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40. Il mio cadavere

Creato il 23 ottobre 2011 da Fabry2010

Pubblicato da fabrizio centofanti su ottobre 23, 2011

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Riuscimmo a metterci d’accordo: con la raccolta, da parte nostra, di una cifra simbolica, fummo finanziati per il viaggio più importante della vita.
Non avevo mai visto una cosa del genere: un elefante tutto bardato, una torretta sul dorso in cui sedeva trionfalmente un personaggio che doveva essere ricchissimo.
Ci imprigioneranno, ci multeranno, prenderanno le nostre proprietà.
Il treno sembra uno di quelli che partono per i campi di concentramento: la gente si aggrappa alle sbarre d’acciaio delle finestre, guarda la stazione come da un altro mondo che nasce sui binari.
Per me era una verifica importante, l’impatto con la patria delle idee che avevo fatto mie e non avrei mai più tradito – questa era almeno l’intenzione.
Intorno a lui una folla di uomini in divisa – in maschera, si sarebbe detto, se non fossero stati così seri -, con aste lunghe e colorate – stendardi? ventilatori? insegne di comando?
Ma non potranno mai toglierci il rispetto per noi stessi, se non saremo noi a darglielo.
Lungo il tragitto si vede la foresta, famiglie intere che camminano lungo i sentieri impolverati.
Finalmente non ero io a insegnare, a predicare, ero lì per capire, un pellegrino che se ne sta in silenzio, in attesa di un evento decisivo.
Mi feci strada tra ricchezza e povertà, convinto che la via che proponevo avrebbe interpellato tutti.
Vi sto chiedendo di combattere, di combattere contro la rabbia, non di provocarla.
Al passaggio a livello si vede tutta la città: motorette, furgoni, gente con la mano sulla fronte per inquadrare meglio il treno.
Sapevo che il governo non condivideva pienamente il messaggio della Grande Anima; era uno strumento come un altro, un mezzo per raggiungere obiettivi che avrebbero potuto richiedere altri metodi.
Come nasce un sogno? Se dovessi dirlo, mi troverei in difficoltà: sei visitato da qualcosa che ti supera, ti libera dalla meschinità della lotta quotidiana, sei rapito da qualcuno di cui non conosci il nome e le intenzioni.
Noi non vibreremo un solo colpo, ma ai loro colpi non ci sottrarremo e attraverso il nostro dolore faremo vedere la loro ingiustizia.
Adoro i passaggi a livello, perché dal finestrino si vede la storia che si ferma, il fiume in piena della vita si arresta per un attimo, riflette su una corsa senza scopo e senza fine.
Io, invece, mi convincevo sempre più: era l’unica via che dovevamo battere, quella che ci avrebbe portato alla vittoria.
Non immaginavo quale folla immensa mi avrebbe seguito nelle azioni di disobbedienza e resistenza passiva, nei boicottaggi e l’astensione dal lavoro.
E questo porterà dolore, come lo porta ogni battaglia, ma non possiamo perdere.
Ti guardano dall’altra sponda della vita, come se sul treno ci fosse la ragione delle cose, il senso che appare per un attimo e sparisce per sempre, sferragliando.
Era una fede: dovevi crederci sempre e nonostante tutto; detto tra noi: se non vivi così, non sei nemmeno un uomo.
La polizia picchiava duro, ma eravamo tanti, troppi, l’ondata del futuro ormai rompeva gli argini.
Non possiamo: loro possono torturare le mie carni, rompere le mie ossa, anche uccidermi. Allora potranno avere il mio cadavere.
Pensano che il senso sia nel moto, che viaggiare sia la ragione unica del viaggio, liberarsi finalmente da se stessi.
Avevo fatto la mia scelta e, detto tra noi, scegliere vuol dire vivere.
Diventammo indipendenti, il più bel giorno della vita, una folla libera, un cielo che sembrava baciarci, con le labbra piene di nuvole.
Potranno avere il mio cadavere, non la mia obbedienza.


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