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Années Terribles (parte prima)

Creato il 07 febbraio 2012 da Ilcasos @ilcasos

Scena 1. Parigi 25 maggio 1871.[1]

Années Terribles (parte prima)

C’è un uomo, in mezzo alla scena.

Indossa un cappello nero a tesa rigida, una giacca ugualmente nera. Una fusciacca legata attorno ai fianchi, come quella di un sindaco, rossa.

Nella piazza i leoni di bronzo della fontana sono deformati, bucati, riversi. Il grande catino di pietra che li sormontava è spezzato e sbriciolato al suolo, l’acqua non c’è più. Gli alberi sono anneriti, senza foglie, quelli che erano prati ora sono solo ammassi informi di terra e ghiaia. Una ventina tra le case che si affacciano sulla piazza sono in fiamme. L’aria è fumo nero e polvere, il calore è fortissimo.

L’uomo cammina in linea retta, sta percorrendo lentamente ma inesorabilmente l’ultimo tratto del boulevard che conduce alla piazza. La sua canna da passeggio ticchetta sui rari sassi rimasti al loro posto sulla carreggiata. E’ solo. Si scorgono altre figure umane qualche decina di metri dietro di lui, immobili. Tutti imbracciano un fucile, o impugnano una pistola, o ancora stringono nel pugno una spada da ufficiale. I loro sguardi seguono l’uomo, ma i corpi sono pietrificati. Piove cenere.

L’uomo è arrivato alla fine del boulevard. Tra lui e la piazza c’è ora solo il metro e mezzo di porfido, legno e ferro di una barricata, deserta. L’uomo si chiama Louis Charles Delescluze, è il ministro della guerra della Comune di Parigi. Aiutandosi con la canna, si arrampica sulla barricata. Per un istante la sua corta barba bianca, le sue occhiaie nere eredità degli anni passati all’Ile du Diable sono ancora visibili agli uomini immobili nel boulevard. Poi una, probabilmente più d’una delle migliaia di pallottole che da ore sbriciolano piazza di Chateau d’Eau lo abbattono.

Nel cielo decine, centinaia di colonne di fumo e scintille oscurano il tramonto.

È la sera del 25 maggio 1871, e Parigi brucia.

Scena 2. Longchamp 6 giugno 1867.[2]

Années Terribles (parte prima)

 

L’ippodromo di Longchamp è stato inaugurato domenica 27 aprile 1857, alla presenza dell’imperatore Napoleone III e dell’imperatrice Eugénie. Cinquantasette ettari di pista, tribune, padiglioni circondati dal verde del Bois de Boulogne. La costruzione di questo imponente circuito ippico è stata voluta dal duca Charles de Morny, fratellastro dell’imperatore, che alla passione per l’arte, il denaro e il liberalismo univa quella per le corse. Morny, che a chi glielo chiedeva diceva «Nel mio lignaggio, siamo tutti bastardi di madre in figlio da più di tre generazioni. Io sono pronipote di re, nipote di vescovo, figlio di regina e fratello d’imperatore». Era uno strano personaggio, Morny, ma quale degli appartenenti alla famiglia imperiale non lo è? Si dice che l’imperatore stesso una volta sia sbottato: «Come volete che governi?! L’imperatrice è legittimista, Morny è orleanista, il principe Jerome-Napoleon è repubblicano e io stesso sono socialista… non c’è che un bonapartista nel mio entourage: Persigny, che però è pazzo!».

Legittimisti borbonici, orleanisti, repubblicani, socialisti, bonapartisti.

Chiaramente Napoleone III Bonaparte non è affatto socialista, non nel senso che noi diamo al termine. Il resto dell’entourage imperiale è però veramente la cartina di tornasole degli ultimi ottant’anni di storia politica francese.

Dopo la Rivoluzione, la Repubblica e l’impero del Grande Napoleone, il Primo, con la Restaurazione del 1815 sono tornati al potere i Borbone, col gonfio e cinico Luigi XVIII e poi con Carlo X. Ma i germi delle idee rivoluzionarie lavorano sotterraneamente – e anche alla luce del sole, considerando che moltissimi personaggi di spicco della Restaurazione hanno già servito sotto sia Robespierre che Bonaparte.

Dopo quindici anni di Borbone, nel luglio 1830 il popolo di Parigi rovescia con una insurrezione durata tre giorni la monarchia assoluta. Nella confusione, tra chi resiste al fianco di Carlo X e chi sulle barricate invoca la repubblica, viene pescato dall’anonimato quasi assoluto e messo sul trono l’appartenente ad un ramo cadetto della famiglia reale. È Luigi-Filippo di Borbone-Orléans, il “re delle barricate”, o “re borghese” come lo si chiama con sdegno nelle corti europee. Luigi-Filippo viene nominato dalla Camera dei Rappresentanti «re dei francesi» (e non «di Francia»). Insomma, si passa ad una monarchia costituzionale, basata su un patto tra re e cittadini e non sul possesso per grazia divina del suolo francese (e dei corpi dei francesi) da parte del monarca. Sotto la “monarchia di luglio” la bandiera nazionale torna ad essere il tricolore (con i Borbone era la dinastica bandiera bianca a gigli dorati). Ma quella bandiera è pressoché l’unica soddisfazione per coloro che avevano sperato, sulle barricate, nella repubblica. Diciotto anni, dura il regno del “Re Pera” (dalla forma della sua testa) Luigi-Filippo d’Orléans, e la liberalità cede presto il passo al ritorno dell’autoritarismo.

Poi, come in tutta Europa, arriva il quarantotto. Tra le rivoluzioni che attraversano il continente, una delle prime è quella di febbraio a Parigi, che abbatte la monarchia d’Orléans e vede la nascita della Seconda Repubblica Francese. Dopo qualche mese di confusione e socialismo utopistico, il popolo di Parigi perde di nuovo la pazienza e riscende nelle strade. Ma stavolta non si trova di fronte un vecchio Borbone o l’ormai screditato Re Pera. Stavolta esce dalle caserme alla testa delle truppe del governo il generale Louis-Eugène Cavaignac, dotato dall’Assemblea repubblicana di poteri dittatoriali. Ed è un bagno di sangue: quasi 6000 morti tra soldati dell’esercito e parigini insorti. Cavaignac a quel punto potrebbe diventare se non il nuovo re di Francia, certo il capo di un regime repubblicano autoritario. Invece, per uno di quei casi legati alla personalità dei singoli che tanto spesso svoltano le situazioni storiche, Cavaignac resta fedele ai suoi ideali democratici. Cede i poteri dittatoriali all’assemblea, e si va alle elezioni. I candidati sono sei: tre repubblicani moderati o progressisti (Cavaignac stesso, Lamartine e Ledru-Rollin), il monarchico Changarnier, il socialista Raspail che corre dal carcere nel quale è rinchiuso. E poi c’è il candidato del «partito dell’ordine»: Luigi-Napoleone Bonaparte, nipote quarantenne del Grande Napoleone. I risultati delle votazioni (effettuate a suffragio universale e scrutinio diretto, cosa che non accadrà più fino al 1965) vengono resi noti il 20 dicembre 1848. E sono bulgari: Luigi-Napoleone Bonaparte vince col 74% dei voti, il secondo classificato Cavaignac non arriva al 20%.

Ed eccolo qua, il primo presidente della repubblica nella storia francese: Luigi-Napoleone Bonaparte, il “principe-presidente”. Tre anni, dura il suo mandato, e finisce assieme alla Repubblica. Già, perché il 2 dicembre 1851 un certo numero di generali fedeli all’erede del Grande Napoleone conducono per suo conto un colpo di stato, e l’anno successivo Luigi-Napoleone diventa Napoleone III. Imperatore dei francesi come lo zio, ma a differenza sua imperatore eletto: un plebiscito a suffragio universale da lui fortemente voluto conferma la “scelta” dell’Impero con oltre l’80% di «oui».

Affascinato dalla monarchia costituzionale inglese, dal socialismo utopistico, dal liberalismo autoritario e dal mito del progresso, Napoleone III è insomma uno strano imperatore. Dopo il colpo di stato scorrono plumbei sette anni di Impero Autoritario, passati a reprimere duramente le opposizioni repubblicane, borboniche e orleaniste grazie all’opera del fedele Persigny, superministro dell’interno. Ma a partire dal 1860 Napoleone, affiancato dal fratellastro Morny (presto soprannominato Il Viceimperatore), getta le basi dell’Impero Liberale.

Non che fosse stato un cambio di rotta del tutto disinteressato. Le lobby che erano state dietro l’avventura golpista del principe-presidente sono essenzialmente due: la Chiesa e i conservatori da una parte; la grande industria, i potentati economici protezionisti, dall’altra. Ora, le avventurette italiane di Napoleone (l’appoggio ai savoiardi senzadio nel fare l’Italia, nel 1858-60) gli hanno alienato la Chiesa, e un trattato commerciale liberoscambista con la Gran Bretagna (nel 1860) gli industriali. Anche la necessità di sostituire al consenso di queste lobby quello della massa della popolazione, oltre alle loro personali inclinazioni, hanno spinto quindi l’imperatore e il suo fratellastro-vice a darsi al riformismo sociale.

Nel maggio del 1862, i due fondano la Société du Prince Imperial, una sorta di banca a fondo più o meno perduto destinata a prestare danaro agli operai e alle famiglie povere. Il Consiglio di Stato poco dopo impedisce ai due la creazione di un ispettorato generale del lavoro, che controlli l’applicazione delle leggi già esistenti sullo sfruttamento minorile. Può succedere anche questo, in quest’assurdo impero: che un Consiglio di Stato iperconservatore affossi leggi proposte dallo stesso imperatore. Nel 1864 il salto di qualità: per la prima volta in Francia, e su iniziativa personale di Napoleone, è riconosciuto e garantito il diritto di sciopero. Nel 1866 viene di fatto permessa l’auto-organizzazione dei lavoratori: i sindacati, insomma. L’imperatore poi ha in programma la creazione di tre istituzioni: la cassa per le pensioni, quella per i decessi sul lavoro, quella per gli incidenti, sempre sul lavoro. Welfare state napoleonico. L’imperatore è convinto di avercela fatta: gli operai, quel popolo di Parigi che ha rovesciato tutti i suoi predecessori, adesso è dalla sua.

Il 6 giugno 1867, all’ippodromo di Longchamp, il duca di Morny non c’è più. Il fratellastro dell’imperatore, figlio di regina, nipote di vescovo eccetera è morto improvvisamente nel suo ufficio di presidente dell’Assemblea Nazionale, in una fredda giornata di febbraio del 1865. Il 6 giugno 1867, all’ippodromo di Longchamp, non ci sono corse di cavalli. C’è la più grande parata militare che Parigi ricordi.

Napoleone III l’ha organizzata per mostrare ai suoi ospiti la potenza dell’Impero francese. E non sono ospiti qualunque: lo zar di Russia e il re di Prussia, con i loro generali e i loro ministri, venuti tutti a Parigi per l’esposizione universale che in quell’anno 1867 sta consacrando la gloria del nipote di Napoleone il Grande. Davanti alle tre teste coronate stanno per sfilare sessantamila uomini. Detto così è un numero come un altro, ma fermatevi un istante e provate a immaginarlo. Sessantamila. Sotto il sole già estivo, davanti alla folla vociante dei parigini accorsi a godersi lo spettacolo. Sessantamila. Allineati sull’immenso prato, immobili.

Poi cominciano a muoversi.

Per primo un generale a cavallo, baffi sottili e pizzetto castani. Quando alza la feluca per salutare il pubblico e le autorità, tutti vedono che sopra i riccioli che gli incorniciano il volto il condottiero è calvo come un uovo. Ma nessuno ride, tutti lo acclamano: è il maresciallo di Francia François Certain de Canrobert, fedelissimo dell’imperatore, vincitore di innumerevoli battaglie in Algeria, in Crimea, in Italia.

Subito dietro di lui sfilano gli allievi della scuola militare di Saint-Cyr. Cinquecento giovani, giovanissimi. Nessuno se lo immagina quel giorno, ma almeno due tra loro, due tra i più giovani, quasi bambini, diventeranno marescialli di Francia cinquant’anni più tardi nella guerra di tutte le guerre.

Poi la fanteria. Masse imponenti, battaglioni su battaglioni, reggimenti, intere divisioni – decine di migliaia di uomini allineati che marciano all’unisono. La guardia imperiale con le sue uniformi scintillanti e i suoi generali ricoperti d’oro e argento – il veterano di Waterloo Regniaud, il “turco” Bourbaki, il vecchio Antemarre. Le truppe di linea del 1° corpo d’armata, la guarnigione di Parigi. Ogni reggimento con la sua banda musicale, con la sua bandiera. Decine, centinaia di bandiere tricolori e di bande musicali. Il suono, l’ammasso, la valanga di suoni è indescrivibile.

Dietro la fanteria sfila l’artiglieria, con 96 cannoni di bronzo nuovi fiammanti trainati da centinaia di cavalli. L’imperatore è particolarmente interessato, si sa che le innovazioni tecniche lo affascinano.

Poi. Poi arrivano loro. Dietro le masse di uomini a piedi, dietro la selva di bandiere la folla li scorge e inizia a gridare ancora più forte. Sono i cavalieri, per la precisione tre divisioni di cavalleria, migliaia e migliaia di uomini altissimi su cavalli immensi, o almeno così appaiono a chi è condannato a stare in piedi sulla nuda terra. Sfilano con le loro uniformi sgargianti, con le loro sciabole sull’attenti, con gli elmi che scintillano nel sole rovente. Costeggiano le tribune, poi l’immensa colonna piega a destra e i cavalieri si dispongono in una lunga linea. Parallela alle tribune con gli spettatori e l’entourage imperiale. Di faccia, alle tribune. Ad un ordine che si sente vibrare nell’aria, la folla è ammutolita di colpo, quei cavalieri, quelle migliaia di cavalieri si lanciano al galoppo. Tutti insieme. Contro le tribune. Non fiata nessuno, si sente solo il rombo degli zoccoli sul terreno della pista. Duecento passi. Centocinquanta. Cento. Pochi secondi e quelle centinaia di tonnellate di carne e tessuto e ferro si schianteranno contro le tribune. A sessanta passi, sessanta passi esatti dalla tribuna imperiale, frenano. Si direbbe con uno stridio, fossero macchine. Invece no, il rombo cessa ed è silenzio, totale. Poche frazioni di secondo. La folla esplode.

Napoleone III sorride, raggiante, ascoltando i commenti ammirati dello Zar di Tutte le Russie e del Re di Prussia, degli addetti militari stranieri che li circondano nella tribuna imperiale. E l’urlo della folla, della sua folla, del popolo francese. Quelle sono le più belle truppe del mondo, le truppe di un impero immortale.

Due passi dietro di lui, stretto nella sua uniforme bianca da corazziere, il primo ministro prussiano conte Otto von Bismarck ha lo sguardo gelido di chi, nell’immortalità, non crede affatto.

Scena 3. Parigi 4 settembre 1870.[3]

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Années Terribles (parte prima)

 

La situazione, per usare un eufemismo, è un dannato casino.

La piazza che si apre davanti all’Hotel de Ville (il municipio) della città di Parigi straborda di folla. Dentro, la tensione è una cappa di piombo che incombe su tutti i presenti. Jules Favre, Jules Ferry, Jules Simon (detti “i tre Jules”) e gli altri 24 deputati repubblicani camminano avanti e indietro, parlottano, attendono. Hanno l’aria a metà tra l’incredulo e il timoroso di chi ha appena vinto alla lotteria, e ancora non sa se la somma verrà o meno accreditata. Un gruppo di deputati conservatori, appena arrivati, sono l’immagine stessa della costernazione. Anche con le finestre chiuse, l’urlo della folla è a tratti assordante. Tutta colpa di un avvocato di 32 anni, bassetto e con un occhio di vetro. Lo stesso che ora è su un terrazzo dell’Hotel de Ville ad arringarla, quella folla. A guadagnare tempo.

Sono passate poco più di ventiquattro ore dalla notizia.

La Francia è in guerra ormai da un mese. Una guerra che rischia di finire presto, se già non è finita. L’imperatore è stato fatto prigioniero.

Una guerra che rischia di finire molto male. Una serie di sconfitte devastanti, in quel mese di guerra. I nemici, i prussiani, hanno manovrato e combattuto e si sono fatti massacrare e hanno massacrato. Gli eserciti imperiali si sono solo fatti massacrare.

Prigioniero con 104.000 soldati francesi e 419 cannoni. Centoquattromila. Provate a immaginarlo. Il doppio di Longchamp.

Il capo del governo imperiale a Parigi è il visconte di Palikao. Sua eccellenza il maresciallo di Francia Charles Cousin-Montauban, visconte di Palikao. Ogni imperatore ha i marescialli che si merita. Napoleone il Grande, il primo, ne aveva nominati pochi, e non completamente stupidi. Napoleone il Piccolo, ne ha nominati un’infinità. Palikao è uno di loro. Per inquadrare il personaggio basta dire che il suo titolo nobiliare, Palikao appunto, è l’incerta trascrizione del nome di un villaggio in estremo oriente, nel quale il valido Cousin-Montauban ha fatto eroicamente strage di miliziani cinesi durante una delle tante guerre dell’oppio.

Insomma è su quest’uomo, sul visconte di Palikao, un generale talmente abile da essere stato lasciato a Parigi invece che essere usato in una guerra seria, che si scarica come un fulmine la notizia. Palikao fa l’unica cosa che sa fare: fa schierare attorno al palais-Bourbon, sede dell’assemblea legislativa, e alle Tuileries, dove vive l’imperatrice, 5000 guardie mobili e gendarmi. Non i soldati regolari, che pure a Parigi ci sono e in buon numero: Palikao non si fida né di loro né del loro comandante, il generale Jules Trochu. Ritiene che possano appoggiare un’eventuale rivolta antimperiale.

Protetta da quei 5000 uomini raccattati un po’ dappertutto, e contro la volontà di Palikao che farebbe volentieri a meno di quel parlamento voluto dal suo imperatore, a mezzanotte l’assemblea legislativa si è riunita d’urgenza al palais-Bourbon. Riunione inutile, dal momento che i 27 deputati repubblicani hanno immediatamente preteso che fosse proclamata la caduta di Napoleone, scontrandosi col rifiuto venato di panico della maggioranza conservatrice. Tra l’altro i repubblicani non hanno fatto che confermare a Palikao i suoi sospetti su Trochu, chiedendo esplicitamente che il generale fosse confermato a capo della guarnigione. In ogni caso, seduta sospesa e rimandata all’indomani. 4 settembre, tre del pomeriggio.

All’alba su place de la Concorde, a due passi dal palais-Bourbon, hanno cominciato a riunirsi gruppi di persone. Nel giro di poche ore ai gendarmi di guardia è stato chiaro come quelle persone non si fossero riunite per passeggiare sugli Champs-Elysées. Prima centinaia, poi migliaia, poi decine di migliaia di abitanti di Parigi hanno riempito l’immensa piazza. E hanno cominciato a rumoreggiare. L’assemblea è stata riconvocata con tre ore d’anticipo, a mezzogiorno. Tre mozioni sono state presentate. La prima, a firma Palikao, riconferma la fedeltà all’impero. La seconda, a firma del leader repubblicano Favre, è semplicemente la riproposizione di quanto chiesto nella notte. La terza viene presentata da un deputato orleanista piccoletto e con la testa a pera come quella del suo ex re. Si chiama Adolphe Thiers. Propone di costituire un nuovo governo, ma senza alcun riferimento a impero o repubblica – quello si vedrà poi. Parte la discussione.

Alle 15 la folla decide di aver perso la pazienza. Travolti i gendarmi, che in gran parte si uniscono ad essa (alla faccia di Palikao), invade il palazzo. Il presidente bonapartista dell’assemblea, l’industriale lorenese Schneider, indignato e offeso (e probabilmente terrorizzato) sospende la seduta e si eclissa assieme alla maggior parte dei deputati. Nella sala, oltre alla folla, rimangono i 27 deputati repubblicani per tentare di calmare gli animi. Missione impossibile. Per quanto i “tre Jules”, e con loro tutti i deputati repubblicani tentino di ragionare e far ragionare, la folla ha in testa una sola cosa: la repubblica, e subito. Iniziano a volare i documenti abbandonati sui banchi. Poi i banchi.

È a quel punto che l’avvocato con l’occhio di vetro l’ha sparata.

Si chiama Léon Gambetta. È un deputato repubblicano relativamente ininfluente, non fosse che la sua abilità oratoria lo rende estremamente apprezzato dal popolo di Parigi. Quello dei quartieri est. I proletari creati dalla crescita industriale dell’impero. Ecco, l’avvocato Gambetta a quel punto sale sulla tribuna della presidenza, ottiene per miracolo il silenzio in aula. Poi, la spara:

«Cittadini! Stante che la patria è in pericolo; che il tempo necessario è stato dato all’assemblea per pronunciare la decaduta dell’imperatore; che noi siamo e che noi rappresentiamo il potere legale eletto dal libero suffragio universale; noi dichiariamo che Luigi-Napoleone Bonaparte e la sua dinastia hanno finito per sempre di regnare sulla Francia!»

Ed è il putiferio. La folla trae le sue (ovvie) conclusioni e urla «Repubblica!» ad una sola voce. Jules Favre tenta di rimediare gridando «La repubblica non è qui che dobbiamo proclamarla!». Pessima idea. La folla urla di rimando «Allora all’Hotel de Ville!». L’Hotel de Ville. La scena di tutte le rivoluzioni parigine, da quella del 1789 in poi. I capi repubblicani, Favre, Ferry, Simon e ora anche Gambetta, non possono che obbedire. Praticamente portati dalla folla, vanno all’Hotel de Ville. Lì sono raggiunti da parecchi esponenti dei movimenti rivoluzionari. Il giacobino Delescluze con le sue occhiaie da morituro. Il socialista Louis Auguste Blanqui, detto “Il Prigioniero” perché in vita sua ha passato più tempo nelle galere imperiali che in libertà. Per un istante Favre, Ferry e Simon sudano freddo: loro vogliono la repubblica, certo, ma assolutamente non la rivoluzione sociale. E la folla che li ha portati lì, chissà cosa vuole. Per questo l’avvocato Gambetta è stato spedito lì fuori sul terrazzo a sfruttare la sua abilità oratoria nell’arringare la folla. Per questo i terrorizzati deputati conservatori sono stati accolti a braccia aperte e non a fucilate. Per questo, infine, è stato spedito un messaggero al quartier generale della guarnigione di Parigi. Al generale Trochu. A chiedergli di diventare il capo del nuovo governo repubblicano. Trochu, l’unico uomo abbastanza repubblicano per i repubblicani e abbastanza conservatore per i conservatori. Ma soprattutto, abbastanza amato dalla folla che là fuori inizia a dare segni sempre più decisi di impazienza, e ciò nonostante non certo sospettabile di volontà rivoluzionarie (se non dall’acuto Palikao). L’unico uomo che può impedire a quella stramba rivoluzione per caso di finire in un bagno di sangue. I fantasmi di Robespierre e di Cavaignac aleggiano sulle teste dei deputati.

Un trapestio sullo scalone d’ingresso dell’Hotel de Ville, poi si apre la porta della sala nella quale i deputati sono riuniti in attesa. Il bretone, schivo generale Trochu dalla testa ad uovo e dai baffi appuntiti manda a dire che accetta, a tre condizioni: che vengano rispettate la religione, la famiglia e la proprietà.

Favre, Ferry e Simon si guardano: la stramba rivoluzione è finita bene. Le truppe prussiane sono a pochi chilometri da Parigi.

Scena 4. Querétaro autunno 1867.[4]

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Années Terribles (parte prima)

 

È stato fatto un buon lavoro, tutto sommato.

Certo, nessuno vedrà più i famosi occhi azzurri dell’imperatore venuto da oltre l’Oceano. Dopo il disastro fatto dalle pallottole – e dire che l’aveva chiesto, di risparmiargli il viso – l’unica soluzione praticabile è stata mettere degli occhi di vetro. E siccome in Messico non c’è tanta gente che debba sostituire un occhio azzurro, si è riusciti a trovarne solo di scuri. Peccato. Il resto del procedimento d’imbalsamazione è andato bene, peccato per gli occhi. Alla vedova verrebbe un colpo, a vederlo. Ma importa poco: la vedova è già impazzita quando l’altro imperatore, quello che ha spedito Max a farsi ammazzare così lontano da casa, si è rifiutato di salvarlo.

Max, che adesso sta per essere portato in giro per il Messico imbalsamato ed esibito come un trofeo, prima del 1863 era ammiraglio della flotta austriaca, e viceré del Lombardo-Veneto. Soprattutto, era figlio dell’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe. Prima del 1863. Quando un altro imperatore, quell’altro imperatore che avrebbe poi firmato di fatto la sua condanna a morte, gli aveva offerto un impero tutto suo. Il Messico. Quell’altro imperatore era Napoleone III di Francia.

I francesi erano arrivati in Messico l’anno prima, nel 1862. La repubblica Messicana di Benito Juarez aveva deciso di azzerare il debito estero, guadagnandosi l’ira dei tre maggiori paesi creditori: Regno Unito, Spagna e Francia. I creditori si erano accordati per un intervento congiunto, che convincesse Juarez a rimangiarsi l’azzeramento. I primi due avevano reagito con qualche minaccia, e l’occupazione spagnola di Veracruz. Ma Napoleone aveva un piano più ambizioso: invadere il Messico, tutto intero. Non appena la regina Vittoria d’Inghilterra e i deboli governanti spagnoli si erano accorti delle mire dell’imperatore dei Francesi, avevano messo bene in chiaro che l’invasione, per quanto li riguardava, era fuori questione. Tanto meglio, aveva pensato Napoleone il Piccolo: un’altra guerra francese, un’altra vittoria francese, altra gloria che lo avrebbe avvicinato di un altro gradino allo zio.

Tutto era andato bene, per qualche tempo. Juarez in fuga verso la frontiera con gli Stati Uniti, le piazzeforti e gli eserciti della repubblica messicana che cadevano o si sfaldavano l’uno dopo l’altro. Napoleone aveva ben pensato di offrire il trono del nascente impero ad un rampollo della Casa d’Austria, di modo da allontanare da sé il sospetto di voler fare del Centroamerica una colonia francese. E Max dagli occhi azzurri aveva accettato, facendosi incoronare nel 1864 a Città del Messico appena conquistata dalle truppe francesi. Maximiliano I do Mexico. Solo qualche desperado repubblicano continuava a resistere in armi negli immensi spazi del nuovo impero. I nuovi occhi di vetro scuro di Max, muti, testimoniano quel ch’è successo poi.

Intanto, i desperados invece di diminuire aumentano. Juarez dalla frontiera statunitense anima la resistenza, e i massacri compiuti dalle truppe francesi non fanno che rendere sempre più aspra la guerra civile. Poi arriva il 1866. In Europa, il regno di Prussia infligge all’impero austriaco una sconfitta che rischia di farlo collassare. Soprattutto, conquista la supremazia in Germania e guarda goloso oltre il Reno. Oltre il Reno, c’è la Francia. La Francia che si guarda attorno, e si rende conto improvvisamente di essere sola. L’Austria è in ginocchio. Regno Unito e Spagna non hanno perdonato a Napoleone la mossa in solitaria del 1862. L’Italia non prova gratitudine per chi si è preso Nizza e Savoia e continua a proteggere il papa a Roma. La Russia nemmeno a parlarne, dopo la guerra di Crimea e l’appoggio dato dal romantico imperatore dei francesi ai polacchi in rivolta per la propria indipendenza.

Napoleone quindi vuole chiamarsi fuori dall’avventura messicana, perché la guerriglia non accenna a finire e assorbe tante truppe francesi che starebbero meglio in patria a fronteggiare quella che percepisce come la nuova minaccia. E dà l’ordine. I francesi si reimbarcano, lasciando Max a vedersela con i desperados, ormai diventati una marea. Sua Maestà l’imperatrice Carlota do Mexico si precipita a Parigi, implora l’imperatore dei francesi di ripensarci. Napoleone il Piccolo non muove un dito. Cade Città del Messico. In una cittadina sconosciuta agli osservatori europei, Querétaro, finisce a 34 anni davanti ad un plotone d’esecuzione l’avventura di Max dagli occhi azzurri.

Non colpitemi in faccia, voglio che mia madre possa riconoscermi, ha detto pochi istanti prima degli spari. Parole al vento. Per fortuna in Messico sanno come imbalsamare un corpo, e come correggere i disastri delle pallottole.

Peccato per gli occhi.

Scena 5. Montmartre 7 ottobre 1870.[5]

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Années Terribles (parte prima)

 

C’è una gran folla, assiepata attorno allo spiazzo ai piedi della collina di Montmartre. Manca poco alle 11 del mattino di una soleggiata giornata autunnale.

Parigi è sotto assedio da tre settimane. Le armate prussiane hanno raggiunto i sobborghi della capitale pochi giorni dopo la proclamazione della repubblica, e hanno iniziato lentamente a circondare la cintura di forti che ne difende i bastioni. Il 19 settembre 1870 il cerchio si è chiuso, e i prussiani hanno iniziato a scavare le trincee e a sistemare le postazioni per l’artiglieria. Trochu, il quale oltre che capo del governo è comandante in capo dell’armata di Parigi, ha a sua disposizione quasi mezzo milione di uomini in armi. Mezzo milione è un numero imponente, di molto superiore a quello dei prussiani attorno alla capitale. Ma quello di Trochu è un mezzo milione di n’importe quoi. Ci sono 12.000 fanti di marina, poi tra i 50 e i 60.000 soldati dell’esercito. E già qui ci sono dei problemi: metà degli uomini dell’esercito è appena stata reclutata e sa a malapena sparare coi nuovi fucili chassepot; l’altra metà si è salvata per il rotto della cuffia dalla resa dell’armata imperiale, ed ha corso fino a Parigi con i prussiani alle calcagna. Queste sono le truppe regolari, le uniche sulle quali un ufficiale regolare come Trochu fa davvero affidamento. Il resto, sono cittadini in armi. 300.000 guardie nazionali di Parigi, e 115.000 guardie mobili venute dalla provincia prima che iniziasse l’assedio. 22.000 di loro vengono dalla poverissima Bretagna, e dimostrano un certo attaccamento per il loro conterraneo Trochu. Il quale, infatti, solo di loro si fida tra quei 415.000 “irregolari”.

In ogni caso, nessuno può più entrare o uscire da Parigi. Non via terra, perlomeno.

Al numero 35 di boulevard des Capucines, c’è l’atelier di un fotografo. Si chiama Gaspard-Félix Tournachon, detto Nadar. È un’istituzione, Nadar. In attività fin dal 1848, è stato soprannominato “il Tiziano della fotografia” per i risultati dei suoi esperimenti sull’utilizzo della luce artificiale. Nel 1854 ha realizzato il Pantheon Nadar, una raccolta monumentale di ritratti degli uomini più potenti o celebri dell’impero. Da Baudelaire all’imperatore stesso, tutti sono stati catturati dall’obiettivo delle sue macchine fotografiche.

Ma Nadar non è solo un fotografo. È anche Michel Ardan, l’inventore del proiettile-navicella che viene sparato verso e contro la luna nel romanzo di Jules Verne. Nadar = Ardan. Lo scrittore è amico del fotografo, e l’idea per il suo Dalla Terra alla Luna gli è venuta vedendo uno degli esperimenti di Nadar. Un pallone aerostatico gigantesco, culmine della passione per il volo che nel 1858 aveva portato Nadar ad essere autore delle prime fotografie aeree della storia. Scattate verso e contro Parigi da un pallone aerostatico. Da una mongolfiera. All’inizio dell’assedio, Nadar ha messo al servizio del nuovo governo le sue conoscenze in materia di macchine volanti. Ha fondato la Compagnie d’Aérostiers, con sede nella Gare de l’Est, deserta per mancanza di traffico ferroviario. 160 tra cucitrici e operai lavorano alla costruzione dei ballons montés.

Ce ne sono due, di mongolfiere, in mezzo allo spiazzo ai piedi della collina di Montmartre. Si stanno gonfiando lentamente, enormi meduse adagiate sulla terra bruna. Si chiamano Armand Barbès e Georges Sand. Il Sand è lì casomai qualcosa andasse storto col Barbès. Eventualità abbastanza probabile, considerato che entrambi i palloni sono riempiti di gas per l’illuminazione stradale. Considerato che una sigaretta accesa un po’ troppo vicina potrebbe trasformarli in enormi sfere di fuoco.

Poco prima che il cerchio delle armate prussiane si chiudesse attorno a Parigi, tre uomini hanno lasciato la capitale. Isaac-Jacob Cremieux, ministro della giustizia, l’ammiraglio Fourichon ministro della marina, e il deputato repubblicano Glais-Bizon. Il governo della Difesa Nazionale del generale Trochu li ha spediti in provincia, per mantenere la presenza dello Stato anche nel caso la capitale fosse rimasta isolata. I tre si sono installati nella città di Tours, a sud di Parigi. Purtroppo la scelta dei personaggi non si è rivelata felice: Fourichon è un tecnico, Cremieux e Glais-Bizon due esponenti repubblicani di secondo piano. La delegazione di governo di Tours non ha la benché minima influenza sulle turbolente province. Dove si reclutano disordinatamente uomini per la guerra, dove covano rivolte autonomiste o socialiste, o dove semplicemente si ignorano le decisioni del governo. I tre Jules (Favre Ferry & Simon) e Trochu si rendono conto di dover mandare qualcun altro a Tours. Qualcuno che abbia carisma. Qualcuno che abbia polso, e fede incrollabile nella vittoria della repubblica.

Il Barbès e il Sand sono ormai completamente gonfiati, tenuti fissati al suolo dai sacchi di sabbia e dalle corde tenute saldamente dai fanti di marina di Trochu. Tra la folla si fa strada un gruppetto di persone. Sono un certo Trichet, pilota dell’Armand Barbès, il deputato repubblicano Spuller. E Léon Gambetta. L’uomo scelto dal governo per raggiungere Tours e prendere in mano l’organizzazione delle armate della Difesa Nazionale che dovranno liberare Parigi. L’uomo che ha accettato con determinazione, per quanto adesso sudi freddo: soffre di vertigini.

Trichet, Spuller e Gambetta salgono nella cesta del Barbès. I fanti di marina iniziano ad allentare le corde, il pilota a buttare fuori dalla cesta i sacchi di sabbia. La macchina volante del fotografo Nadar inizia ad alzarsi, lentamente. Gambetta saluta la folla. La mano con la quale si tiene al bordo della cesta potrebbe strapparne un pezzo da un momento all’altro, ma il viso è sorridente. La gente assiepata attorno alla piazza, allineata in lunghe file sui fianchi della collina fino in cima, fino alla torre Solferino, lo guarda. Tutta Parigi lo guarda, e si fida di lui. Gambetta non intende deluderla vomitando l’anima. Sotto la cesta è fissato un tricolore francese. Quando la mongolfiera si alza nell’aria, libera ormai dalle corde che i fanti di marina poi riarrotoleranno, il tricolore sventola nell’aria autunnale.

La folla grida più volte, ritmicamente.

Lunga vita alla Repubblica.

Scena 6. Parigi primavera 1870.[6]

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Années Terribles (parte prima)

 

«Gli abbiamo garantito una vecchiaia felice».

Questo il commento di Emile Ollivier, quando gli riportano i risultati del plebiscito. Ha un sorriso furbo e la carica di primo ministro dell’impero, il repubblicano rallié[7] che da quattro mesi affianca Napoleone III nella definitiva istituzionalizzazione dell’Impero Liberale.

Le elezioni legislative del maggio 1869 hanno rischiato di far pagare cara all’imperatore la sua passione per la democrazia. Dopo la campagna elettorale più tesa degli ultimi quindici anni, con tanto di scontri di strada a Parigi e in altre grandi città, le opposizioni hanno ottenuto un risultato eclatante. I candidati governativi hanno sì mantenuto la maggioranza all’assemblea, con 4.600.000 voti. Ma i repubblicani, i legittimisti e gli altri avversari dell’impero ne hanno guadagnati ben 3.300.000. Il che, al netto dei brogli legalizzati a cura dei prefetti imperiali, è suonato come un pericoloso segnale d’allarme. Non sono bastate l’istituzione della cassa per le pensioni, di quella per i decessi sul lavoro, di quella per gli incidenti, sempre sul lavoro. E nemmeno l’abrogazione dell’articolo del codice civile che dava primazia alla parola del datore di lavoro su quella dell’operaio, in caso di processo. Il popolo francese, soprattutto quello delle grandi città, soprattutto quello di Parigi, sembra star abbandonando il suo imperatore.

La componente conservatrice del bonapartismo, guidata dall’imperatrice Eugenie e dal visconte di Palikao, ha tratto spunto dal disastro rischiato per premere con più veemenza su Napoleone. Basta mene parlamentariste, torniamo all’Impero Autoritario. Ma l’imperatore non intende rinunciare ai suoi sogni social-paternalisti, e crede i risultati delle elezioni un semplice incidente di percorso. Ed ecco Ollivier, l’uomo giusto per la definitiva vittoria di Napoleone sul conservatorismo dello stesso partito bonapartista. Ollivier il repubblicano, certo, ma un repubblicano pragmatico. Un repubblicano che non esita ad accettare la carica di primo ministro dell’impero. Un repubblicano che a gennaio ha costituito un governo di bonapartisti e orleanisti, escludendo legittimisti a destra e repubblicani a sinistra.

L’imperatore e Ollivier mettono a punto una specie di testo costituzionale per quell’impero che fin lì ha vissuto di confusione. Un testo che consacri il ruolo del parlamento, la responsabilità personale dei ministri. Un testo che avvicini definitivamente l’impero francese a quello, tanto ammirato da Napoleone, di Vittoria d’Inghilterra.

Ed è al popolo francese che l’imperatore sottopone il suo sogno. L’8 maggio 1870 si tiene un plebiscito a suffragio universale, come quello che diciotto anni prima ha risposto «oui» al colpo di stato del principe-presidente. Legittimisti e repubblicani, forti dei risultati dell’anno prima, invitano i francesi a votare «non», stavolta. Stavolta, pensano, è la volta buona. Napoleone andrà incontro al disastro.

Quando i risultati vengono comunicati all’imperatore, lui reagisce con un sorriso calmo. Il sorriso di chi sa di essere nel giusto, di chi sa di essere amato. «J’ai mon chiffre!», ho i numeri, esclama.

Perché non è una moltitudine di «non» a uscire dalle urne, a decretare la fine dell’impero. E’ una valanga di «oui», a travolgere i suoi avversari. Sette milioni di «oui». Come diciotto anni prima. Il popolo è ancora con l’imperatore. Il disastro messicano, l’isolamento in Europa e nel mondo, i calcoli renali che lo fanno urlare la notte. Nulla importa più a Napoleone. Il suo è un impero immortale.

Il leader dei repubblicani Jules Favre mormora sconsolato «Non ho più nulla da fare in politica». Uno sconosciuto avvocato con un occhio di vetro, a Parigi, si mette il cuore in pace.

«Dopo questi risultati, l’impero durerà altri vent’anni».

Scena 7. Parigi 31 ottobre – 1 novembre 1870.[8]

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Années Terribles (parte prima)

 

1 novembre.

Parigi è silenziosa. Il prefetto di polizia della Senna Edmond Adam scende le scale della prefettura, esce sulla piazza illuminata dalla luce grigia e irreale dell’alba. Inspira profondamente. Soffia fuori dal naso e dalla testa la stizza, la rabbia e la fatica. L’ex, prefetto di polizia della Senna Edmond Adam.

Due grandi sortite, sono state tentate per spezzare l’assedio prussiano. Il 13 ottobre le truppe regolari di Trochu si sono lanciate contro le trincee avversarie sull’altopiano di Chatillon, a sud. Il 21 contro i villaggi fortificati de La Malmaison e de La Jonchère, a est. Il comandante sul campo, il sulfureo generale Ducrot, ha avuto un paio di cavalli uccisi sotto di sé mentre Trochu osservava la scena dalle casematte dei forti di Parigi. Migliaia di uomini ci hanno lasciato la pelle. Le linee prussiane non sono state scalfite. Nemmeno scalfite. La guardia nazionale è stata obbligata a non intervenire dagli ordini ripetuti di Trochu. I generali non si fidano dei cittadini in armi.

In provincia, Gambetta lavora come un disperato. Ha messo in piedi una serie di armate, disorganizzate e a corto di tutto. Migliaia e migliaia, centinaia di migliaia di soldati-contadini comandati da più o meno improvvisati generali repubblicani. Li ha lanciati contro le forze prussiane che coprono le spalle a quelle che stanno strangolando Parigi.

Se in qualcuno crede, il popolo di Parigi crede in Gambetta. Le azioni di Trochu sono in fortissimo ribasso.

Poi, il 30 ottobre, tre fulmini si sono abbattuti sulla capitale.

Primo fulmine. Il governo ha confermato una notizia che già da due giorni era stata data dal giornale Le Combat. Il giornale del tribuno rivoluzionario Felix Pyat. Notizia fin lì seccamente smentita da Trochu. L’ultima armata del vecchio esercito imperiale, l’ultimo strumento militarmente valido a disposizione della Francia, si è arresa. E’ un’altra Sedan, peggiore di Sedan. Se con l’imperatore erano caduti prigionieri 104.000 uomini, col maresciallo di Francia Achille Bazaine se ne arrendono 142.000. Sotto le mura della cittadella di Metz sfilano gettando le armi le ultime serie speranze che la guerra non finisca in totale disastro per la Francia. A Parigi si parla di tradimento.

Secondo fulmine. Da due giorni un combattimento divampa sulla cintura di forti a nord di Parigi. Il 28 ottobre il generale francese De Bellemare ha sconsideratamente ingaggiato un duello tutto personale con i prussiani che tengono alcune posizioni attorno al sobborgo di Saint Denis. È una follia, De Bellemare ha poche migliaia di uomini. I prussiani decine, di migliaia. Ma i parigini ci credono, la loro fede nella vittoria non contempla la ritirata. Trochu, su tutte le furie, invece la contempla eccome. Ordina a De Bellemare, dopo due giorni di massacro a senso unico (ovvero di soli francesi) di piantarla. Rifiuta ancora una volta di far uscire dai bastioni la guardia nazionale. Aggiunge un’altra sconfitta al proprio palmares. La più indipendente dalla sua volontà, eppure quella che i parigini gli addebitano con più rabbia.

Terzo fulmine. Il peggiore, il più devastante. Diviene di dominio pubblico il fatto che il governo della Difesa Nazionale, incaricato di continuare la guerra, di ribaltarne le sorti, sta trattando un armistizio con i prussiani. Il piccolo deputato orleanista e conservatore dalla testa a pera, monsieur Thiers, è il tramite dell’affare.

I parigini si passano l’un l’altro i giornali. Nei cafés, nelle osterie dei quartieri popolari la rabbia monta. Anche a Passy, nei quartieri borghesi dietro il Trocadero, la gente parla. E quel che dice non è nulla di buono per il governo della Difesa Nazionale.

31 ottobre.

Parigi si sveglia sotto una pioggia glaciale. Raffiche di vento spazzano i boulevards, tutto è coperto di una patina lucida d’acqua e di freddo che fa scricchiolare i denti. Il governo, come sempre, si riunisce di prima mattina all’Hotel de Ville. Alle 11, agli sguardi preoccupati delle guardie bretoni che presidiano le entrate del palazzo si presenta una folla immensa. Sono guardie nazionali e cittadini, vecchi bambini donne. Urlano «Niente armistizio! Levée en masse! Guerra fino alla morte! Abbasso Trochu! Elezioni!». Qualcuno, in mezzo alla moltitudine, grida «Viva la Comune!». Molte voci lo seguono.

Dentro al palazzo c’è un uomo che comprende la gravità della situazione. Si chiama Etienne Arago, è il sindaco di Parigi nominato dal governo in settembre. E sa bene che stavolta non c’è un Gambetta a portata di mano, che possa blandire la folla con la sua eloquenza ed evitare il peggio. Va da Trochu, da Ferry Favre e Simon e implora di accogliere almeno una tra le richieste della folla: le elezioni municipali immediate. Trochu si rende conto di non poter contare sui battaglioni borghesi della guardia nazionale, perché hanno fatto causa comune con quelli dei quartieri popolari e si sono fusi nella folla. Sa anche di non voler scatenare una guerra civile facendo intervenire le truppe regolari. Sarà un mediocre generale e un pessimo politico, Trochu, ma non è un macellaio. Concede ad Arago le elezioni immediate, e il sindaco di Parigi si precipita a riferire alla folla. Aggiungendo che non c’è alcuna trattativa d’armistizio in atto. Sono le 14, e parte della folla inizia a defluire dalla piazza. Sono i battaglioni della guardia nazionale dei quartieri borghesi, che si ritengono soddisfatti dalle dichiarazioni di Arago.

Ma per qualche centinaio di persone che abbandonano la piazza, ce n’è qualche decina che la raggiunge. Sono i leader rivoluzionari messi da parte durante la rivoluzione del 4 settembre. Tra loro c’è Pyat, il giornalista che ha dato per primo notizia della resa di Metz. Lui, come tutti coloro che sono rimasti accalcati di fronte all’Hotel de Ville, non è affatto soddisfatto dalle parole di Arago. Sono ormai le 15, e le guardie bretoni che presidiano il grande scalone d’ingresso del palazzo sono testimoni di un mutamento repentino nell’umore della piazza. La piazza che adesso entra nel palazzo, letteralmente. Trochu ha dato ordine di non sparare, e i suoi bretoni possono solo assistere alla fiumana di gente che rimonta lo scalone, attraversa i corridoi e irrompe nella sala dove è riunito il governo. In testa c’è un nutrito gruppo di guardie nazionali parigine guidato da Gustave Lafrançais. Minacciano di buttare dalle finestre i membri del governo. Lefrançais proclama la nascita di una Comune Rivoluzionaria di Parigi. Trochu, Favre Ferry e Simon non battono ciglio. Solo il ministro delle finanze Ernest Picard si alza e se ne va. Tutti gli altri restano seduti al grande tavolo della sala. Attorno a loro la confusione è totale. Lefrançais inizia a raccogliere liste di nomi per un nuovo governo. Liste che passano di mano in mano nei corridoi, giù per lo scalone, nella piazza. Vengono gridate dai terrazzi dell’Hotel de Ville. La folla ne discute, acclama o fischia i singoli nomi. Nessuno sa cosa sia una comune rivoluzionaria, nella pratica. Nessuno sa che poteri abbia, che giurisdizione. L’unica cosa chiara e lampante, per la folla, è che debba continuare la guerra fino alla vittoria della Francia.

Alle 16 le porte della sala vengono spalancate di nuovo. Entrano altre guardie nazionali, alla loro testa un personaggio da romanzo. In pugno ha una sciabola turca, e anche il resto dei suoi abiti hanno un che di orientale. Sopra la barba lunga che gli copre il petto, due occhi ardenti che hanno visto la guerra tra gli indipendentisti cretesi e l’Impero Ottomano. Gustave Flourens, il comandante della guardia nazionale di Belleville. Il quartiere operaio per eccellenza tra tutti quelli della capitale. Ha il senso del teatro, Flourens. Balza in piedi sul tavolo e marcia avanti e indietro, arringando i presenti. I suoi stivali con gli speroni da cowboy passano ad un centimetro dal naso di un impassibile Trochu. Flourens si ferma, estrae dalla tasta un foglio ripiegato. Anche lui ha la sua lista di nomi. Li scandisce, vengono tutti acclamati. Poi si ricomincia a discutere, perché nella sala sono arrivati anche Millière e Delescluze, i vecchi giacobini, e bisogna tener conto anche di loro. Nella confusione totale, nessuno si accorge che manca un nome importante tra tutti coloro che si ammassano nella sala del governo. “Il Prigioniero”, Louis Auguste Blanqui. Ma anche lui è all’Hotel de Ville. Si è installato in un ufficio, dopo aver tentato invano di farsi consegnare dal segretario di Arago i sigilli del sindaco di Parigi. Per nulla scoraggiato ha iniziato a emanare decine di ordini a caso, tra i quali il decreto di destituzione del prefetto di Metz. Metz, che da quattro giorni è nelle mani dei prussiani. La situazione scivola rapidamente dalla confusione al grottesco. Mentre Flourens è ancora in piedi sul tavolo, Trochu e Jules Ferry si scambiano un’occhiata, si alzano e se ne vanno. Nessuno li ferma.

Fuori dall’Hotel de Ville è ormai calata la sera. Il freddo si fa più tagliente. Gran parte della gente che gremisce la piazza è convinta che la Comune Rivoluzionaria di Parigi sia cosa fatta. Prima singolarmente, poi a piccoli gruppi, poi in numero sempre maggiore. La folla abbandona la piazza e se ne torna a casa.

Alla prefettura di polizia, il prefetto Edmond Adam è tra i pochi a mantenere il sangue freddo. Il ministro Picard è arrivato da lui già nel primo pomeriggio, raccontandogli del primo assalto all’Hotel de Ville. Adam è un gambettista, un sincero repubblicano. E condivide con Trochu la volontà di evitare a tutti i costi una guerra civile. Infatti per ore ha tenuto a freno il furibondo generale Ducrot, che vuole marciare sull’Hotel de Ville per liberare il proprio capo e regolare i conti con i rivoluzionari alla maniera di Cavaignac. Nella notte appena calata arrivano in prefettura anche Trochu e Ferry. Appena in tempo: Ducrot si è già messo in marcia con i suoi regolari e diverse batterie di artiglieria lungo gli Champs Elysées. Fregandosene delle sfuriate del suo braccio destro, Trochu ferma la colonna di regolari. Ha un’altra idea su come sistemare le cose.

I battaglioni borghesi della guardia nazionale. Quelli che in mattinata si sono uniti alla folla, perché c’era in gioco la patria e non la proprietà privata. Ora Trochu li informa che la loro proprietà privata è diventata proprio l’oggetto del contendere. Che è in atto un tentativo di rivoluzione sociale, non politica. I battaglioni dei quartieri borghesi dell’ovest, in piena notte, rispondono all’appello. Affluiscono in forze verso l’Hotel de Ville. Occupano la piazza ormai deserta. Circondano il palazzo.

Il prefetto Adam conduce la trattativa con i rivoluzionari, che da carcerieri del governo si trovano di colpo suoi prigionieri, chiusi dentro l’Hotel de Ville. Un battaglione di guardie mobili bretoni riesce ad entrare nel palazzo attraverso un sotterraneo. Volendo, Trochu potrebbe ordinare l’assalto contemporaneo dall’esterno e dall’interno. Sarebbe un compitino facile facile. Ma il mediocre generale e pessimo politico Jules Trochu non è un macellaio. E ordina di attendere il risultato del negoziato. Risultato positivo per tutti: Adam dà la sua parola (e quella di Trochu) che nessuno verrà arrestato, e i rivoluzionari lasciano pacificamente l’Hotel de Ville.

1 novembre.

Il governo fa arrestare quasi tutti i capi rivoluzionari. Il prefetto Edmond Adam ha la testa troppo piena di insonnia, stanchezza e disgusto. Trochu e Ferry hanno mancato alla parola che lui ha dato per loro conto. Le vie di Parigi sono deserte, il freddo taglia il viso del prefetto Edmond Adam. L’ex prefetto, Adam.

Il governo della Difesa Nazionale è salvo, la repubblica è salva.

Nell’ufficio della prefettura, sul cui tavolo ancora c’è la lettera di dimissioni di Edmond Adam, è seduto Jules Ferry. Il nuovo prefetto Ferry.

La guerra continua.

Scena 8. Londra 1873.[9]

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Années Terribles (parte prima)

 

Due operazioni.

Due gennaio 1873. Il calcolo incastrato in fondo alla vescica è troppo grande. È un sasso, una pietra, è grosso come un pugno, come la piazzaforte di Sedan. Tagliare. Eravate a Sedan voi, dottore? Un esercito meraviglioso, un Impero immortale. Non posso sapere di mio figlio morto in Sudafrica tra sei anni, sventrato dai guerrieri zulu. Il loro sacerdote sostiene sia l’unico modo per evitare che la sua anima resti sulla terra a cercare vendetta. Sei gennaio 1873. Tagliare di nuovo. Questi due medici inglesi che litigano, dottore, sulla mia pietra grande come la Francia intera. Tagliare spezzare cucire pulire. Non posso sapere dei mattatoi a Chatelet al Parc Monceau alla Roquette due anni fa, dove il mio popolo è stato sventrato dai sacerdoti della repubblica. Sostengono sia l’unico modo perché questa grande pietra Francia sopravviva e cresca e vendichi le umiliazioni che le ho inflitto. Una Repubblica immortale. Questa grande pietra che mi ha fatto urlare la notte. Eravate a Sedan voi, dottore? 104.000 uomini, centoquattromila uomini e un impero immortale. Anestesia totale.

Setticemia.

Nove gennaio 1873.

Scena 9. Parigi, inverno 1870.[10]

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Années Terribles (parte prima)

 

Consommé di cavallo al miglio

Spiedini di fegato di cane à la maitre d’hotel

Trito di carne di gatto alla maionese

Filetto di spalla di cane al pomodoro

Stufato di gatto agli champignons

Cotolette di cane ai piselli

Salmì di ratto à la Robert

Prosciutto di cane accompagnato da ratti

Insalata scarola

Il 27 dicembre 1870 le batterie di nuovissimi cannoni Krupp dell’esercito prussiano iniziano il bombardamento sistematico dei forti che circondano Parigi. Il 5 gennaio 1871 allungano il tiro. I proiettili si schiantano sui tetti e sulle facciate delle case. Sulle guglie delle chiese. Sull’Arco di Trionfo. Nel bianco della città innevata si levano colonne di fumo nero.

Finiscono il legno e il carbone.

Finisce il latte in polvere per i bambini.

I ratti, quelli non finiscono mai.

Dessert e vino.[11]

[Bibliografia]

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Note   (↵ returns to text)
  1. P. O. LISSAGARAY, History of the Paris Commune 1871, New Park Publications, 1976. W. SERMAN, La Commune de Paris, Fayard, 1986, pagg. 507-508.↵
  2. F. GAMBIEZ, Variation sur l’esprit de défense, in Histoire, économie et société, 1988, 7e année, n°3, p. 381-397, utilizzato per gli elementi scenici dal momento che per il resto è un articolo orribilmente retorico e nazionalista, e per nulla in sintonia con la mia interpretazione; A. HORNE, The Fall of Paris: The Siege and the Commune, 1870-71, Macmillan, 1965.↵
  3. W. SERMAN, p. 109-113; A. HORNE.↵
  4. A. HORNE.↵
  5. W. SERMAN, p. 124-131; A. HORNE; J.M. MAYEUR, Gambetta, la patrie et la république, Fayard, 2008; S. DE SAINT MARC, Nadar, Gallimard, «NRF Biographies», 2010.↵
  6. A. HORNE.↵
  7. I repubblicani ralliés erano coloro che accettarono di appoggiare l’Impero Liberale, rinnegando di fatto i propri ideali.↵
  8. W. SERMAN, pagg. 136-140; A. HORNE.↵
  9. P. GANIERE, Le dernier exil de Napoléon III, Éd. Souvenir Napoléonien n°362, p. 21-38.↵
  10. W. SERMAN, p. 142-148.↵
  11. Menù proposto da un ristorante di lusso del centro di Parigi ai propri avventori, il 4 dicembre 1870; in W. SERMAN, p. 146.↵
  12. CHANET Jean-François, Vers L’Armée Nouvelle. République conservatrice et réforme militaire, 1871-1879, Presses Universitaires de Rennes, 2006.

    DE SAINT MARC Stéphanie, Nadar, Gallimard, «NRF Biographies», 2010.

    GAMBIEZ Fernand, Variation sur l’esprit de défense, in Histoire, économie et société, 1988, 7e année, n°3, p. 381-397.

    GANIERE Paul, Le dernier exil de Napoléon III, Éd. Souvenir Napoléonien n°362, p. 21-38.

    HORNE Alistair, The Fall of Paris: The Siege and the Commune, 1870-71, Macmillan, 1965.

    LISSAGARAY Prosper Olivier, History of the Paris Commune 1871, New Park Publications, 1976.

    MAYEUR Jean-Marie, Les Débuts de la IIIe République 1871-1898, Seuil, 1973.

    MAYEUR Jean-Marie, Gambetta, la patrie et la république, Fayard, 2008.

    RUDELLE Odile, La Republique Absolue. Aux origines de l’instabilité constitutionnelle de la France républicaine 1870-1889, Publications de la Sorbonne, 1986.

    SERMAN William, La Commune de Paris, Fayard, 1986.

    TOOMBS Robert, La guerre contre Paris 1871, Aubier, 1997 (Cambridge University Press, 1981).

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