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Celle qui n’était plus

Creato il 31 marzo 2015 da Salone Del Lutto @salonedellutto

Molti di voi, probabilmente, avranno visto I diabolici (Les Diaboliques), film del 1955 con il quale il francese Henri-Georges Clouzot pare abbia battuto sul filo di lana il buon Alfred Hitchcock, aggiudicandosi il soggetto originale. Due note curiose sulla pellicola: la quasi completa assenza di musica, dacché la colonna sonora si limita a 2 minuti e 21 secondi (1 minuto e 57 secondi nei titoli di testa e 24 secondi alla fine) e il messaggio che salutava gli spettatori nelle sale: «Non siate DIABOLICI! Non distruggete l’interesse che i vostri amici potrebbero nutrire per questo film. Non raccontate loro quello che avete visto. Grazie per loro».

Ancora più numerosi, probabilmente, sono quelli che avranno visto il remake del 1996, Diabolique, che annoverava nel cast Sharon Stone, Isabelle Adjani, Chazz Palminteri e Kathy Bates.

Non so quanti, invece, si siano spinti all’origine di tutto ciò, leggendo I diabolici, appunto, pubblicato in Francia con il titolo di Celle qui n’était plus e scritto a quattro mani da Pierre Boileau (1906-1989) e Thomas Narcejac (1908-1998), che insieme firmarono alcuni fra i capolavori del noir francese. Uno su tutti, oltre al libro appena citato, La donna che visse due volte che, ne sono sicura, vi farà pensare più a Hitchcok che alla coppia di scrittori. Quanto a I diabolici, probabilmente non lo avranno letto in molti, forse perché il titolo è un po’ datato ma non ancora così famoso come tanti grandi classici, forse perché nell’ambito di questo genere letterario si tende perlopiù a prediligere le nuove uscite. Non so. Del libro, a ogni modo, era già stata pubblicata una traduzione italiana nel 1981, da Mondadori, nell’ambito della collana “I maestri del giallo”. Non credo però lo si trovasse in libreria almeno finché, nel 2014, Adelphi non lo ha ripubblicato, con il proposito di riproporre alcune delle opere più significative dei due autori.

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Io, lo ammetto, sono stata attratta dalla copertina, nera come la pece, che riproduce un lavoro di James Casebere, Row House, un inquietante caseggiato a tre piani dove solo poche finestre, su in alto sono illuminate. La sfida è arrivarci, lassù… E avevo pure dei ricordi cinematografici sfumati, quindi ecco, non immaginavo che la lettura mi avrebbe proiettata in un immaginario che in parte conoscevo – solo in parte, visto che entrambi i film stravolgono ampiamente la trama del libro, modificando i ruoli dei personaggi e l’ambientazione. Leggerlo, è stata una bella sorpresa, tant’è che l’ho consumato in due notti, alle ore piccole, e che una sottile tensione me la sono portata nel letto.

La trama parla di un classico triangolo: Fernand Ravinel e Lucienne Mogard sono amanti. Non tanto invischiati in una storia di amore folle e passione, quanto piuttosto in una volontà comune di programmare nei minimi dettagli una nuova vita, quella che avranno ad Antibes, dopo aver ucciso Mireille, la moglie di Fernand e averne riscosso la polizza assicurativa. Il piano è perfetto: lui le farà bere un sonnifero, poi la annegheranno nella vasca da bagno e finalmente, dopo alcuni giorni sistemeranno il corpo dove dev’essere ritrovato. Un incidente, forse un suicidio. Poco importa. Ci saranno comunque tutti i presupposti per riscuotere il premio.

Ma qualcosa va storto, perché il cadavere fa una delle poche cose che un cadavere non dovrebbe fare: scompare. E, scartate tutte le ipotesi razionali per spiegarsi questa scomparsa, non resta che scendere nel campo dell’impossibile. «I vivi e i morti appartengono tutti allo stesso popolo. Se in genere immaginiamo che i morti risiedano altrove, se crediamo all’esistenza di due mondi separati, è solo a causa dell’ottusità dei nostri sensi. Ma ci sbagliamo! I morti sono qui tra noi, invisibili, mescolati alla nostra vita, ancora presi dalle loro incombenze quotidiane. “Non dimenticarti di chiudere bene il rubinetto del gas”. Parlano con bocche d’ombra; scrivono con mani di fumo. Tutto ciò sfugge a chi è distratto dalle proprie occupazioni, ma diventa percettibile in determinate circostanze. Forse basta non essere compiutamente nati, non essere lasciati travolgere del tutto dalla sarabanda chiassosa e variopinta della vita, dalla tempesta dei suoni, dei colori, delle forme…». È Fernand che deve occuparsi di ritrovare o far ritrovare il corpo di Mireille, ma la sua scomparsa è come un click, o un insieme di molti click, che lo trascineranno nel delirio, nella paura, nel mistero, e poi nell’attesa, in una tensione sottile e continua, che cresce di pagina in pagina.

A contribuire a rendere il tutto ancor più pauroso, c’è l’ambientazione: una Parigi immersa in una fitta nebbia novembrina che non dà tregua. «Perché la nebbia? Perché la nebbia proprio quel giorno? Come distinguere, tra le ombre indefinite che ti sfiorano i vivi dai… Assurdo! Ma non è facile impedire a quella caligine vischiosa di penetrare nel petto, di insinuarsi nella mente e ottenebrarla come una boccata d’oppio! Tutto diventa falso e, un attimo dopo, tutto ritorna vero». Ecco. Leggendo I diabolici è proprio con ciò che è falso e ciò che è vero che dobbiamo misurarci, con un mondo in cui i morti lasciano segni e messaggi, entrano in relazione coi vivi e, soprattutto, con una specie di processo iniziatico in cui, scartate tutte le ipotesi razionali, ciò che resta non è l’impossibile, ma la verità.

di Silvia Ceriani

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Pierre Boileau e Thomas Narcejac
I diabolici
Adelphi, 2014 (anche in e-book)
Traduzione di Federica Di Lella e Piero Girimonti Greco

«Una sorta di interminabile attacco di cuore»: così è stato definito I diabolici, che – unanimemente considerato un classico della letteratura noir – non ha perso un grammo del suo torbido fascino: come dimostrano i commenti dei giovani blogger francesi, i quali scoprono stupefatti quanto l’attuale letteratura psicologica francese «à suspense» debba a un libro che ai loro occhi appare «di un’incredibile modernità», dotato di «un intrigo perfetto» e di «una tensione che fino all’ultimo non ti dà un attimo di tregua». Come nei migliori romanzi di Simenon, quello che conta qui è la progressiva perdita, da parte del protagonista, della percezione della realtà, il suo sprofondare sempre più allucinato in una vertigine di angoscia e di terrore in cui i deliri si accavallano ai ricordi d’infan­zia e a un lacerante senso di impotenza. Nei Diabolici compaiono per la prima volta alcuni dei marchi di fabbrica della sterminata, formidabile produzione di Boileau e Narcejac: lo schema triangolare, l’am­bienta­zio­ne provinciale e piccoloborghese, il motivo del colpevole tormentato dal rimorso e dalla paura, la contiguità fra innocenza e colpa; e soprattutto l’inversione dei ruo­li: in un’autentica spirale di orrore, l’as­sassino si trasforma in una vittima braccata da «colei che non c’è più» – la donna che sa di aver ucciso. Non a caso Francis Lacassin (sceneggiatore di molti Maigret televisivi e grande studioso di Simenon) ha scritto che proprio grazie a Pierre Boileau e Thomas Narcejac «il romanzo poliziesco senza poliziotti è diventato una variante tragica del romanzo tout court».


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