Magazine Diario personale

Affresco

Da Melusina @melusina_light

Affresco

Non ho mai mentito sulla mia età, anzi ne vado fiera. Perché non conosco nessun altro che possa vantare una vita varia e longeva come la mia.
Sono nata a Venezia nel 1735, lo stesso giorno dell’incoronazione di Alvise Pisani a Doge. Mio padre era tipografo, aveva una stamperia in Barbarìa dele Tole, vicino a Campo Ss. Giovanni e Paolo; era molto apprezzato in città, e fra i suoi clienti vi erano diversi artisti, che gli portavano a bottega poesie, libretti d’opera e spartiti musicali. Noi la sera, a casa, facevamo musica prima di cena, soprattutto d’inverno quando fuori la notte e le nebbie ingoiavano il canale della fondamenta Brian. Mi accadde di conoscere di striscio Antonio Vivaldi, che doveva dei soldi a mio padre ma era stretto di manica come di petto e tirava sempre sul prezzo. Giacomo Casanova lo conobbi l’inverno in cui gelò la laguna e tutti andammo a vedere dalla riva i buontemponi che ci pattinavano sopra. Ero al tempo bella come tutte le veneziane del settecento, e non nascondo di aver ricevuto da lui delle avances piuttosto pressanti, che però respinsi con fermezza perché mi ero segretamente innamorata di Giambattista Tiepolo, allora cinquantenne, per averlo visto lavorare all’Incoronazione di Maria Immacolata sulla volta della navata della chiesa della Pietà.
Andavamo anche a teatro, per lo più di carnevale (ma ricordiamoci a Venezia, nel settecento, il carnevale andava da ottobre a primavera inoltrata), e fu così che conoscemmo Carlo Goldoni. Fu ospite ai nostri salotti musicali almeno due o tre volte, ma la musica lo annoiava un po’ e preferiva fare quattro chiacchiere davanti a un bricco di cioccolata fumante. Prima di lasciare Venezia per Parigi, passò a salutarci e promise di tornare entro un paio d’anni; invece sappiamo come è andata, che lui a Venezia non ci tornò più.
Una primavera mi incantai, con tutta la città, ammirando l’ascesa di un pallone aerostatico nel cielo sopra piazza San Marco; era l’aprile del 1784, e l’ammiraglio Angelo Emo aveva cominciato le sue azioni militari contro i pirati barbareschi. In città arrivavano, e suscitavano tripudio, le notizie dei suoi bombardamenti contro i porti di Tunisi e Biserta.
Vidi Goethe estatico su una gondola mentre si riempiva gli occhi di immagini che in patria non avrebbe mai dimenticato. Tornai a vedere la laguna gelata durante il carnevale del 1788, e pochi anni dopo ci capitò di passare la notte di Natale in cima alle scale per salvarci da un’eccezionale acqua alta. Ma ci attendevano prove ben peggiori. Dovetti udire i cannoneggiamenti del porto del Lido contro una nave napoleonica che veniva a prendere prigioniera la città, e in capo a poche settimane cademmo in mano francese. Quei ladri. Ci derubavano dei nostri tesori più sacri con la più empia arroganza. Poi vendettero anche noi, tutti noi, agli odiati austriaci, che oltre al resto fecero la loro parte di razzie. Giacomo Casanova era lontano, vecchio e piegato; seppi solo dopo mesi che era morto oscuramente in Boemia.
Gli austriaci rimasero un bel pezzo. Non che ci trattassero male, anzi erano innamorati di noi e di Venezia, non avendo, a casa loro, niente di così bello. Tuttavia erano stranieri, e noi non abbiamo mai sopportato padroni: nemmeno i nostri dogi lo sono mai stati, erano anzi uomini come noi al servizio del popolo e del Maggior Consiglio. Fastosi ornamenti ma senza potere. Siamo stati sempre, e sottolineo sempre, una Repubblica, e per di più laica, sganciata dalla Chiesa e spesso, perciò, in odore di eresia.
Ecco perché c’ero anche io, in Piazza, nei giorni della liberazione di Manin e Tommaseo e della proclamazione della Repubblica Veneta Democratica (e non leghista), in mezzo alla folla esultante e piena di orgogliose speranze. E per il motivo opposto, l’umiliazione e lo sconforto, scesi in calle ad assistere alla caduta dell’anno successivo, tra la fame e il colera che ci assediavano peggio degli austriaci e che ci sconfissero vigliaccamente. Ma c’ero, e commossa, anche il giorno in cui le ceneri di Manin, morto esule a Parigi, tornarono a Venezia dopo l’unificazione al Regno d’Italia, che alla fin fine non si rivelò poi tanto migliore dell’impero astro-ungarico, va detto.
Nel 1902 accorsi affranta a contemplare le macerie del crollo del campanile di San Marco. Con gli altri giurai a me stessa e alla città e all’intero mondo che sarebbe rinato com’era e dov’era, e così fu.
Gli austriaci, poi, non se l’erano messa via del tutto. Tornarono a desiderarci e portarono nuovi cannoni fino al Piave. Una notte ci bombardarono per otto ore di fila, che io passai in cantina tra odor di salmastro e spolverio di calcinacci ma nessuna preghiera nel cuore, a nessun Dio, tutt’al più a San Marco e al suo Leone.
Dopo la guerra, la Grande Guerra, credetti di incontrare D’Annunzio un pomeriggio lungo le Zattere. Aveva i suoi stessi baffi, il suo stesso charme, il suo stesso naso altezzoso e una bella donna sognante appesa al braccio. C’era un sacco di bella gente, ricca e famosa, che girava per Venezia in quegli anni; scrittori, musicisti, celebri amanti, teste coronate, attrici di teatro. Anche oggi, verrebbe da dire, ma di tutt’altra qualità, molto più modesta; più che altro una mise en scène da dilettanti.
Di guerra ce ne fu un’altra, come si sa. Di notte si vedevano i traccianti sopra il cielo nero della terraferma, e si udivano gli schianti delle bombe su Treviso. Noi, ci risparmiavano, perché volevano la città intatta come trofeo. Ma si presero comunque qualche martire, come i sette i cui cadaveri restarono legati per giorni ai lampioni sulla Riva che poi avrebbe preso il loro nome; io li vidi mentre li fucilavano per motivi futili, vi fui portata a viva forza con gli abitanti della zona per assistere a uno dei fin troppi atti esecrabili di rappresaglia. Ora a quella riva attraccano navi da crociera, e ne sbarcano i discendenti di quello straniero e di molti altri; poi scusate se qualche ristoratore o qualche gondoliere gli rifila conti da capogiro. E scusate anche se, quando ogni anno quegli scalmanati della lega vengono a piantare lì le loro tende, sono io quella donna che si affaccia alla finestra e espone il tricolore. Non perché mi senta particolarmente italiana, in quanto veneziana non ne ho bisogno; ma perché di invasori invasati e barbari di campagna ne abbiamo già avuti abbastanza, ora poi che stiamo combattendo all’ultimo sangue contro i cinesi.

Ultimamente incontro spesso il sindaco Orsoni in vaporetto. Come stiamo, sindaco? gli chiedo. Come va la guerra contro i cinesi? Mah, risponde lui col suo sorriso placido da piccolo orefice vagamente pronipote di Dogi e Capitani del Mare. Poi mi offre uno spritz, mentre da San Marco arriva e si scioglie sopra i tetti il mezzogiorno largo, solenne e inconfondibile della Marangona.


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