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Cartolina da Laigueglia.

Creato il 22 febbraio 2014 da Emialzosuipedali @MiriamTerruzzi

L’indirizzo, lo spazio a volte troppo grande, altre troppo piccolo per scrivere un saluto e il francobollo da appiccicare. Anche se le edicole tra i vicoli dei paesi di mare hanno ancora i loro totem pieni di cartoline in attesa di essere scelte, il tempo dei saluti via posta sta piano piano svanendo. Un click con il cellulare e due o tre smile sono le nostre cartoline 2.0. Le ultime che mi ricordo di aver mandato avevano scritto nello spazio per l’indirizzo il nome della mia nonna e sono partite tutte dalla Liguria. Era per dirle che la pensavo e sono sicura che quelle poche parole scritte a biro sul cartoncino di carta resteranno tra quei ricordi che tornano a galla sempre e non si affievoliscono mai. Il tempo, su di loro, non ha nessun potere e non ne avrà mai.
Ieri Laigueglia era veramente come nelle sue cartoline più belle: il cielo azzurro che la mattina conservava una spennellata rosa all’orizzonte dove si incontrava con il mare tranquillo che metteva sulla spiaggia grigia una spuma leggera. Il profumo dei pini marittimi, di sole, il colore di una mimosa tra le case, il chiacchiericcio leggero fuori dai bar che, nei vetri, riflettono il mare luccicante, l’ombra dei vicoli e il profumo di focacce appena sfornate. Dietro una cartolina così vivida sembra naturale doverci scrivere il ciclismo che, forse, è lo sport dei sensi per eccellenza. Poche parole scritte con la biro ma autentiche, per restituire in un quadratino di cartone quello che il gruppo ha portato con sé, per quei saliscendi con l’isola della Gallinara sullo sfondo, per quelle strade strette vegliate dalle agavi e dalle palme.
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Attesa.
Ha un’anima sua, l’attesa, nel ciclismo. Aspettare una partenza è un rituale maniacale che chi ha imparato a voler bene a questo sport conosce bene. Arrivare prima, guardare i pullman delle squadre che parcheggiano uno alla volta, i meccanici che sistemano le ultime cose sulla bicicletta.
Ulissi” dice uno. “Fai una foto con mio figlio, per favore?
Diego Ulissi sorride, è tranquillo, non è ancora in divisa, è sceso dal pullman per salutare Michele Bartoli. Si fa scattare una fotografia con il sole delle nove e quarantacinque negli occhi e risale a prepararsi.
Un meccanico con la maglietta a maniche corte e gli Oakley fa girare attentamente la ruota di una bicicletta, la controlla. In qualche pullman aperto si intravedono i telai, le ruote, come organi di un corpo. Aspettano con calma il momento in cui verranno sostituiti, di poter tornare ad essere preziosi. Come un cuore, un fegato, un polmone.
Lo speaker lontano e poi vicino, il rumore delle ruote che vanno e vengono dal foglio firma, l’agitazione della partenza. L’attesa. Che nel ciclismo, è sempre a fior di pelle e a volte è breve, troppo breve, e si dissolve improvvisa, a volte è interminabile e si stempera a lungo, tira l’emozione come un bambino con gli elastici. Quando finisce e il gruppo parte, a Laigueglia si torna a passeggiare per i vicoli e si torna ad aspettare ancora. Un segnale dalla corsa, il passaggio in paese o l’arrivo stesso. Si aspetta in eterno, per quei pochi secondi che valgono tutto.
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Affetto
Il cielo, dopo l’arrivo, ha nascosto il suo sole. Le nuvole promettono pioggia sulla Riviera e il mare è grigio, la Gallinara scura e lontana. Hanno tutti voglia di tornare a casa, la gente si mischia ai corridori che tornano ai pullman. Qualcuno viene fermato, tra la stanchezza e un sorriso forzato. Un uomo coi capelli grigi, il cappello da pittore in testa e un quotidiano in mano, insegue un ciclista chiedendo: “Te sei in squadra con Pasqualon?”
La risposta si perde nella confusione ma resta qualcosa che il ciclismo regala a piccoli sprazzi e che bisogna cogliere al volo. Andrea Pasqualon è arrivato terzo, forse qualcuno non sapeva nemmeno chi fosse. Eppure l’affetto è immediato, la simpatia per qualcuno che è anche stato all’attacco durante la corsa, che ha fatto di tutto per essere protagonista, è una molla che scatta all’istante. Non passa per il cervello, arriva al cuore subito. Non so cos’è ma fa parte di questo sport, le emozioni inspiegabili sono il suo motore, il suo motivo. La strada fa proseliti, non si sa bene perché ma succede. Capita che ti sale l’affetto per il gruppo, che un nome ti rimanga nella memoria e che forse si associ a quel giorno. Succede per tutti, ognuno a suo modo e allo stesso tempo ognuno alla stessa maniera.

Umiltà.
Alza il braccio sul traguardo Josè Serpa Perez. Un pugno al cielo. Il suo compagno di fuga, Patrik Sinkewitz fa un gesto di disapprovazione, sullo stile di un imperatore romano. Polemiche delle quali solo la strada può essere giudice. Il traguardo non ha scuse. Il tedesco, ingoiando il suo secondo posto, si è vendicato sul palco, rovesciando addosso al vincitore tutta la sua bottiglia di vino. Serpa Perez è felice, stanco e fradicio di una pioggia di bollicine. Risponde ai giornalisti, si presta alle foto con la divisa lucida, bagnata, sotto un cielo grigio e l’aria che promette pioggia. Quando inforca la bici per andare a cambiarsi e poi in sala stampa, i bambini e i passanti lo attorniano. Una signora sudamericana gli dice qualcosa nella sua lingua, gli chiede di fermarsi. Autografi, foto: la prassi. Ognuno vuole prendersi un pezzo di quella vittoria. Lui parla e batte i denti, eppure non si sottrae a niente, anche quando un bambino gli corre dietro a piedi. Si ferma, sorride, gli dà retta. E’ l’umiltà che grida piano mentre le transenne vengono smontate e tutto si prepara a tornare alla normalità. Gli uomini in bicicletta non si sono dimenticati di essere uomini: la fatica li fa stare sempre coi piedi per terra. La strada insegna i valori senza parlare.

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E’ difficile far stare tutto sul retro di una cartolina, eppure ci vuole anche lo spazio per salutarsi. “Baci” scrive la gente. A me piace mettere anche “un abbraccio”. Perché il ciclismo è un po’ come un abbraccio. Ti avvolge, ti fa sentire bene. E non vorresti scioglierti più. Rimango stretta nell’abbraccio di Laigueglia, delle sue voci, dei suoi colori e del suo sole abbagliante di primavera. Rimango stretta e la cartolina di questa Liguria me lo porto via in questo modo, me la tengo in tasca e so che potrò riguardarmela tra qualche giorno, quando quella visione sarà un po’ più lontana. Funziona così, le emozioni di una corsa sono scritte con la biro e non vanno più via. Non sbiadiscono, il tempo non ha potere su di loro. Non ne avrà mai.



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