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All’Asia serve una “ASEAN-izzazione” e non una “pakistanizzazione” del continente

Creato il 01 novembre 2012 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR
All’Asia serve una “ASEAN-izzazione” e non una “pakistanizzazione” del continente

Come dimostrano le recenti dispute nel Mar Cinese Orientale e nel Mar Cinese Meridionale, Pechino ha sottovalutato la carica emotiva che le dispute territoriali si portano dietro, così come l’opportunità concessa ai vicini per amplificare tali tensioni con lo scopo di distogliere l’opinione pubblica dalle insistenti problematiche socio-economiche e politiche al loro interno. Costoso e pericoloso gioco basato sulla vigorosa retorica nazionalista, stimola attualmente un clima che potrebbe facilmente dirottare l’intera prossima decade in Asia.

Speculazioni riguardo un possibile futuro mondo bipolare (il cosiddetto G-2, Cina e Stati Uniti) non dovrebbero essere un dilemma asiatico. Si tratta innanzitutto di una preoccupazione dell’Occidente che, dopo tutto, ha per primo «surriscaldato» la Cina con i suoi investimenti in outsourcing. Perciò, nonostante uno stonato vociferare riguardo ad un presunto futuro contesto mondiale imperniato sul G-2, il problema centrale per la sicurezza in Asia resta lo stesso: l’assenza dal continente più esteso del mondo di un qualsiasi tipo di ambiente multilaterale.

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Sulla sponda orientale, in ascesa, del continente eurasiatico, la sbilanciata economia cinese è surriscaldata e troppo ben integrata nel «sistema dei petrodollari». Pechino, al giorno d’oggi, non può né prendere in considerazione né effettivamente permettersi di destinare alcuna risorsa nella ricerca di un’alternativa. (L’economia cinese è incentrata sul basso costo del lavoro e sulla produzione di beni ad alta intensità di manodopera. Le entrate cinesi dipendono in larga misura dall’export, e le sue riserve sono in gran parte costituite da un misto di dollari USA e buoni del tesoro nordamericano). Per reggersi in piedi come un’unica entità socio-politica ed economica dalle eccezionali prestazioni, la Repubblica Popolare ha bisogno di più energia e meno dipendenza dall’estero1. Sul fronte interno, la pressione demografico-migratoria è enorme, le richieste da parte delle realtà regionali sono alte e le aspettative sono in fermento2. Considerando il suo migliore contrappeso alla dipendenza energetica dall’estero (e strumento di coesione interna), la Cina sembra tendere verso il consolidamento del proprio apparato militare piuttosto che verso risoluti investimenti nelle energie alternative e nella “tecnologia verde” – non ha né il tempo, né la disposizione, né le risorse per fare entrambe le cose in una volta. Disattenta nei confronti del quadro globale, Pechino crede (probabilmente in maniera erronea) che una duratura politica di contenimento, specialmente nel Mar Cinese Meridionale, sia insostenibile e che – allo stesso tempo – il combustibile fossile è già a portata di mano (ad es. in Africa e nel Golfo), magari anche più a buon mercato con l’aiuto delle navi da guerra3.

Infatti, il consolidamento militare cinese nel futuro prossimo non farà che acuire ulteriormente le problematiche di sicurezza esistenti con i vicini4 principalmente con gli Stati Uniti, e crearne di nuove dal nulla – al giorno d’oggi in Asia nessuno ha intenzione di svolgere un ruolo passivo. In ultimo, potrebbe portare ad un isolamento politico e militare della Cina (insieme ad un ingente onere finanziario) che di conseguenza giustificherebbe e faciliterebbe (sul piano politico e finanziario) una presenza militare nordamericana più spessa e rafforzata nella regione dell’Asia-Pacifico, soprattutto nel Mar Cinese Orientale. Ciò si abbina alla perfezione con la sempre più intensa demonizzazione della Cina da parte degli influenti media occidentali5.

Quindi, la morsa sulle riserve di combustibili fossili, come la sua corsa per il controllo navale, non rappresenta una minaccia quanto piuttosto uno stimolo al posizionamento – anche nel complesso – degli Stati Uniti nell’Asia-Pacifico. Nel calibrare la riduzione dei loro impegni e dei loro interessi all’estero – che qualcuno chiamerebbe gestione del declino di un impero – gli Stati Uniti non mancano di notare come al giorno d’oggi la metà del commercio mondiale in termini di tonnellaggio passi per il Mar Cinese Meridionale. Perciò gli Stati Uniti sfrutteranno qualsiasi disputa territoriale o qualsiasi frizione a livello regionale a beneficio della propria sicurezza, incluso il fatto di condividere con i partner locali i costi della propria presenza militare così come quello di conservare un perno di manovra su quel confine marittimo dell’Asia che si estende dal Golfo Persico all’Oceano Indiano, passando per Malacca, i Mari Cinesi Meridionale e Orientale fino al Pacifico centro-settentrionale. La Cina al giorno d’oggi non si sta forse comportando da finanziatore de facto degli Stati Uniti?

La vera sfida sta sempre nel sapere ottimizzare i costi (morali, politici e finanziari) per realizzare gli obiettivi strategici nazionali. In questo caso potrebbe essere risolutiva una svolta da parte cinese verso la «tecnologia verde», abbinata ad un forte processo di costruzione del multilateralismo in Asia. Senza un grande riavvicinamento ai campioni del multilateralismo asiatico, ovvero Indonesia, India e Giappone, la Cina si troverebbe priva di ogni spazio per crescere seriamente ed affermarsi come formidabile, duraturo ed affidabile leader a livello globale6. Di conseguenza, ciò di cui la Cina ha bisogno in Asia non è una corsa agli armamenti navali sullo stile di quella del 1908, ma un processo simile a quello di Helsinki del 1975. Allo stesso tempo ciò di cui l’Asia necessita (da parte di Cina e Giappone) è un processo di «ASEAN-izzazione» e non di «Pakistanizzazione» del continente7.

La scelta dell’una o dell’altra strategia si ripercuoterà sul dinamico scenario dell’Asia-Pacifico8. I messaggi insiti nell’una o nell’altra sono comunque diametralamente opposti: una politica militare assertiva porta all’isolamento; lo sviluppo di nuova tecnologia attrae i vicini. E, infine, gli eserciti conquistano (e spendono), mentre la tecnologia costruisce (e genera profitti)! A questo punto qualsiasi corsa agli armamenti nel teatro dell’Asia-Pacifico non farebbe altro che consolidare lo status quo degli idrocarburi, e aiuterà implicitamente a far tacere ancora la sensibilità dei consumatori nei confronti del prezzo record dei prodotti petroliferi.

Allo stato attuale, è difficile immaginare che qualcuno abbia la capacità di mettere fuori gioco gli Stati Uniti sul campo globale della petro-sicurezza, della petro-finanza e della petro-difesa nelle prossime decadi. Data una moltitudine di ragioni petro-finanziario-comunicativo-tecnologico-militari, un confronto di questo genere è qualcosa in cui gli Stati Uniti sono buoni esperti e qualcosa di cui gli Stati Uniti e i loro alleati più stretti saranno i soli a trarre beneficio. L’apparato di difesa cinese è ultra-ideologizzato, scarsamente capitalizzato, tecnologicamente obsoleto e refrattario all’innovazione, mentre quello degli Stati Uniti è in larga parte privatizzato, altamente efficiente, facilmente dispiegabile e fondamentalmente innovatore. Quindi, anche sul piano della sicurezza, il principale problema della Cina non è la parità navale o militare nel suo complesso, ma lo sproporzionato divario tecnologico. Dopotutto l’esercito cinese non è stato concepito (da Mao) né mantenuto (da Deng e i suoi successori) per servire a scopi di proiezione esterna. Era e rimane uno strumento ideologico di coesione, un’essenziale forza centrifuga atta a preservare l’integrità territoriale di questo gigante continentale.

All’interno del gruppo dei paesi OECD/IEA, o in particolare nel G-8 (i paesi con le risorse, le infrastrutture, la tradizione e le competenze tecniche e le fondamentali conquiste tecnologiche), soltanto il Giappone potrebbe prendere seriamente in considerazione una svolta verso tecnologie pulite. La dipendenza energetica esterna di Tokyo è acuta e destinata a durare a lungo. Dopo il recente shock nucleare, al Giappone basteranno pochi anni per assorbire (psicologicamente ed economicamente) il colpo – ma in ogni caso avrà imparato una lezione. Per la sua economia dalle cifre impressionanti e per la sue considerevoli dimensioni demografiche, localizzato com’è su una ristretta estensione territoriale costantemente martoriata da catastrofi naturali (e dipendente da una altrettanto rovinosa influenza estera – il petrolio arabo), un decisivo passaggio alla «energia verde» potrebbe rivelarsi l’unica strada per la sopravvivenza, la rinascita e, in ultimo, per l’emancipazione.

Una buona parte del trattato di sicurezza tra Stati Uniti e Giappone è costituita dalla garanzia della sicurezza delle linee di rifornimento energetico concessa a Tokyo (demilitarizzata come esito della Seconda Guerra Mondiale). Dopo la recente apocalisse costituita da terremoto, tsunami e radioattività, e considerando allo stesso tempo l’attuale frastuono che circonda l’attività militare e navale cinese, il governo dell’appena riconfermato Noda e qualsiasi altro governo giapponese a seguire si troverà inevitabilmente a riconsiderare e a rivedere la sua politica energetica, al pari della composizione delle proprie fonti di energia primarie.

Tokyo è ben conscia della miopia strategica dell’Asia, siccome molti paesi asiatici rimangono chiusi nel loro ristretto contesto regionale o si trincerano dietro il loro egoismo economico. Per concludere, il Giappone è l’unico paese asiatico che ha chiaramente saputo trarre lezioni dalla propria storia recente, soprattutto riguardo i limiti di una proiezione strategica condotta per mezzo dello hard power e le forze antagoniste che come esito provengono dai vicini. La propria storia moderna e premoderna non può offrire una simile esperienza agli altri due «pezzi grossi» dell’Asia, Cina ed India. E ciò lascia intendere che l’Estremo Oriente potrebbe diventare un’area di eccellenza nell’ambito della «tecnologia verde» (così come l’ASEAN potrebbe essere il centro di gravità di una consolidata attività diplomatica e socio-politica) e un punto d’attrazione per numerosi asiatici nei prossimi decenni

(Traduzione dall’inglese di Alessandro Leopardi)


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