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Croste di formaggio.

Creato il 07 gennaio 2012 da Enricobo2

L'amica Bruna, ha richiamato la mia attenzione, commentando il post dell'altro giorno La stufa di ghisa, su un particolare apparentemente marginale, ma che oggi mi va di approfondire, essendo finito il periodo delle feste e data anche l'emergenza economica che preme e che consiglia di badare anche alle cose povere. Sto parlando della crosta di formaggio grana. Il mio ricordo che si accompagnava alla grande stufa, che allora si chiamava cucina economica, era squisitamente sensoriale, legato ad un profumo che si spandeva nell'aria quando sentivi quel leggero sfrigolare dell'oleosità che, essudata dalla crosta, ungeva la superficie di ghisa rovente, rendendo il quadratino a poco a poco più morbido e croccante, seguito da quel sapore sapido e pieno che ti riempiva la bocca allo sbocconcellare lento e consapevole. Una sorta di slow food ante litteram, vero però e non ricoperto dalla fuffa supponente di chi vuol ricoprire di valore inesistente il nulla teobiologico. Ma non era questo il solo modo di utilizzare quel prezioso residuo alimentare. Infatti la sua morte precipua era quella di essere messa a cuocere assieme al brodo per la minestra o meglio ancora la pasta e fagioli, regina ultima dello scarto di maiale. La meravigliosa cucina basata sulla filosofia dell'utilizzo degli scarti, che ha creato sua maestà l'agnolotto, così come tutta la serie delle polpette et similia
La crosta cuoceva per ore all'interno della pentola di coccio, sobbollendo lentamente con la leguminosa del momento, fagiolo o cece, o l'ancora più delizioso dolicum (detto qui fagiolino dall'occhio, legume ormai praticamente scomparso, ma inopinatamente noto ai ragazzi solo più come gruppo funky- pop, i Black eyed peas) che unito alla cipolla bianca dava una delle minestre più deliziose che io ricordi. Mentre riempiva di sapore il piatto e ne aumentava allo stesso tempo la consistenza e la gamma di sensazioni organolettiche, si trasformava pian piano da duro scarto difficile da scalfire a delicato particolare, ricco di una sua gommosità densa e perfetta che la trasformava da brutto anatroccolo in ambita reginetta della festa, della quale ognuno voleva ghiottamente assicurarsi il pezzo più grande. Non era facilissimo pulirne accuratamente la parte esterna, in quanto allora il Parmigiano, che non veniva spazzolato durante la fase di invecchiamento, si ricopriva di una patina di muffa protettiva nera, che doveva essere tolta grattandone la superficie con cura. Il mio papà, che aveva avuto un passato di ciabattino, utilizzava un trincetto affilatissimo che si era costruito da solo, una lama più tagliente di un rasoio, a cui, data per scontata la mia sbadatezza, mi era vietato anche il semplice avvicinarmi. La rasava con cura ed attenzione, rimirandola alla luce della finestra per controllarne lo stato finale e riprendendola più volte fino a che con aria soddisfatta la dichiarava ufficialmente pronta per la pentola, passandola a mia madre. Ma ci fu anche un altro utilizzo della crosta di formaggio. 
Infatti, credo richiamandosi ad una tradizione familiare antica, nel mio periodo infantile cosiddetto della dentizione, la suddetta crosta mi fu legata al collo con una cordicella passante per un buchino fatto con la lesina, per tutto il periodo in cui, pare che i bimbi, sentendo una sorta di prurito gengivale provocato dalla voglia dei dentini di fuoriuscire,  mordano tutto quello che arriva a tiro delle loro piccole fauci. La dura crosta polita con la sua sapidità ammiccante, pareva essere un invito irresistibile per l'infante mordace che allo stesso tempo appagava la sua sensazione di buono e otteneva una rapida ed indolore fuoriuscita di dentini sani ed affilati. Non riesco assolutamente a ricordare questo passaggio fondamentale della mia prima infanzia. Ricordo solo gli odori e i sapori di quella casa, di quella cucina calda, di quella luce bassa e giallina della piccola lampadina centrale da 40 candele. Mi piacerebbe riprovare quella sensazione, ma non c'è più la stufa di ghisa, né il trincetto da ciabattino, né il fagiolino dall'occhio e forse neanche il tempo e la voglia di farlo cuocere per ore. E poi non c'è più neanche il mio papà a guardare soddisfatto la crosta lucida e la mia mamma che la immerge nel brodo ammiccando, come a dire "Vedrai come sarà buona". Così anche questa crosta di parmigiano che insisto a rivoltare tra le mani, finirà nel sacchetto dell'organico.
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