correggessi a tutti i costi, ma ormai era fatta.
L’unità, l’unità.
E il mare, che diventa vicolo, finestra specchiata nell’azzurro.



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