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Berlino: 5. Around the world in 14 films. Leggende e progresso: “10 to 11″ di Pelin Esmer e “Silents souls” di Aleksei Fedorchenko.

Creato il 03 dicembre 2010 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

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Alla quinta edizione berlinese del festival di cinema indipendente Around The world in 14 films, sugli schermi del Babylon di Mitte non mancano storie in bilico tra i tempi e gli echi di antiche leggende.

Il regista turco Pelin Esmer approda alla fiction dopo aver girato il documentario The collector (2002) e The play (2005) premiato al San Sebastian film festival. Con 10 to 11 Esmer racconta il conflitto tra tradizione e progresso, attraverso un semplice microcosmo umano: due solitudini nella Istanbul che cambia.

Il vecchio Mithat vive nel suo appartamento, circondato dalla sua memoria, ovvero dalle sue collezioni: giornali, cianfrusaglie, nastri di conversazioni telefoniche. Ali, il portiere dello stesso condominio, vessato dagli altri abitanti del palazzo, aspetta il momento migliore per tornare dalla moglie e dalla figlia malata. Un terremoto, e il conseguente desiderio dei condomini di ricostruire un edificio piu´solido e moderno, sarà il cortocircuito che imporrà ai personaggi inevitabili cambiamenti, tra rinunce e conquiste.

Girato in un stile documentaristico e vincitore di numerosi premi in circa quaranta festival, 10 to 11 ammalia lo spettatore e lo affeziona ai destini dei protagonisti, con un finale beckettiano denso di umanità.

SilentSouls

Se per Esmer il progresso inonda le nostre nostalgie, per il regista russo Fedorchenko il passato leggendario di un popolo si fa carne e spirito. In Silents Souls, presentato con successo di pubblico e critica (Mouse d’oro e premio Osella per la fotografia) all’ultima edizione del festival di Venezia, Aist e Miron, due russi di origine Merya (tribù ugro-finnica dispersa nel tempo), decidono di dare degna sepoltura alla moglie di Aist, seguendo un antichissimo rituale del loro popolo. Il film, lento, dolente, ricco di un interesse etnico-antropologico quasi autocompiaciuto, fa suo il linguaggio della leggenda: vago e disperse, come tutte le narrazioni tra verita´e invenzione. Troppo meditativo per svegliare le coscienze del pubblico. Troppo ammiccante alla poetica di grandi autori come Tarkovskij per essere una voce fuori dal coro. Da apprezzare, comunque, la fotografia lattiginosa e sgranata di certi paesaggi malinconici dell’Est e il piglio letterario che lo ha generato: il film è tratto da un racconto di Aist Sergeyev: The Buntings.

Natasha “Eva Kent” Ceci


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