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Carne cruda

Creato il 15 febbraio 2014 da Violentafiducia0

È venerdì mattina. Si sveglia e non riesce a capire dove si trovi. Lentamente comincia a riconoscere la ringhiera del soppalco, i libri sul comodino, i vestiti sulla sedia vicino allo specchio. È nella sua stanza, come ogni mattina. Si chiede perché tutte le volte provi questo senso di disorientamento, poi si gira su un fianco e guarda la cerniera di luce che si apre tra le tende.
Le viene voglia di carne cruda, e di fare l’amore. La carne cruda peraltro non le piace nemmeno. Le capita spesso di avere voglia di cose che non le piacciono. Ma le piace l’odore delle macellerie. L’odore freddo della cella, sterile, bianco di sangue.

Probabilmente le ricorda l’infanzia, le volte in cui andava con suo nonno a comprare la salsiccia e le costate di vitello. Sul bancone c’era un piccolo gallo fatto di conchiglie, sull’arco che separava la macelleria dalla bottega un quadretto di ceramica diceva “Per pagare a credito passate domani”. Il macellaio, Nino, si rivolgeva a suo nonno chiamandolo Professore. Professore, sua moglie come sta, e a casa tutto bene, e questa signorina la porta sempre a passeggio.
Lei li ascoltava parlare e stava zitta, Nino affilava i coltelli e il gallo guardava la scena col suo occhietto fossile. Lei guardava l’occhio del gallo e poi guardava Nino, la tensione affilata del polso, il coltello spaccare le coste, il colpo sordo sul tavolo, la mano nella mano del nonno, e le dita di Nino rosseggiare. Viva, nient’altro, sebbene riversa, sebbene incartata, quella carne era viva, nei tessuti ancora respirava.

Un patto silenzioso tra lei, il nonno e il macellaio, le permetteva di assaggiare una noce di salsiccia che Nino ogni volta le offriva scucendola dal budello. Se lo sa tua nonna ci rimprovera entrambi, diceva suo nonno, ma glielo diceva in dialetto: S’u sapi ta nonna nni sciarrìa a tutti i dui. Era la sua lingua, lei era lì, lì pulsava, lì tutti gli organi, il primo amore, la sua casa, tutto quello che lei era era lì. Esercitava la parola e il silenzio, ma preferiva il silenzio. Di quel patto che le consentiva di disobbedire a un divieto (la carne cruda non si mangia) avrebbe sempre taciuto. Non aveva paura di tradirsi, i segreti li sapeva mantenere, li sapeva consumare lenti nella pancia, le si scioglievano dentro – come si scioglieva quella carne tra la lingua e il palato, sprigionando il pepe e i semi di finocchio – e dentro le si annidavano, in posti dove li avrebbe dimenticati e poi ricordati di colpo dopo molti anni. La carne buona non ne fa venire verme solitario, diceva il macellaio, e chista è bona.

È venuta via dal paese a nove anni, strappata come erba di vento a furia di calci e pianti composti. Da allora le è rimasta sempre una sorta di fame. Una fame che si nutre di spazi vuoti, distanze, separazioni, e che vuole tutto. Che si muove ferina tra lo stomaco e le braccia, tra la gola e la testa, pretende e non sopporta inganni. Col tempo è cresciuta, si è trasformata, è diventata letto, mestruazione, si è fatta uovo e ossessione, si è fatta contagio, compulsione, innamoramento vorace, ostinazione, si è fatta tremore, tensione, si è fatta anello, tenaglia, avverbio, si è spostata con lei nei posti in cui ha vissuto, è diventata ancora, è diventata tu, si è fatta amore, paura e frustrazione, e gabbia, si è fatta ferita, si è ritirata per allungare la rincorsa, si è fatta parola e corpo e poi di nuovo si è liberata.

Stamattina quella fame vuole carne.

Si veste in fretta, si sente concentrata e assente al tempo stesso. Scende al mercato sotto casa, tra i banconi esposti sceglie quello dove c’è più gente. Gliel’ha insegnato qualcuno, non ricorda chi: se c’è tanta gente la merce si vende, se la merce si vende ne arriva di fresca. Aspetta il suo turno e mentre aspetta li guarda tutti. C’è la ragazza alla cassa, bocca carnosa, capelli lisci, sguardo spento, imbusta gli involti che le arrivano dal ragazzo addetto al peso: occhiali sottili, incisivi sporgenti, poggia sulla bilancia gli involti che gli arrivano senza sosta dal macellaio: giovane, ha i capelli lunghi, chiari, la barba, lo sguardo affilato e polpastrelli ruvidi con cui afferra quarti e macinato. Si pulisce le mani sul grembiule già sporco, passa la spugna sul banco, solleva gli occhi, la fissa attento: “Dimmi”.

A casa la carne la cuoce soltanto col limone.
Si siede e la guarda, nel piatto, come se fosse un punto lontano da raggiungere.
Preme forte i piedi contro il pavimento. Serra le mascelle, dilata le narici.
Deglutisce, la lingua schiocca.
Aspetta il momento giusto, quello in cui non è più una necessità ma un piacere.
Sente il cuore gonfiarsi nel petto, accelerare il battito, i muscoli del corpo contrarsi. Un calore che conosce le invade le spalle e le inarca la schiena. Chiude gli occhi, inspira l’aria e l’umore acido dell’aria.
Si prepara come un soldato che attende e scongiura l’assalto del nemico.
Una pace che non arriva.
Un cerchio che non si chiude.
Un punto lontano, lontanissimo, da raggiungere.
L’assenza invece, così rossa, il vuoto, così vivo.
Così viva la preghiera che precede il pasto: sia sempre la fame a placarsi, mai la voglia.
E così vivo il desiderio del mattino: carne, amore, carne.


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