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Chanto tsutaeru (Be Sure To Share)

Creato il 10 novembre 2011 da Makoto @makotoster
Speciale Sono Sion
Chanto tsutaeru (Be Sure To Share)Regia, soggetto e sceneggiatura: Sono Sion. Fotografia: Ueno Shōgo. Luci: Torigoe Masao. Scenografia: Ōba Hayato, Ōba Yūto. Montaggio: Itō Jun’ichi. Musica: Harada Tomohide. Interpreti e personaggi: Akira (Kita Shirō, il figlio), Okuda Eiji (Kita Tetsuji, il padre), Itō Ayumi (Nakagawa Yoko, la fidanzata), Takahashi Keiko (Kita Izumi, la madre), Takaoka Sōsuke (Tamura Keita, l'amico), Ayata Toshiki (il vecchio pescatore dello stagno), Denden (Tanaka, l'insegnante e collega). Produzione: Umemura Yasushi per GAGA. Durata: 109’. Uscita nelle sale giapponesi: 22 agosto 2009. Link: Mark Schilling (Japan Times) - Rowena S. Aquino (Midnight's Eye) - Jason Gray (Negativ)PIA: Commenti: 3/5   All'uscita delle sale: 64/100Punteggio ★★★1/2  
Quando il padre è ricoverato in ospedale per un cancro, il giovane Shirō si accorge che i suoi sentimenti verso il genitore sono mutati e cerca con affetto di ricostruire la loro relazione. Inizia così a ricordare gli anni del liceo, quando il padre era anche il suo insegnante di educazione fisica e allenatore di calcio, severo e inflessibile più che mai. La situazione avrà una svolta imprevista quando anche Shirō scoprirà di essere malato.Girato quasi completamente nelle zone natie di Sono, le cittadine di Toyokawa e Toyohashi, agli estremi della prefettura di Aichi, Chanto tsutaeru è uno dei lavori più autobiografici del regista, che mette in scena i sentimenti provati quando è scomparso suo padre. Gli aspetti di interesse del film sono molteplici. Innanzitutto la scelta di basare la storia su personaggi e situazioni “normali”, lontane da quelle famiglie disfunzionali e dai quei personaggi devianti o deviati, ai margini della società, che spesso abitano i lavori di Sono. Inoltre, grazie alla scelta delle location, alla musica quasi impercettibile della chitarra di Harada Tomohide e, soprattutto, allo spettro dei colori e al gioco delle luci, siano esse naturali o artificiali, il film è fin dalle prime battute immerso in un’atmosfera crepuscolare di «dolce fine». Un esempio lo abbiamo quando un’immagine del sole al tramonto, rosso come una palla di fuoco, si riverbera nelle inquadrature della scena che segue all’interno dell’ospedale, dove è ricoverato il padre di Shirō. Una scena che, proprio grazie all’uso del colore e agli arpeggi quasi subliminali della chitarra, riesce a creare quell’atmosfera di calmo tramonto e di dolce ma ineluttabile scorrere del tempo che caratterizza la quasi totalità del film. Un esito a cui concorrono anche i frequenti montaggi di incroci, stradine e case delle cittadine di Toyokawa e Toyohashi, per lo più deserti, che offrono una visione piuttosto veritiera della provincia giapponese. È questo un ulteriore aspetto interessante, intanto perché riporta Sono a certe sue opere di qualche anno prima, così «densamente vuote» come Keiko desu kedo (I Am Keiko, 1997) o Heya (The Room, 1992); poi, perché i colori caldi e pastosi, con i prati che quasi scintillano d'oro, sono la vera struttura dell'opera, la tela perfetta su cui i vari personaggi, interpretati con bravura da tutto il cast, si inseriscono in un secondo momento dal punto di vista della significazione cinematografica. Ne è un ottimo esempio la scena della pesca del padre e del suo amico Tanaka, che si svolge nelle vicinanze di un lago, uno spazio narrativamente centrale per il significato di tutto il film, dove la fotografia di Ueno Shōgo riesce a creare un perfetto equilibrio tra l'aspetto agreste e bucolico della zona e il fatto che l’intera sequenza sia frutto del ricordo di qualcuno. Colori caldi e avvolgenti che si legano ad altre parti del film e trovano, ad esempio, un corrispettivo e una risonanza con gli interni dell'abitazione della famiglia Kita, in particolare con la stanza dove sono custoditi tutti i trofei del padre e le sue canne da pesca. È questo un altro luogo topico del film, che rappresenta per Shirō la stanza della memoria del padre; proprio qui, infatti, il ragazzo ricorda il periodo delle scuole superiori, con il padre severissimo insegnante di educazione fisica. In questo e in altri flashback, che sono una costante del cinema di Sono, i colori diventano più freddi, l'uso della camera a mano si fa preponderante, così come la frequenza dei primi piani. Si tratta di un’altra conferma della creatività e della versatilità del regista, anche quando il materiale narrativo, come in questo caso, non è dei più originali. Del resto, Sono rompe a più riprese le dinamiche del dramma lacrimevole, pur rimanendone all’interno. Quando, all’incirca a un terzo del film, il dottore dell’ospedale rivela a Shirō che ha un cancro in stato avanzato, ancora più grave di quello del padre, il cineasta intensifica l’uso del voice over - già ampiamente presente in Keiko desu kedo e Noriko no shokutaku (Noriko's Dinner Table, 2007) - dei flashback dentro i flashback, delle piste narrative interrotte e poi riprese, anche a venti e più minuti di distanza, di scene che sembrano ripetersi, o paiono osservate da un punto di vista diverso, per poi rivelarsi però effettivamente altre. Anche in questo film apparentemente “normale”, o forse proprio perché per certi aspetti “normale”, emerge la tendenza di Sono a complicare la visione allo spettatore, a mantenerlo sempre vigile e attento, come a voler liquefare la prevedibilità della narrazione e delle immagini stesse. L’uso espressivo dei colori ritorna con forza nelle scene madri del film. Così, per esempio, la scena del funerale del padre, che sanziona definitivamente la sua assenza, è aperta da un montaggio di zone deserte della cittadina di Toyokawa, che ora ci sembrano più desolate e solitarie che mai. L’estro pittorico di Sono non si ferma però qui. Quando tutti i partecipanti del funerale scendono dalle loro auto, le immagini sono strutturate come un acquerello, il cielo è virato al giallo con le montagne all'orizzonte, e la macchina verde mare appare come una macchia solitaria. Non si tratta di una scelta fine a se stessa; essa contribuisce, infatti, a determinare quell’atmosfera elegiaca che trova il suo culmine nel momento in cui il figlio, per ottemperare in qualche modo alla promessa fatta al padre, ne trasporta il corpo senza vita sino al lago. Quando arrivano anche tutti gli altri partecipanti al funerale, e la madre e la fidanzata si siedono sulla panchina vicino a padre e figlio, la musica, fino a questo punto sommessa e di sottofondo, aumenta di volume, sfociando e raggiungendo il culmine in un’inquadratura del laghetto infuocato dal tramonto. È questo il cuore del film, almeno il momento in cui emerge il suo significato principale: non si deve, con le persone che si amano, procrastinare nel tempo ciò che si può fare subito, perché potrebbe non essercene più l’occasione. Importante, a questo riguardo, il ruolo simbolico assunto da quel guscio di cicala che il padre teneva fra le mani nel momento in cui, colto da un malore, era stato ricoverato in ospedale, e che più volte ritorna nel film. Esso è segno della coscienza della caducità, dell’ineluttabilità della morte e della fugacità dell’esistenza. Le cicale, infatti, vivono per un breve periodo e in Giappone, soprattutto in estate, sono onnipresenti, con il loro frinire assordante, sia in campagna sia nelle città. Ascoltare il frinire delle cicale è, per i giapponesi, ascoltare il suono dell'estate, e questa stagione, con la sua luce e la sua calura insopportabile, è il periodo in cui, secondo la tradizione, ritornano i morti durante la festa dell'Obon. [Matteo Boscarol]

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