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“critica impura” e la responsabilità della scrittura

Creato il 05 novembre 2013 da Postpopuli @PostPopuli

 

di Luca Barbirati 

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“Critica Impura” e la responsabilità della scrittura. Intervista a Sonia Caporossi e Antonella Pierangeli

Se siete appassionati di letteratura, arte e filosofia e al contempo rifiutate percorsi regolari, Critica Impura lo conoscete già. Per tutti gli altri è il blog affidato alle impure cure di Sonia Caporossi e di Antonella Pierangeli.

A gennaio 2013 hanno pubblicato con Web Press Edizioni Digitali Un anno di Critica Impura, l’antologia del loro primo anno di militanza virtuale che ora è giunta ai tre anni. Visitando il sito, l’impurezza – anche come significante! – appare dominante, tale da richiedere una spiegazione. La struttura teorica delle due docenti romane è complessa, e spazia dall’epistemologia all’ermeneutica passando per l’estetica. Qui l’atto creativo del soggetto pensante esplode nella sua complessità. Ma che cos’è realmente l’impurezza?

Il loro Manifesto è composto da buio incandescente. L’impurezza, scrivono, “è l’attitudine a percepire il contrario del contrario per ritrovare l’identità scissa e frantumata del reale”. E aggiungono: “è l’imperterrito esercizio della ragione e della contraddizione, l’infinita capacità di ribellarsi nella mitezza dis-umana della testimonianza”, per concludere con una vertigine: l’impurezza è “decostruire il pregiudizio, la falsa morale, il categorema imposto, l’assolutismo concettuale, il perbenismo artistico, la rispettabilità accademica”.

L.B.: Cosa significa fare critica letteraria al tempo dei lit blog? Lo chiedo a Sonia Caporossi.

Sonia Caporossi: Significa darsi un’identità, distinguersi dal mucchio per una direzione ben precisa, per l’assunzione di un impegno, di un metodo valido e riconoscibile: nel nostro caso, esistono alcuni punti fermi teorici che abbiamo assunto come linee guida del nostro operare critico, ad esempio la centralità del testo non in senso strutturalista del termine, bensì nel senso continiano-filologico più immediato; la teoria che i generi letterari non esistono se non con intento meramente classificatorio, ma non hanno valore cogente nel giudizio sull’opera; la volontà di emergenza del sommerso contro le politiche editoriali vigenti; l’intenzione di demummificare e togliere dal piedistallo le istanze polverose della critica accademica, ma anche della critica militante, che non aspetta altro che il riconoscimento accademico, non distinguendosi così compiutamente dall’ambiente medesimo; e così via.

Inoltre, siccome oggi su internet può scrivere e farsi spazio davvero chiunque, fare critica letteraria al tempo dei lit-blog significa, per noi, essere sempre consapevoli che la propria preparazione teorica deve venire prima di qualsiasi vezzosità, presenzialismo o volontà di apparire; significa che un critico vero non può improvvisare, perché è in gioco la qualità intrinseca della propria ermeneusi, come si evince dalla “malattia del recensore”, che compare in modo sempre più evidente sulle pagine delle riviste letterarie online. C’è questo grosso equivoco che consiste nel pensare che la critica letteraria coincida, in qualche modo, con la capacità di parlare di un libro, di inquadrarlo in genere e specie e di descriverne trama e intenzioni. Alcuni pensano che basti così, che il cimento principale sia quello del trafiletto, delle duemila battute, spesso soggiacente al patetico do ut des in base al quale “se io ti recensisco poi tu parli di me” eccetera. Va da sé che, in questo contesto di favoritismi, non è nemmeno lontanamente concepibile non dico tanto la sana stroncatura, quanto l’onesta recensione negativa. Per fortuna ci sono diversi lit-blog e riviste online di qualità che si offrono al lettore con contenuti ricolmi di operatività e anelito all’indagine ermeneutica del circostante; cito ad esempio Le Parole E Le Cose, Il Primo Amore, Samgha, ma a titolo puramente esemplificativo.

L.B.: Nella seconda lezione di ‘Critica Impura’ Antonella Pierangeli parla di “responsabilità tremenda” dello scrittore. Che tipo di rapporto intercorre tra la “scrittura” “responsabilità” e “purezza” ?

Antonella Pierangeli: In questi anni letterariamente post-plumbei in cui si assiste, con strazio sempre maggiore, al prolasso di quella che Pasolini definirebbe “la coscienza critica di una nazione”, siamo preda di una confusa tragedia. Siamo inondati, sommersi, travolti, risucchiati in un pattumiera incontrollabile di discussioni, improvvisazioni, tenzoni e dialogoni che demoni queruli più o meno irritanti tendono a distillare, come pozioni per un sabba, nell’alambicco della realtà letteraria italiana. Veicolo spregiudicato, virale, irrimediabilmente democratico e assolutamente imprescindibile – non credevo sarei arrivata a dirlo, proprio io, neofita feisbucchiana per esigenze di blog e da sempre nemica del social patchwork – è la rete, questa Babele di praticanti della parola e al tempo stesso piazza vociante di tribuni della penna, a volte appassionati servitori dell’intelletto ma spesso anche logorroici parlatori, cementati in un florilegio che quindi affianca, per la sua natura onnicomprensiva, eroici combattenti che duellano strenuamente in difesa dell’insana passione di far parlare le cose “tra le macerie”, a intellettuali cimiteriali che strizzano l’occhio al sepolcro dell’avanguardia, praticando anatomia della nullificazione e spacciandola per cultura militante.

Per non parlare poi di quei languidi maître à penser post-tutto che, con maglione nero e occhialetti d’ordinanza in tinta, occhieggiano fascinosi dall’iconcina del diario, come l’esistenzialista di Gigi Proietti nella famosa gag. Dunque, in questi anni di morte civile della coscienza, sentire la “tremenda responsabilità della scrittura” diviene prerogativa essenziale del percorso fondante di ogni “soggetto scrivente”, per usare un sintagma suggestivo quanto efficace. Scrittura, responsabilità e conseguente purezza costituiscono infatti una triade dal micidiale potere identificativo che esclude immediatamente ogni forma di dilettantismo e approssimazione dalla galassia della Parola.

 

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Maurice Blanchot (da Wikipedia)

L.B.: Scrive Maurice Blanchot che la ragione per cui non si abbandona mai la scrittura è solo per “mettere qualcosa al riparo dalla morte”. Come spiegarsi il proliferare di blog individuali, multiautore, riviste, webzine, circoli e gruppi facebook? Si può ribaltare Blanchot e sostenere che oggi – tempo di scempio culturale – scrivere significa “mettere sé al riparo dalla morte”? (Da dove arriva tutta questa ansia di scrivere?)

Sonia Caporossi: L’ansia di scrivere, atavicamente, affonda le radici nella volontà di non scomparire, nel desiderio di lasciare qualcosa di sé ai posteri, e in questo senso Blanchot non fa che recuperare un’istanza tipica della poesia antica, che consiste in un topos letterario vecchio come il mondo. Maggiormente privo di nerbo risulta, invece, l’impulso al dibattito letterario spesso sterile dei critici, dei poeti e degli scrittori della domenica, che affollano soprattutto facebook. Ai dibattiti in rete io stessa ho spesso l’uso di partecipare, con un appassionamento tale che mi induce spesso a rielaborarne i contenuti per uno dei miei articoli. In realtà partecipo solo a dibattiti che risultino ben lontani dalla vis polemica conclamata, da “cazzimma” come direbbero a Napoli, perché preferisco le discussioni che vogliano andare dritte al punto e, soprattutto, aggiungere conoscenza al sistema informativo in atto, piuttosto che far solo rumore attorno ad un tema o un problema per mettere in risalto i dibattenti, piuttosto che il dibattito.

Ecco, mi piacciono le discussioni letterarie prive di un sapore più o meno scopertamente antilogico, sofistico, che sappiano, insomma, rem tenere senza essere sterili. Infatti, a mio parere, quando si ricorda il nome del polemista ma non l’argomento della polemica, oppure si ricorda l’argomento della polemica ma non c’è dietro ad essa un “rendere ragione delle cose”, ecco, lì si manifesta la morte della critica. Ma tant’è: un assunto impuro, di ascendenza pasoliniana, a cui volentieri ci ispiriamo, è quello dell’operare sul campo di battaglia; e se il campo di battaglia è facebook, tanto vale calarcisi per interagire a livello di coscienza, evitando le polemiche inutili e insensate.

Antonella Pierangeli: È vero, come ti dicevo prima, nel mondo fluttuante della rete alcuni scalpitano e scalciano nella palestra della critica, mostrando bellamente i muscoli in vetrina, fingendosi ermeneuti in un tripudio da stadio, ma altri invece sono onesti, appassionati, veri, sanguinanti di ardore, non si aspettano nulla e nulla chiedono, cercando volutamente di mettere blanchottianamente “qualcosa al riparo dalla morte” attraverso il corpo-parola della scrittura, spingendo in secondo piano il proprio individualismo, la propria corporativa ansia di apparire. Operazione, quest’ultima, di rara umiltà, che distingue i cavalli di razza dai centauri dopati dall’ormone della crescita egotica e che insedia nell’aorta il flusso ematico dell’impurezza.

Ecco, accade anche questo nell’effimera rete e dunque c’è, ci deve essere dell’altro, e non mi riferisco soltanto alla virtuale agorà. Oltre al presenzialismo ingenuo, e che devo dire mi suscita anche una certa tenerezza, di chi pensa di combattere l’oscurità, in cui la pochezza di idee l’ha relegato, postando in una sinfonia di click o semplicemente blaterando su tutto – e non lavorando umilmente senza aspettarsi piedistalli eburnei da cui sputare sulla testa degli intoccabili – e di chi, senza averne gli strumenti, armeggia incauto dalle parti della poesia, deve esistere una qualche forma di vita activa anche fra coloro che, a causa dell’impurezza, non sono collocati tra gli dèi.

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Ma come faccio ad avere questa approssimazione di certezza, io pessimista impura e impenitente che proporrebbe il rogo per il reato di arroganza intellettuale, opportunismo rapace, disprezzo per la bellezza in tutte le sue forme? La risposta è semplice: perché, nonostante tutto, sento abitare dentro di me la domanda che un personaggio dell’Idiota di Dostoevskij pone al protagonista, principe Myskin: ”…è vero che voi avete detto che la bellezza salverà il mondo?…” e subito dopo: “Quale bellezza? perché anche i nichilisti e gli assassini possono amare la bellezza”. Ecco, questo è il punto: la bellezza, l’arte, la scrittura, “il puro e l’impuro della parola” di klossowskiana memoria, possono salvare dal degrado etico ed estetico anche soltanto attraversandoci nel bagliore di un attimo, magari nascoste nelle pieghe di una verità umana che non ci sembrava possibile che potesse essere salvifica, e che mai avremmo pensato condivisibile. Una verità difficile che è sempre tensione, ricerca, inquietudine. Il contrario della falsa Bellezza superficiale, patinata, consolatoria, intimamente falsa che oggi stritola il mondo con la sua apparente facilità di agnizione. Dunque se le tenebre avanzano, qualcosa da salvare, da mettere al riparo oltre al proprio Ego, ci dovrà pur essere, nell’ingorgo letargico di bitume in cui la realtà culturale del nostro tempo giace. Certo che ci deve essere. Come dice De Andrè, “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior…”

L.B.: “Critica Impura” non è solo letteratura e filosofia. Vi si possono leggere molti interventi sul cinema, sulla storia, sulla musica, sulla società. Quale idea di Arte sta alla base di questa multidimensionalità?

Sonia Caporossi: Beh, potremmo andare kantianamente per esclusione. Ricordiamo tutti, ad esempio, l’idea di origine veteroromantica, che esista una sorta di comunione delle Arti e delle Lettere che faccia capo ad un unico concetto di aisthesis trasversale e condiviso, e ricordiamo tutti come questa idea sia stata anche giustamente messa da parte in nome della morte del Soggetto all’interno del Novecento filosofico, artistico e letterario. Eppure, purificandola da tutte le ingenuità concettuali del caso, occorre forse riconsiderare quanto di buono ci fosse nella concezione di un’istanza comunitaria, universalmente condivisibile, del sentimento estetico, in tempi in cui le arti sembrano soffrire di afasia e autismo linguistico e semiotico proprio a causa del decentramento del Soggetto.

Ogni forma d’arte ha una sua peculiarità tipologica di natura archetipica, che la distingue dalle altre, ma è appunto una differenziazione di natura estetica, ovvero ogni arte si fonda, in primis, su motivazioni, impulsi e modi di sentire diversi: chiamasi “forma”. La declinazione delle arti non consiste semplicemente in una differente modalità di espressione di un unicum su cui tutte comunitariamente si dovrebbero fondare, nella fattispecie lo Spirito Umano, come volevano ingenuamente i romantici, bensì ne esprime differenti forme soggettive, laddove invece il contenuto può essere oggettivamente qualsiasi cosa; e questo rende anche più chiara la motivazione in base alla quale, ad esempio, all’interno della letteratura per noi non ha senso, significato né valore in senso estetico e critico la distinzione in generi.

La poesia detiene la sua forma, la prosa ne detiene un’altra, la musica un’altra e così via; ciò che cambia, appunto, è il contenuto, e i generi letterari, musicali, artistici eccetera non identificano, a ben vedere, che questo, essendo la forma sovrastante. Ciò rovescia la concezione tradizionale, giacché il concetto di genere, nella nostra idea, non riguarda più l’aspetto formale, bensì quello contenutistico dell’opera d’arte. Ad esempio, se dico “cinema horror” non sto classificando la forma, bensì il contenuto di un film, in quanto la forma cinematografica è sovrastante e indipendente dalle varie declinazioni di essa che ne esprimono il contenuto (cinema romantico, noir, di fantascienza ecc.).

Siamo convinte che ogni arte sia peculiare quanto alla forma, e che dunque è alla forma, in primis, che lo sguardo estetico, sia del critico che del fruitore, deve rivolgersi. Quanto al resto, le sezioni del blog rispecchiano i nostri interessi personali fino in fondo, interessi davvero multiformi che fatichiamo a tenere a bada e che sorgono direttamente da queste concezioni estetiche radicate. Nonostante io, ad esempio, abbia cominciato la mia attività critica proprio con la musicologia, fin dalla metà degli anni Novanta, dalle pagine cartacee della rivista specializzata Musikbox, mi sono successivamente dedicata alla filosofia, alla letteratura, alla poesia, alla critica letteraria e d’arte, tanto che la rubrica di musica su Critica Impura ultimamente langue un poco, pertanto stiamo prendendo provvedimenti. Infatti, il 20 ottobre per la precisione – sia detto per inciso – su Radio Centro Musica è tornata Moonstone, la mia storica trasmissione di musica alternativa e letture poetiche che riscosse grande successo sei anni fa e della quale faremo puntuali report su Critica Impura.

 

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Geroges Bataille (da Wikipedia)

L.B.: Una critica globale. Un’impurezza globale. Ma qual è l’inconscio del blog? In altre parole, il vostro è un progetto per una ‘nuova critica’ con determinate caratteristiche oppure – con Georges Bataille – un “dispendio senza impiego”, ossia un sovvertimento dello status quo senza a sua volta volersi far canone?

Antonella Pierangeli: Il desiderio d’impurezza che ci sovrasta, e s’incarna nella forma inconscia del blog, eccede la visione personale per geometrizzarsi in un percorso di conoscenza testuale che conduce dal piacere quasi fisico della carne alla sideralità incandescente della pagina. Per noi critici impuri la globalità della nostra analisi porta con sé il godimento panico della creazione artistica che trasfigura la vita, annienta l’essere e indirizza alla calma folgorante di quello che Derrida chiama “l’inorganico testuale”: al limite dell’esistenza, la scrittura si pone infatti come lo spazio vuoto della luce che sfonda la retina, della stella-sole che irradia energia con l’esuberanza e la gloria tipiche della sovranità della bellezza, quella sovranità nella quale Georges Bataille ha certo ravvisato il senso più profondo dell’agire umano e della forza di eversione interpretativa e di sovvertimento che tale agire ha prodotto a livello immaginativo.

Dunque sovvertimento e impurezza sono le parole che, a nostro avviso, meglio tematizzano la sideralità dissonante che pertiene all’esperienza della scrittura e della critica globale che noi, con pasoliniano “imperterrito esercizio di ragione”, pratichiamo. Potremmo chiamare l’oggetto del nostro pensiero critico irrappresentabile impurezza, che non è infatti, banalmente, ciò che non può essere rappresentato ma ciò che, nella rappresentazione, ne forza i limiti fino a frammentarne il senso per aprirsi sulla vertigine dell’impensabile, dell’immediato, dell’indicibile, del fuori genere. Forzare i limiti significa infatti per noi porsi ed esporsi sui limiti stessi, per calpestarli con la violenza del senso di ciò che essi racchiudono.

Se infatti c’è qualcosa che condividiamo con Bataille, è proprio la convinzione che l’eccesso di senso produca la letteratura dell’innominabile, che dal suo punto di vista è la vera letteratura e che, per noi che lavoriamo alla ricerca di tali forze nascoste, costituisce un impegno di ricerca immenso. Questo inconscio impuro – come lo chiami giustamente tu – che ci portiamo dietro, incastrato come direbbe De Andrè tra l’aorta e l’intenzione, segue dunque un itinerario oculare che, hegelianamente, parte da una tesi volta a delineare le tappe e i discorsi (foucaultianamente parlando, le pratiche discorsive) dell’impurezza estetica del blog e di noi critici impuri, per poi giungere ad un’antitesi antidiscorsiva in cui è il testo, la follia dell’illuminazione estrema a far da padrone.

La sintesi è inevitabilmente evidente: il textus non è mai esaurito, ma in continua evoluzione, e chiama in causa, con ciò, qualcosa di muto, qualcosa di non precisamente verbale, ma tuttavia pregnante, talmente ricco e significativo da rendere mute anche le pratiche discorsive teoriche. Così intesa, l’impurezza può allora presentarsi come il particolare percorso espressivo attraverso cui si è potuto realizzare un viaggio testuale, segnatamente immaginifico e sensibile, ma sorretto sempre da una sfibrante riflessione di tipo estetico, se è vero che Critica Impura intende porsi anche come percorso riflessivo e descrittivo volto a indagare la portata filosoficamente e analiticamente feconda della nostra ricerca estetica.

In particolare, possiamo trovare un comune terreno di partenza e d’interesse in ciò che Merleau-Ponty definiva come “mondo anteriore alla conoscenza”. Questo si rivela insieme, oltre che come senso stesso dell’attività critica globale e di una relativa riflessione, come possibile terreno di confronto e di apertura per riflettere, descrivere e condividere il lavoro letterario e critico che della brutalità del fatto sensibile ha cercato di fare, in ultima analisi, la cifra stessa della sua peculiare logica della sensazione.

Ecco che l’impurezza estrema della nostra critica globale può divenire un modo per sperimentare, anche sul terreno del “pensiero”, quanto si è inteso significare attraverso la ricerca letteraria: il textus cioè, mai esaurito, ma che continua a offrirsi all’interpretazione, la pagina che si configura dunque, nella lettura impura, come scena di scrittura, luogo di esposizione della differenza testuale senza mai la santificante canonizzazione in genere, e rivela al suo interno l’azione della disseminazione, ossia l’estrema dispersione del genere, che caratterizza l’intrinseca ricerca testuale e ne organizza l’indeterminatezza della dimensione semantica per sfociare poi nella consapevolezza estetica.

 

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