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Cronistoria del conflitto israelo-palestinese (parte terza)

Creato il 03 giugno 2013 da Ilcasos @ilcasos

Pubblichiamo una cronistoria del conflitto israelo-palestinese di Alessandro Peregalli, che ringraziamo. Tale lavoro, modificato e qui proposto in tre parti, è già apparso su La.P.S.U.S. con il titolo Israele – Palestina: cento anni di conflitti.
Buona lettura con la terza parte, qui la prima parte e la seconda.

Il conflitto israelo-palestinese dalla prima intifada ad oggi

Pietre contro i fucili. Dalla crisi dell’Olp allo scoppio dell’Intifada

L’Olp stava vivendo un momento di difficoltà, diviso com’era tra fazioni contrapposte, frustrato da obiettivi ultimi che avevano il sapore dell’utopia (dall’«eliminazione del sionismo dalla Palestina», obiettivo ufficiale fino al 1974, alla costituzione di uno Stato palestinese di dimensioni ridotte, obiettivo successivo), costretto ad agire in esilio ma a rappresentare allo stesso tempo i palestinesi della diaspora e quelli dei territori, guidato da dirigenti corrotti. Il leader Yasser Arafat, inoltre, avrebbe perso credibilità internazionale rendendosi protagonista di scelte politiche fallimentari, come quella di appoggiare l’invasione irachena del Kuwait nel 1990 e il putsch comunista contro Gorbacev nel ’91. Per di più, dopo la cacciata dalla Giordania e l’invasione israeliana del Libano, l’Olp dovette rifugiarsi in un paese lontano come la Tunisia.

Repressioni durante la prima intifada

Repressioni durante la prima intifada, Gaza, 1988

I palestinesi sembravano quindi allo stremo, ciò nonostante nel 1987 scoppiò la Prima Intifada (dall’arabo, «ribellarsi»). L’episodio che l’accese, come per la Grande rivolta, fu marginale: in dicembre un autocarro israeliano urtò e uccise a Gaza quattro lavoratori palestinesi. Scoppiarono immediatamente rivolte ovunque. Ovviamente le vere ragioni della rivolta erano ben più profonde, dall’esproprio della terra alle discriminazioni nel lavoro, dalla politica degli insediamenti alla repressione messa in atto da Israele. I ribelli palestinesi erano perlopiù giovanissimi, venne creata una dirigenza della ribellione (l’Olp era screditato), e si creò una divisione informale del lavoro. Simbolo dell’intifada furono le immagini, che fecero il giro del mondo, di ragazzini che muniti solo di pietre e fionde affrontavano i carri armati. Il ministro della difesa israeliano Yitzhak Rabin comandò di spezzare loro le braccia. La barbarie della repressione fu tale che circa 600 soldati israeliani si rifiutarono di prestare servizio nei territori. L’intifada si sgonfiò nel 1992, quando la dirigenza dell’Olp, nella posizione di dover ottenere un risultato politico per riuscire a far fronte alla concorrenza dell’islamismo radicale di Hamas (un movimento formatosi nelle associazioni caritative e religiose e che emerse politicamente durante l’intifada, vicino alla Fratellanza musulmana egiziana e al movimento libanese anti-israeliano Hezbollah, che si opponeva all’Olp in quanto non condivideva la soluzione dei due stati), incontrò a Oslo una delegazione del nuovo governo laburista di Rabin, che era appena diventato premier con la promessa di trovare una via d’uscita al pantano.

Yitzhak Rabin e Yasser Arafat, con Bill Clinton alla cerimonia per la firma degli accordi di Oslo, 13 settembre 1993

Yitzhak Rabin e Yasser Arafat, con Bill Clinton alla cerimonia per la firma degli accordi di Oslo, 13 settembre 1993

La nascita dell’Autorità nazionale palestinese

Con la fine della guerra fredda e il «Nuovo ordine mondiale» di Bush senior, si chiuse anche la fase arabo-israeliana del conflitto: per la prima volta israeliani e palestinesi si confrontavano direttamente. Se è vero che l’accordo riuscì a portare l’Olp fuori dall’angolo, è vero anche, come sostennero molti critici palestinesi, che in quella sede Arafat accettò, con il riconoscimento ufficiale di Israele, di perdere definitivamente l’80 per cento della Palestina storica. Da parte sua, Rabin fu più ambiguo, in quanto non riconobbe formalmente il diritto ai palestinesi ad avere uno Stato. I risultati di Oslo furono il ritiro israeliano da Gaza e Gerico e la nascita dell’Autorità Nazionale Palestinese. Solo nel 1995 furono stabiliti i poteri di tale organismo e fu divisa la Cisgiordania in tre zone: A, totalmente controllata dall’Anp, B parzialmente governata dall’Anp, e C (dove tra l’altro stavano le colonie), ancora sotto controllo israeliano fino ad ulteriore negoziato definitivo. Gli israeliani ottennero inoltre di ampliare «tangenziali» di collegamento tra le loro colonie, dalle quali furono escluse le automobili palestinesi, con evidenti ripercussioni sulla loro libertà di spostamento.

La crisi del processo di pace

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu (sinistra) ed il ministro della difesa Ehud Barak (destra)

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu (sinistra) ed il ministro della difesa Ehud Barak (destra)

Nonostante questi accordi non prevedessero la nascita di un vero e proprio stato palestinese e tutelassero la posizione di forza di Israele, a fine 1995 un estremista ebraico assassinò Rabin perché «voleva dare il nostro paese agli arabi». Sei mesi dopo divenne premier il candidato del Likud Benjamin Netanyahu, contrario ad Oslo. Il processo di pace fu stemperato e ridotto al minimo, mentre da parte palestinese Arafat faceva fatica a tenera a bada i contrari a Oslo, in primis Hamas, che ricominciarono con gli attentati. Anche quando in Israele tornarono al governo i laburisti, le cose non cambiarono: il premier Ehud Barak incontrò Arafat a Camp David, nel 2000, e gli fece una proposta non suscettibile di negoziato; Arafat, ovviamente, rifiutò. Intanto in Cisgiordania Israele aveva ormai espropriato 200 km di terra, realizzato 30 nuovi insediamenti, ampliato i precedenti (dove venne impedito l’ingresso a 200 000 lavoratori palestinesi, rimpiazzandoli con immigrati) e costruito 500 km di tangenziali, mentre l’Anp controllava di fatto solo il 18 per cento del territorio. Frustrazione e miseria palestinese (metà di coloro che abitavano nei territori viveva con meno di due dollari al giorno) furono le cause della Seconda Intifada.

La seconda intifada

L’episodio che l’accese fu la provocazione del candidato del Likud Ariel Sharon (che avrebbe poi vinto le elezioni) che, il 28 settembre del 2000, scortato da 1 000 guardie del corpo, fece visita alla spianata delle moschee di Gerusalemme, indirettamente rivendicandola come luogo di culto ebraico per la presenza antichissima del tempio distrutto dai romani. Il giorno dopo, gli israeliani repressero una manifestazione palestinese facendo quattro morti. Il risultato fu una terribile campagna di attentatori suicidi. Tra il 2000 e il 2005 terrorismo e repressione fecero 4 000 morti, ma 3 000 di essi furono palestinesi; gli israeliani distrussero abitazioni e terreni, istituirono posti di blocco e interruppero i rapporti economici con i palestinesi, ma nonostante ciò i riflettori mediatici di tutto il mondo puntavano solo sul terrorismo palestinese.

Demolizioni di case palestinesi a Nablus, Cisgiordania

Demolizioni di case palestinesi a Nablus, Cisgiordania

Intanto, nell’estate del 2001, una conferenza dell’Onu sul razzismo equiparò per la prima volta sionismo e antisemitismo, e ribadì il diritto inalienabile dei palestinesi a darsi uno Stato; Usa e Israele boicottarono la conferenza. In soccorso del sionismo vennero però gli attentati alle Torri Gemelle e l’inaugurazione della dottrina della Guerra al terrorismo, che polarizzò nuovamente il mondo e collocò Israele dalla parte dei «buoni». Bush definì Sharon «uomo di pace» e gli diede carta bianca per l’«Operazione scudo protettivo», con cui venne rioccupata tutta la Cisgiordania, mettendo lo stesso Arafat, ormai residente a Ramallah, agli arresti domiciliari: il leader palestinese sarebbe morto poco dopo, in circostanze sospette (è possibile che sia stato avvelenato).

Il muro di Gaza e la nuova repressione israeliana

Intanto gli israeliani cominciarono a costruire un muro divisorio al confine con i territori, muro che però non seguì la divisione armistiziale del 1949 ma che penetrò nei territori occupati, annettendo oltretutto l’intera Gerusalemme a Israele (ben peggio, quindi, del muro di Berlino), e creando nuovi «fatti sul campo» in vista di un nuovo eventuale processo di pace.
Poi, nel 2004, Sharon annunciò il ritiro da Gaza. Non si trattava di un controsenso con la sua politica aggressiva, ma della rinuncia a un territorio ostile, immiserito e sovrappopolato dove 50 000 soldati dovevano proteggere 7 500 coloni. Israele, però, continuò a controllare lo spazio aereo, la costa, i confini e il commercio tenendo i palestinesi residenti in stato di assedio. La gran parte del Likud, nonostante ciò, si oppose al disimpegno, e Sharon costituì così il partito centrista Kadima, assieme all’ex laburista Shimon Peres. Poco dopo fu colpito da un ictus cerebrale e gli successe Ehud Olmert.

Verso l’espansione delle colonie: una politica d’aggressione?

Il muro a Betlemme, ricorrente elemento del panorama in Israele e Palestina

Il muro a Betlemme, ricorrente elemento del panorama in Israele e Palestina

I confini arbitrari definiti dal muro, intanto, diventarono definitivi, e le colonie in Cisgiordania crebbero a dismisura, con danni e difficoltà sempre maggiori per i palestinesi. Il malcontento di questi ultimi, rafforzato da un alto tasso di corruzione della classe dirigente della principale forza politica Al-Fatah, e da suo un atteggiamento considerato troppo moderato, si espresse, nelle elezioni di inizio 2006, in una vittoria degli islamisti di Hamas, che ottenne 72 deputati su 132 al Parlamento palestinese. Il radicalismo montante si fece sentire ancora di più quando, in estate, Hamas ed Hezbollah scatenarono una serie di attentati da Gaza e Libano. Israele rispose con bombardamenti a tappeto; il bilancio delle vittime fu di 300 civili palestinesi, 1 200 libanesi e 44 israeliani. Nel frattempo per l’Olp, dopo la vittoria di Hamas, arrivò una sorta di embargo economico e diplomatico dall’occidente: Bush non rinunciò però a dialogare con il leader di Fatah e presidente dell’Anp Abu Mazen e convocò quest’ultimo e Olmert ad Annapolis, nel 2007, ottenendo da entrambi un generico assenso a una Road Map americana.

L’operazione «Piombo Fuso»

Bombardamenti al fosforo a Gaza, 2009

Bombardamenti al fosforo a Gaza, 2009

La situazione, però, precipitò ulteriormente nel dicembre 2008 quando Israele, per reazione al nutrito lancio di razzi che gli venivano lanciati da una Gaza ridotta allo stremo, condusse nella striscia l’offensiva militare chiamata «Piombo fuso». A quel punto Hamas scatenò la Terza Intifada. La ripercussione politica che tutto ciò ebbe in Israele fu un sensibile spostamento a destra, anche estrema, degli elettori: alle elezioni del 2009, infatti, si affermò una coalizione guidata dal leader del Likud Netanyahu, che comprendeva altri partiti minori ortodossi e anche chiaramente fascisti, come nel caso di Israel Beitenu, del ministro degli esteri Liebermann. Il nuovo governo proposte subito un nuovo programma di colonizzazione della Cisgiordania, con la costruzione di 73 000 nuove case, raddoppiando il numero di coloni e creando ulteriori «fatti sul campo» per allontanare ulteriormente la prospettiva di una pace basata sulla coesistenza di due stati; il muro venne ampliato, furono spostati fondi dallo stato sociale di Israele a quello delle colonie, per incentivare il ceto medio-basso di recente immigrazione dall’Europa dell’est a trasferirsi nelle colonie. E tale colonizzazione si concentrò ancor più nella Gerusalemme est palestinese, dove si trova la Città Santa. Sono tuttora continui i trasferimenti di ebrei in questa parte della città, le confische, i divieti di edificazione per i palestinesi, l’apartheid sempre più accentuata.

Lo Stato palestinese e la strada del riconoscimento internazionale

Il 31 ottobre 2011 è avvenuto un evento importante, e non solo simbolico, con il quale l’Anp ha potuto rispondere ai «fatti sul campo» della colonizzazione sionista con un suo «fatto sul campo»: il riconoscimento dello stato palestinese da parte dell’Unesco. È stato il primo caso di riconoscimento da parte di un’agenzia dell’Onu, e i vantaggi che questo comporta sono reali: in primo luogo, la Palestina può ora richiedere la registrazione di alcuni siti di alto valore storico e culturale all’interno dei Territori, contrastando la loro annessione da parte israeliana e inoltre ha la possibilità di adire alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia e di avvalersi dei trattati internazionali relativi alla protezione dei diritti umani. Ovviamente le reazioni non si sono fatte attendere: Israele ha immediatamente congelato il trasferimento di tasse e dazi riscossi nei Territori che, secondo accordi di Oslo, si era impegnato a versare all’Anp; Israele e Usa, inoltre, hanno interrotto i loro finanziamenti per l’Unesco, facendo perdere a quest’ultimo il 22% del proprio budget.

Voto dell'UNESCO sull'ingresso della Palestina (clicca per ingrandire)

Voto dell’UNESCO sull’ingresso della Palestina (clicca per ingrandire)

Quale futuro?

Ciò che è avvenuto successivamente è quello che ha riempito le cronache degli ultimi mesi: il nuovo successo diplomatico palestinese che ha ottenuto l’accettazione come stato non membro dell’assemblea delle Nazioni Unite, l’inasprimento della situazione a Gaza, le elezioni israeliane che hanno confermato Netanyahu ma che hanno ulteriormente rafforzato le componenti della destra populista e fascistoide. Tutto questo è avvenuto mentre, a livello geopolitico, la tensione sempre più accentuata tra Israele, potenza nucleare di fatto, e Iran, nuovo polo del panislamismo radicale e in procinto di dotarsi dell’energia nucleare, potrebbe da un momento all’altro passare dalle parole ai fatti. Sulla pelle dei palestinesi.

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