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C'è posto per tutti: The ABC’s of Death (2012)

Creato il 19 febbraio 2013 da Silente

C'è posto per tutti: The ABC’s of Death (2012)Ho sempre creduto che un autore abbia bisogno di idee – sono queste che esprimono le sue intenzioni, aspirazioni, capacità e cognizioni, e soprattutto durante i faticosi primi passi devono essere sempre e solo le idee a trainare e a mostrare realmente le qualità di chi, come in questo caso, si mette dietro la macchina da presa.
Come accadeva con il pessimo V/H/S, The ABC’s of Death raccoglie gli, ehm, migliori registi indipendenti del circuito horror internazionale, pernacchiando gli italiani, affida una lettera dell’alfabeto a ciascuno di loro e li sfida a creare un corto senza alcun paletto, senza alcuna restrizione, senza alcun limite, salvo il tema centrale della morte che fa da collant nell’antologia. Ma se la totale carta bianca permette di spaziare in lungo e in largo tra i generi rimbalzando tra grottesco, pulp, post-apocalittico, commedia nera & much more, a mancare clamorosamente è la materia prima, un minimo indispensabile di lavoro cerebrale per offrire qualcosa di anche solo accettabile. In 26 corti, salvo una manciata, ma giusto una manciata, di episodi interessanti, la qualità complessiva non riesce mai ad alzarsi oltre il livello di un’indecenza irritante e fastidiosa, e non si parla chiaramente della crudeltà inscenata, delle immagini mediamente forti e dello spropositato uso emoglobinico, è proprio una questione di idee, che a questi registi indipendenti più o meno conosciuti, fanculo la creatività, sembrano non interessare, troppo concentrati e così arroganti nello sperimentare, nell’ironizzare o nel delirare neanche disponessero di curriculum lunghissimi e carriere sfavillanti che li autorizzano a prendersi simili libertà.
Non starò a parlare di quanto, quanto in basso sia la media qualitativa di un prodotto complessivamente improponibile, siamo davvero dalle parti dell’immondizia più becera e lurida, rubo giusto un po’ di spazio per alimentare, ancora, quanto sia lacunoso il lavoro degli autori che quantomeno tentano di fare qualcosa, perché se la claymation splatter di Lee Hardcastle fa sanguinosamente ridere i suoi modellini sono proprio impresentabili, perché se i gatti nazisti di Thomas Cappelen Malling mostrano simpatiche armi da guerra la storia che li vede affrontarsi non ha sinceramente alcun senso, perché se la cacca vendicativa di Anders Morgenthaler è caruccia lo spunto che la motiva è piatto e incolore, perché il POV del vampiro di Ben Wheatley è un mockumentary inverso pur sempre di un vampiro spento si parla, perché il pappagallo rivelatore di Banjong Psanthanakun è divertente ma in fondo è soltanto una barzelletta…
Non si cerca l’originalità, l’innovazione è in fondo pretenziosa e spesso dannosa – basta vedere a che risultati porta con il contributo giapponese di Noburo Iguchi e Yoshishiro Nishimura, episodi francamente inguardabili per l’assurda e letteralmente scoreggiona esagerazione del primo e per l’inconsistente e inconcludente delirio culinario-sessuale del secondo. Si chiede soltanto un po’ di sostanza, una sorta di umile sudore nel costruire, sempre e prima di tutto, qualcosa di significativo – mentre, che so, la superbia comica di Adam Wingard o Jon Schneep porta solo la voglia di prenderli a schiaffoni.
Restano allora due momenti dignitosi e tre, qui bisogno dirlo, eccellenti: simpaticissimo Yudai Yamaguchi, che dei pazzi della Sushi Typhoon è sempre stato il più ragionato e coerente, con il suo harakiri deformizzante, e clamorosamente onesto Kaare Andrews, che aveva regalato quell’aborto di Altitude, con i suoi robottoni killer e gli splatter esp, mentre paragrafo a parte meritano i tre migliori.
M is for Miscarriage di Ti West è un calcio sui denti terrificanti, un minuto ferocissimo e doloroso che lascia un enorme disagio addosso; X is for XXL di Xavier Gens è un delirio ultrasanguinoso e crudele come pochi, una continua sofferenza, mentale e fisica, che si trasforma in una serie di immagini disgustose e di difficile sopportazione; e L is for Libido di Timo Tjahjanto, sicuramente l’episodio più bello, un torture porn che prende le peggio depravazioni umane e le mette in una sequenza tanto disturbante quanto raffinata perché capace di mostrare poco e suggerire tantissimo, uccidendo e mortificando chi guarda secondo dopo secondo.
Ma è poco, poco, davvero troppo poco per un progetto che avrebbe dovuto mettere in mostra tanti talenti ma che in realtà conferma soltanto il tiepido stato del cinema di genere.

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