Magazine Diario personale

Chiedimi chi erano i Blizzard

Da Laperonza

blizzard.jpgQuando iniziai ad andare a scuola a Macerata mia mamma mi vestiva come un perfetto scolaretto: pantaloni di flanella dritti a zampa di elefante color cachi, maglioncini a V e maglia a dolcevita, mocassini. Per me era piuttosto normale ma quando il mio nuovo compagno di scuola e amicoMarcoPizzuti iniziò a prendermi in giro per il mio abbigliamento cominciai a riflettere sul mio modo di vestire.

Marcoportava esclusivamente jeans Levi’s e me lo faceva notare. I Levi’s di allora erano diversi dai jeans comuni: ben stretti, taglio particolare, un tessuto che più scoloriva più diventava “togo”. Vestito com’ero iniziai a invidiarlo e mi rodeva anche essere preso per i fondelli in continuazione. Dovetti subire per un po’ finché un giorno, con un’impennata d’orgoglio che mi meravigliò, mi imposi a mia madre dicendo: “O mi compri i jeans o non vado più a scuola!”. Scandalo. I jeans erano da hippy, da sbandati, si parte dai jeans e si finisce a drogarsi sul marciapiede. Però la mia buona mamma decise di mettermi alla prova: mi portò da Otello, unico spacciatore di abbigliamento giovane a Montegranaro e mi comprò il mio primo paio di jeans. Non Levi’s, perché non volevo imitareMarco, anzi, volevo fargli vedere che potevo essere togo come e più di lui senza Levi’s. Comprai Wrangler, grande novità per l’epoca, un pantalone fasciatissimo, attillatissimo da cima a fondo, con un tessuto che, scolorendo, diventava tutto rigato.MarcoPizzuti smise di prendermi in giro.Mamma dopo un po’ capì  che, nonostante i jeans, ero ancora il bravo ragazzo di prima: andavo bene a scuola, non dicevo parolacce (almeno non in sua presenza), e si supponeva che non facessi uso di sostanze stupefacenti.  Per cui, un giorno, tornato da scuola, trovai un suo regalino preso al mercato: una cinta di cuoio nero con la fibbia di bronzo che rappresentava un’aquila. “Ti piace?” chiese. “Cazzo se mi piace” risposi. Credo fosse la prima volta che dissi cazzo in casa. Mamma non lo sentì, o finse di non sentirlo.

Quando andai a scuola Gabriele Eleuteri, che vedeva con un leggero sospetto la mia modernizzazione nell’abbigliamento, mi disse che stavo facendo una punkata dietro l’altra. MarcoPizzuti non parlava più. Durante l’interrogazione di inglese la prof notò la strana fibbia che indossavo e mi chiese indicando i pantaloni: “Craia, cos’hai lì?”. Senza malizia risposi: “Un uccello.”. E lei: “Curioso, posso toccarlo?” e toccò. La fibbia, sia chiaro. Ma la classe esplose. Eravamo in terza media e gli ormoni giravano impazziti. Sembra che la storia ancora giri per i corridoi dei salesiani. Ma fu tutto senza malizia, ed io, ingenuo, capii l’eventuale e certamente inconsapevole doppio senso solo quando tornai al posto, tra i miei compagni che mi davano di gomito.

Quello era l’anno in cui Uliano venne a scuola a Macerata. Vestiva più o meno come me due anni prima, col capello corto e la faccia da bravo figliolo. Io avevo la mia aquila, i miei Wrangler autoadesivi e il capello piuttosto lungo per lo standard. Uliano ascoltava Genesis e Rolling Stones, io ero pazzo per i Beatles (allora sapevo tutto o quasi su di loro), Dire Straits e Police. Così iniziò la gara a chi trovava il disco più togo. Mi prestò Abacab. Gli prestai Making Movies. Mi prestò Tatoo You. Gli prestai Zeniatta Mondatta. Dei Beatles non ne volle sapere. Allora pensai: “Lo frego io” e comprai il mio primo disco degli AC/DC, For Those About to Rock e glie lo prestai. “Togo!” disse.

Dopo qualche giorno venne a scuola con un disco tutto colorato, con disegnata in copertina una specie di zombie davanti a un condominio di notte. Era il mitico Killers degli Iron Maiden. Naturalmente me lo prestò e fu l’illuminazione. “Qui dobbiamo fare qualcosa!” e lo facemmo.

Già da un po’ ci trovavamo a suonare a casa mia. Ma decidemmo che la nostra nuova direzione sarebbe stata l’Heavy Metal. Una sera di tardo autunno decidemmo di fare un gruppo e lo chiamammo Hammersmith come il quartiere di Londra. Comprai la mia prima chitarra elettrica, praticamente una specie di mandolino con la leva del vibrato. Un cesso. Ci mettemmo a buttar giù canzoni pseudo hard rock. La prima la chiamammo come noi com’è logico che fosse. Poi ne facemmo un altro. Con l’inglese non avevamo un buon rapporto per cui proponemmo a Tiburzi, un compagno di scuola secchione di Uliano, fanatico di Led Zeppelin e Deep Purple, di scriverci i testi. Così avemmo in breve due pezzi: Hammersmith e Kill The Night. Grazie a Dio non ricordo né musica né parole.

Avemmo la faccia tosta di registrarle su una cassetta TDK C10. Sui due lati, come fosse un quarantacinque giri. E ci avanzò anche dello spazio. Avevamo deciso che la nostra missione fosse quella di combattere il dilagare della disco music. Tra la nostra ampia strumentazione c’era una tastierina Casio giunta per regalo a mio fratello per la Prima Comunione che, oltre ad essere una calcolatrice portatile decisamente ingombrante, suonava anche. La Casio aveva la batteria elettronica incorporata e uno dei suoi ritmi era identico a quello usato da Trio nella sua orribile DADADA, così ne facemmo una parodia dialettale e la registrammo nel nostro “demo tape”.

Io cantavo e suonavo la mia chitarra-mandolino elettrica che faceva sdlen sdlen, attaccata all’amplificatore dell’organo di mio padre, Uliano usava la mia vecchia chitarra classica, che era rimasta con cinque corde, come fosse un basso e faceva i cori. La batteria era quella elettronica dell’organo. Disegnammo la copertina della cassetta in bianco e nero, dentro scrivemmo i titoli delle canzoni e i nomi dei membri della band: il mio, il suo e quello di un fantomatico John Qualcosa che avrebbe dovuto essere il batterista virtuale. La vergogna non era di casa tra noi e, entusiasti, il giorno dopo, armati di registratore portatile, ci portammo la cassetta in corriera per farla sentire agli amici. Tra il malcelato disgusto generale si levò una voce che, con accento vagamente romagnolo, disse: “Ma è fortissimo!” Era Mauro Cappelletti. “Posso suonare con voi?”. “Ma tu non sai suonare niente”, perché noi, invece, eravamo musicisti provetti. “Imparerò”. E lo fece. Gli facemmo comprare la batteria, quella vera, anche perché era l’unico del nostro giro che potesse permettersela. Stavano nascendo i Blizzard.

Un giorno di prima estate vendetti la mia chitarra-mandolino comprata al “Centro della Musica”, negozio ormai scomparso all’angolo di Corso Cairoli di fronte allo Sferisterio a Macerata e pagata, mi pare, centoventimila lire. La chiamavo mandolino non perché gli assomigliasse esteticamente, anzi, era una cover di Stratocaster,  ma perché faceva sdlen sdlen, come ho detto, suono piuttosto disdicevole se vuoi fare heavy metal.  Andammo in corriera a Civitanova io e Uliano con la chitarra a tracollo che ci guardavano tutti manco fossimo i Beatles. All’epoca una chitarra elettrica, per quanto mandolino, non la vedevi se non in televisione. Anche questo contribuì al fatto che, in paese, ci chiamassero “gli inglesi”.

Salimmo sulla vecchia SAM  blu tutti eccitati perché convinti di andare a comprare una Strato vera. Avevo due soldini da parte, lesinati dai soldi per la colazione che mia nonna mi passava prima di andare a scuola, ed ero intenzionato a comprarci una chitarra come si deve. L’intenzione, quindi, era di andare da Tutto Musica, negozio che invece ancora esiste, permutare la “mando” e portarci a casa una Fender o una Gibson Les Paul usata.

E da Tutto Musica c’era ogni ben di Dio di chitarre usate, ma tutte a prezzi decisamente troppo alti per le mie finanze. Il tipo del negozio, invece, fece storie sulla valutazione del mio gioiellino sdlen sdlen, disse che non sapeva valutarlo ed io mi guardai bene dal dirgli quanto l’avevo pagato. Genio del commercio di quattordici anni, gli proposi di tenerla in conto vendita e, una volta venduta, avremmo fatto la permuta. Tornammo a casa piuttosto delusi: ora non avevamo più nemmeno una chitarra. Due giorni dopo il venditore di chitarre mi telefonò e mi diede notizia di aver venduto la mia chitarrina. Chiamai Uliano e, la mattina successiva, di buon’ora, ripartimmo per Civitanova, stavolta in autostop.

Il tipo del negozio aveva venduto la mia “mando” per centocinquantamila lire. Trentamila lire in più di quello che l’avevo pagata nuova. O era un mago lui o era allocco quello che l’aveva comprata. Il problema, però, era che io, con la permuta e i miei risparmiucci, avevo duecentocinquantamila lire, con le quali, tra i vari strumenti a disposizione, non avrei potuto comprare nemmeno una custodia. Nuovo colpo di genio, proposi: “una Custom non ce l’hai?”. Sapevo che non c’era, l’avevo ben visto. Naturalmente disse no, ma me la poteva procurare a breve. Dissi che andava bene, aspettavo una sua chiamata appena ne trovava una. Mi diede le mie centocinquantamila lire e non mi vide più.

Andammo diretti da Civitanova a Macerata, da Pieroni, altro negozio scomparso che stava vicino al Palazzo degli Studi e aveva l’esclusiva Eko per la zona. Mi portai a casa una bellissima Eko bordeaux con i pick up Di Marzio. Non era una Strato né una Les Paul ma suonava bella dura e, soprattutto, non faceva sdlen sdlen.

Qualche giorno dopo Uliano ruppe il porcellino e andammo da Principi, sempre a Macerata, a comprare un bel basso imitazione Fender per lui. A quel punto mancava la batteria. Arrivò alla fine di agosto. Mauro Cappelletti, che aveva fatto le vacanze dai nonni a Rimini, s’era fatto regalare per il compleanno una bella batteria a sei tom e un corso accelerato per suonarla, e tornò a casa tamburomunito e in grado di suonare.

A settembre registrammo il nostro demo-tape e il nostro primo pezzo decente, un rock’n roll leggero basato su una scala di la maggiore che chiamammo Good Woman, il cui testo scrivemmo in un inglese piuttosto approssimativo. Avevamo finalmente la batteria, il basso e la chitarra, la voce ero io e per fortuna lo sono rimasto per poco, lasciando ben volentieri l’incombenza ad Uliano che era decisamente più portato. Ma per registrare una demo era necessario un mixer ed un po’ di microfoni. Il mixer lo fornì Loredano Pulcì Zengarini, che aveva velleità di disk jokey. Il microfono, incredibile ma vero, ce lo prestò Don Carlo che, dalla chiesa di San Liborio da poco costruita, sentiva la nostra musica e si preoccupava per le povere orecchie di Mariannina, la mamma di Mauro che ci ospitava e la cui soffitta avevamo trasformato in sala prove.

Con un solo microfono e Pulcì come tecnico del suono (pareva Alan Parson) registrammo il nastro che non venne niente male. Lo passammo spudoratamente anche in radio. Gli amici apprezzarono o, almeno, fecero finta di apprezzare. Decidemmo anche di cambiare nome: da Hammersmith passammo a Blizzard, perché eravamo tempestosi e freddi, proprio così.

Iniziammo a metter su un po’ di repertorio, nostro e altrui, ma Uliano manifestò ben presto l’intenzione di suonare la chitarra anche perché, onestamente, come solista io facevo piuttosto pena mentre lui aveva un’inclinazione naturale. Così comprò la sua Aria Pro II e appioppò il basso al nostro comune amicoRobertoNasini, che non ne aveva mai visto uno ma che, in brevissimo tempo, riuscì a suonarlo egregiamente.

Il gruppo funzionava bene: io, modestamente, come chitarra ritmica non ero affatto male e riuscivo facilmente a trovare gli accordi principali dei pezzi metal di cui volevamo fare le cover, Uliano riusciva a trovare gli assoli con facilità, e insieme, zigzagando sulla tastiera, riuscivamo a comporre pezzi nostri anche passabili.  

Nel frattempo Mariannina s’era arresa ai decibel e ci aveva cacciato dalla soffitta. Non potemmo biasimarla, la casa tremava mentre suonavamo. Uliano aveva una vecchia casa di campagna in fondo a via Fonte Pomarola. Era disabitata da anni ma ancora messa bene. Ci trasferimmo lì. La leggenda narra che da lì, essendo in fondo alla scarpata, la nostra musica, o il nostro rumore, arrivasse fin dentro il paese. Mia nonna confermava, circa il rumore.

Ricevemmo la prima scrittura sotto carnevale, che faceva un freddo becco. Una ragazza di Sant’Elpidio a Mare che veniva in corriera con noi, Federica, compiva gli anni e dava una festicciola per i suoi amici. Così ci chiese di suonare alla festa. La proposta ci lasciò perplessi perché l’heavy metal con una festa di compleanno di una ragazzina c’entra davvero poco ma lei insistette e alla fine accettammo. Eravamo in fibrillazione perché il repertorio era scarsino e l’idea di suonare davanti ad un pubblico ci spaventava e caricava allo stesso tempo. In quindici giorni provammo quotidianamente per affinarci e mettemmo su due o tre pezzi nuovi (ricordo che preparammo anche una versione riveduta e “scorretta” di Better than you better by me dei Judas Priest che in seguito depennammo dal repertorio).

   Alla festa portammo i nostri amplificatori, gli strumenti, e un piccolo mixer con le casse che Mauro s’era fatto comprare per Natale e ci faceva da impianto voce. Il cantante ora, grazie a Dio, era Uliano. C’erano una cinquantina di ragazzine che si aspettavano i Duran Duran e quando sentirono le chitarre distorte dissimularono a fatica la delusione. Ma alla fine andò bene, forse per la cortesia del pubblico. Toni, un amico di Federica che amava il rock, avrebbe compiuto gli anni anche lui dopo qualche mese e ci scritturò sul posto. Sant’Elpidio ci amava! Si si! Come no.

   Alla festa di Toni, in un garage bello grosso, non c’erano ragazzine ma un bel mucchio di omaccioni che volevano ballare. A metà del primo pezzo il garage si svuotò. Restò soltanto un ragazzo riccioluto appoggiato ad una colonna che si sorbì tutto il concerto. Alla fine si presentò: era Daniele Basili, quello che sarebbe diventato la voce dei Blizzard e il batterista di riserva (il Phil Collins de noandri). Daniele ci fece i complimenti – bontà sua – e si propose come cantante. Uliano non se lo fece dire due volte. Il sabato successivo era con noi a cantare nella casa di campagna.

   Decidemmo di fare noi una festa. A scuola eravamo nel pieno periodo demenziale di cui ho già raccontato e uno dei nostri modi di dire era “ma come?” detto con stupore di fronte a qualsiasi accadimento della vita. Questo modo di dire, diventato poi “macome” aveva preso piede anche al di fuori della cerchia scolastica. Per cui decidemmo di fare il “Macome Party”. Invitammo tutta la scuola e tutta Montegranaro. Ne vennero parecchi. La location era la casa di campagna in cui provavamo. All’interno si mangiava e ballava e all’esterno (era la fine di maggio) si poteva passeggiare sul prato. Avevamo adibito il terrazzino all’ingresso a palco e facemmo un concertino anche lì. Questo andò meglio degli altri e ci diede maggiore fiducia. Fu anche il debutto di Daniele al microfono e fu molto apprezzato.

   Arrivarono le vacanze estive e Mauro Cappelletti se ne andò in Inghilterra per la classica vacanza-studio con la scuola. Mentre lui era via ci arrivò, tramite amici del posto, la proposta di andare a suonare alla Festa dell’Unità di Tolentino. A PAGAMENTO! Ma eravamo senza batterista. Daniele si offrì di sostituire Mauro. Con la batteria se la cavava niente male. Uliano a malincuore si rese disponibile a rimettersi a cantare. Telefonammo in Inghilterra per sentire il parere del titolare del “rullante” e Mauro, da persona squisita quale è sempre stato, acconsentì con entusiasmo, solo dispiaciuto di non poter essere dei nostri per il primo vero esordio.

   Andammo a Tolentino con la Renault 5 di Daniele che fece due viaggi: uno per gli strumenti e uno per gli strumentisti. Dire che eravamo galvanizzati è poco. Avremmo dovuto suonare alle dieci di sera e alle dieci del mattino eravamo già lì a “montare il palco”. Dovevano suonare due gruppi: noi e un gruppo new wave. Per cui gli organizzatori  divisero il palco in due e noi prendemmo il lato di sinistra. Visto che eravamo lì di buon mattino gli organizzatori ci fecero montare anche l’impianto voce e le luci. Il gruppo new wave arrivò la sera alle sette, trovò tutto pronto e ci guardò pure in cagnesco. Il concerto andò molto bene e il pubblico rispose in maniera entusiasmante. Diciamo che fu un successo. Rischiai di uccidereRobertoNasini che, smontando gli strumenti alla fine, lasciò cadere un’asta dei piatti sulla mia chitarra ammaccandola leggermente, ma questa è un’altra storia. Ci pagarono pure e quello fu un momento commovente: trecentocinquantamilalire!!!! E noi che eravamo disposti a pagare di tasca per suonare.

   Da lì partì una specie di tour che andò avanti fino a settembre. Nel frattempo Mauro era tornato e s’era ripreso lo sgabello e Daniele il microfono. Suonammo a feste e raduni e passammo un’estate da rockstar. Con qualche incidente. A Villa Fermani c’era un raduno e l’impiantistica era fornita da un gruppo olandese che faceva metal come noi. Provammo di pomeriggio e tutto andava alla perfezione. La sera, quando toccò a noi, i nostri amici orange pensarono bene di farci fare una magra e staccarono le spie. Suonammo senza sentire quello che suonavamo e facemmo un disastro totale. Qualcuno ci fischiò pure. Pazienza.

   Arrivò l’inverno e finì la stagione dei concerti. Continuavamo a provare nella casa di campagna finchè un giorno che aveva piovuto per tutta la settimana entrammo in sala prove e trovammo gli strumenti che galleggiavano su trenta centimetri d’acqua. Con le vibrazioni della musica – evidentemente suonavamo davvero a basso volume – s’era spostato il tetto e veniva giù acqua in quantità. Dovemmo sloggiare. Mariannina, la mamma di Mauro, santa donna, ci riaccolse in casa acquistando una quantità industriale di tappi per le orecchie. Continuammo a provare nel garage di Mauro. L’anno dopo riprendemmo i concerti per feste dell’Unità e raduni rock. Chiudemmo la stagione alla Festa dell’Unità di Montegranaro e sfatammo il detto “nemo profeta in patria” perché andò piuttosto bene. Mangiammo dell’ottimo e doppante stoccafisso cotto a puntino da Renzo  e suonammo davvero bene. Il giorno prima, andando in Vespa, avevo fatto un ruzzolone strusciando il ginocchio destro sull’asfalto, bruciando i jeans e un bel po’ di ciccia tanto che sembrava di vedere l’osso sotto. Un male boia. Ma avevo il concerto il giorno dopo per cui feci finta di niente coi miei che volevano portarmi al pronto soccorso, mi medicai alla bell’e meglio e il giorno dopo andai regolarmente sul palco con la gamba destra che mi malediceva e il ginocchio bloccato dalla fasciatura. Suonai normalmente ma senza muovere un passo e questo nell’heavy metal non va bene. Infatti tra il pubblico c’era Eliseo Mozzicafreddo, mitico chitarrista degli Xenon, uno dei primissimi gruppi hard rock nelle Marche, che ci fece i complimenti ma mi rimbrottò perché disse: “non sei male ma sei statico”. Con lui c’era anche Massimo di Biagio, bassista degli Xenon, che ci prese a ben volere, venne spesso a sentirci provare e ci insegnò anche alcuni interessanti giri armonici.

   A ottobre organizzammo un raduno al teatro di Sant’Elpidio a Mare, con i Bumble Bee, mitico gruppo rockabilly di Filottrano, tutti ultra quarantenni con pancetta e camice a scacchi che suonavano da Dio, i Fata Morgana di Porto Sant’Elpidio che facevano rock leggero e reggae e un gruppo punk di cui ho rimosso il nome per quanto erano stronzi. Quasi riempimmo il teatro e fu una grande soddisfazione.

   D’inverno provammo e basta ma volevamo fare qualcosa di forte a Montegranaro. Così a maggio decidemmo di organizzare un raduno dietro le mura. Chiedemmo i permessi al comune che ci diede solo quelli: corrente e tutto il resto ce la dovemmo pagare da noi. Uliano ancora ricorda quanto m’incazzai col sindaco e che invettiva feci contro di lui all’apertura del concerto. Allora il sindaco era Gianni Basso, guarda guarda. Non sapevamo dove prendere il palco così ci facemmo prestare un’impalcatura da un’impresa edile. Il palco venne troppo alto, molto dondolante e con sbarre di ferro che fuoriuscivano da ogni dove. Ma andava bene così. Invitammo I Bumble Bee,  i Fata Morgana e il gruppo di Mauro Quarchioni. Il GTM ci prestò le luci e l’impianto voce fu fornito gratis dal Gruppo Fantasia, complesso folk e liscio che però non disdegnava un po’ di chitarre distorte ogni tanto se a suonarle erano altri. Il raduno andò benissimo. Ci presentammo tutti vestiti glam, truccati e pieni di brillantini.  La vergogna non ci apparteneva evidentemente.

   Fu l’ultima volta che suonai coi Blizzard. Quell’estate non prendemmo impegni. Mauro partì con la famiglia e stette fuori un bel po’. Ci chiamarono per la Festa dell’Unità di Montegranaro ma non avevamo mai provato per tutta l’estate. Io dissi che non sarei andato a fare figuracce a casa mia. Gli altri decisero di andare lo stesso anche senza di me. Fu la rottura. Senza litigi e senza traumi ma i Blizzard finirono lì. Fu abbastanza triste, la fine di un’epoca e di una fase della vita, anche perché coincise coi miei diciotto anni, con la patente e con molti altri cambiamenti nella mia vita. Stava iniziando la fase due, quella che qui non racconterò.


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