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Da Tucholsky a Canetti: fenomenologia di un gioco spietatamente banale

Creato il 19 gennaio 2013 da Sulromanzo

[Articolo pubblicato sulla Webzine Sul Romanzo n. 5/2012 Intellettuali e Potere]

Kurt Tucholsky, Elias Canetti
Per un intellettuale esistono tanti modi di relazionarsi al potere.
Esistono modi semplici, solitamente scelti dai più, che equivalgono a un adattarsi supino a certe imposizioni, ma anche alternative più coraggiose, che consistono nel provare a opporglisi e a mettere in guardia il mondo dalle trappole che il potere
crea, necessariamente, per autoalimentarsi.
Per appartenere al secondo gruppo bisogna essere coraggiosi, come già detto, ma non basta: serve soprattutto la capacità di guardare il mondo con lucidità, accompagnata da una forza di volontà intrecciata a un qualcosa che qualcuno chiamerebbe ottimismo, ma che, in realtà, è solo incapacità di concepire la resa, anche di fronte all’orrore.
Una capacità che sicuramente aveva Kurt Tucholsky. Nato nel 1890 a Berlino, Tucholsky è stato uno scrittore, un poeta e un giornalista graffiante, corrosivo, apprezzato, seppur da pochi, per i suoi brillanti scritti, nei quali sosteneva l’esigenza di «spazzare via dalla Germania, con una granata di ferro, tutto questo marciume». Oggetto dei suoi attacchi era, e ciò non sorprenda, la Germania del primo dopoguerra, una società uscita con le ossa rotte da un conflitto nel quale la “missione civilizzatrice” del popolo tedesco aveva dovuto soccombere sotto i colpi di antagonisti malvagi. Convinzione, questa, sempre più diffusa, assieme alla  leggenda della “pugnalata alla schiena”, quella che, secondo molti, era stata inflitta da un nemico interno al Secondo Reich quando la guerra stava ormai per essere vinta. Mentre il nuovo governo guidato dai socialdemocratici tentava timidamente di rimettere in piedi il Paese, nessuno pareva accorgersi che «lo spirito tedesco era intossicato quasi senza speranza di recupero»: se n’era accorto Tucholsky. Nel periodo che va dal 1919 al 1933, quello che coincide con la  Repubblica di Weimar, Kurt Tucholsky continuò la sua attività collaborando con varie testate giornalistiche, alle quali proponeva articoli (firmati con curiosi pseudonimi come Theobald Tiger Worte, Ignaz Wrobel, Peter Panter e molti altri), coi quali sbeffeggiava non tanto il potere di allora, quanto coloro che, di lì a poco, ne avrebbero preso possesso con la violenza più disumana e il sostegno della maggioranza dei tedeschi. Deridendosistematicamente ogni forma di patriottismo, arrivando a dire che tutto ciò che era tedesco era stupido a priori, Tucholsky provava insistentemente a denunciare le violenze crescenti della Destra, la brutalità della guerra, la pochezza umana di coloro che volevano salire alla guida del Paese.

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