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Debolezza politica e strategie inadeguate segnano ancora la vicenda Marò

Creato il 05 aprile 2013 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR
Debolezza politica e strategie inadeguate segnano ancora la vicenda Marò

Con il ritorno dei Marò in India, la conseguente “liberazione” del nostro Ambasciatore e l’imminente (così pare, perlomeno) costituzione della Special Court che, come previsto dalla sentenza 18 gennaio 2013 della Corte suprema indiana, esaminerà la controversia al posto delle Corti del Kerala, la vicenda politico-giudiziaria iniziata a febbraio 2012 entra in una nuova fase.

Già sostenemmo le ragioni italiane nella vicenda (vedi). Torniamo quindi a ripetere che le norme internazionali sull’immunità (funzionale) degli organi statali dalla giurisdizione straniera individuano come unica giurisdizione competente quella italiana, perché essendo l’atto compiuto dall’organo nell’esercizio di funzioni pubbliche (acta iure imperii) un atto dello Stato, esso resta esente, per evidenti ragioni di politica internazionale, dalla giurisdizione straniera (anche quando leda beni o persone stranieri). Non conta, quindi, dove l’atto sia stato compiuto (se in territorio straniero o in acque internazionali) tanto che, correttamente, la nostra Corte di Cassazione dichiarò il difetto di giurisdizione italiana nei casi Cermis e Calipari a favore degli Stati Uniti. Per individuare la giurisdizione competente, quindi, conta solamente se l’atto incriminato sia ascrivibile all’esercizio di potestà statali. Orbene, il contrasto e la repressione della pirateria è senza dubbio un atto iure imperii dato che l’attività si realizza con strumenti e potestà tipiche della sovranità statale (uso della forza, personale militare, etc.) e, inoltre, è anche “internazionalizzata” dal Consiglio di Sicurezza (che, considerando la pirateria una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionali, ha adottato diverse risoluzioni in tema) e dagli stessi Stati che, numerosi, svolgono, da soli o mediante l’UE e la NATO, missioni antipirateria. Il profilo dell’immunità funzionale è quindi l’unico che individua la giurisdizione competente ed assorbe ogni altra questione, compresa quella del locus commissi delicti.

Sin dall’inizio, l’Italia avrebbe dovuto invocare con fermezza il rispetto dell’immunità funzionale dei due Fucilieri e pretendere che le Corti indiane si pronunciassero preliminarmente solo su questo aspetto senza entrare nel merito della controversia. Purtroppo, oltre alla minore ‘potenza’ italiana rispetto all’India, varie ragioni (la difficoltà di provare un regime giuridico fondato in gran parte su norme non-scritte; l’enorme risonanza politico-mediatica che l’infondata equiparazione tra immunità dalla giurisdizione ed impunità dalla legge ha avuto sull’opinione pubblica indiana; le scontro politico tra maggioranza ed opposizione in India, etc.) hanno, di fatto, indebolito questo argomento giuridico nel negoziato tra Roma e Nuova Delhi, costringendo così l’Italia, da un lato e giuridicamente, a far piuttosto leva sul diverso (ma solo apparentemente più fondato) profilo della sussistenza della giurisdizione italiana anche ai sensi della Convenzione del 1982 sul diritto del mare (Convenzione UNCLOS) e, dall’altro e politicamente, a tenere un basso profilo (considerato dall’India come prova della nostra debolezza) incentrato sulla ricerca di una soluzione politica mediante il dialogo.

Come detto, la Convenzione UNCLOS non garantisce però con ragionevole certezza (né in astratto, né in concreto) la pretesa italiana di esercitare in modo esclusivo la giurisdizione penale. In astratto, è vero che la Convenzione, in alto mare (il fatto è avvenuto nella «zona contigua» indiana ma, per le questioni di giurisdizione penale, si applicano comunque le regole valide in alto mare), riconosce allo Stato di bandiera sia il diritto ex art. 97 di intraprendere «azioni penali o disciplinari» nei confronti del «comandante della nave o di qualunque altro membro dell’equipaggio» (ammesso, e non concesso, che i militari a bordo delle navi mercantili in missione antipirateria possano comunque considerarsi «membri dell’equipaggio»), sia il diritto ex art. 94, par. 7, di aprire «inchieste» anche quando il fatto «abbia causato la morte o lesioni gravi a cittadini di un altro Stato», ma è altresì vero che la Convenzione riferisce tali diritti al caso di «abbordo» e di «qualunque altro incidente di navigazione» (art. 97) oppure agli incidenti «in mare o di navigazione» (art. 94, par. 7). Non ci sembra, però, così scontato che il fatto contestato ai Marò rientri in queste definizioni della Convenzione. Anzi, su tale possibile equiparazione, la Corte suprema indiana, nella sentenza di gennaio, si è già mostrata molto scettica e non si vede perché l’istituenda Special Court dovrebbe poi discostarsi da questo primo orientamento.

In concreto, poi, la pretesa di vedere riconosciuta la giurisdizione italiana si infrange sulla lettura a dir poco unilateralista dei rapporti tra diritto interno e diritto internazionale prospettata dal Governo indiano e, in parte, già accolta dalla Corte suprema nella sentenza di gennaio 2013. Il Governo, infatti, sostiene che, in base al Maritime Zones Act indiano del 1976, la giurisdizione penale dell’India si estende all’intera Zona Economica Esclusiva, ZEE (cioè fino a 200 miglia dalla costa), e che, in caso di contrasto, il diritto interno prevale sulla Convenzione UNCLOS (che invece limita l’esercizio della giurisdizione penale dello Stato costiero al solo mare territoriale, salvo casi eccezionali e tassativi tra i quali non rientra comunque quello dei Marò). Dal canto suo, la Corte suprema, pur distinguendo, a differenza del Governo, i poteri dello Stato costiero nella zona contigua e nella ZEE, ha comunque confermato sia la piena giurisdizione indiana nella zona contigua (in contrasto con quanto invece previsto dalla Convenzione) che l’applicazione della Convenzione solo quando «there is no conflict [with] the domestic law» (§ 101) a dispetto dei principi fondamentali del diritto internazionale. Senza entrare nel merito di questa discutibile (per il diritto internazionale) ricostruzione dei rapporti tra ordinamento interno ed internazionale, vi è comunque che, date le premesse, vi sono poche speranze che le pretese italiane fondate sulla Convenzione (e sulla sua primazia rispetto al diritto interno) trovino ascolto presso la Special Court.

A quel punto, come prefigura la stessa Corte suprema indiana, resterebbe solo la possibilità di convincere la Special Court che i Fucilieri agirono per rispondere ad un atto di pirateria onde poter poi invocare l’applicazione dell’art. 100 della Convenzione che sancisce l’obbligo per gli Stati di esercitare la «massima collaborazione per reprimere la pirateria in alto mare». Nelle intenzioni italiane, l’art. 100 legittimerebbe l’avvio di consultazioni tra i due Stati alla ricerca di una soluzione (politica o giudiziale che poi sia) piuttosto che il processo dinanzi alla Special Court indiana. I rischi di una simile strategia sono però evidenti. Ammesso e non concesso che si riesca a convincere la Special Court dell’applicabilità dell’art. 100, il suo generico contenuto non garantisce poi che la (a quel punto) acclarata “questione di pirateria” venga affrontata da un tribunale italiano o (almeno) da un tribunale internazionale (nella sua sentenza anche la Corte suprema è stata ambigua ed elusiva sulle conseguenze concrete di un simile eventuale accertamento). Anzi, visto il complessivo approccio giuridico e giudiziario delle Corti indiane alla vicenda, non stupirebbe un’interpretazione per così dire «giurisdizionalmente orientata» dell’art. 100 da parte della Special Court nel senso di ritenere adempiuto l’obbligo indiano di «massima collaborazione» proprio attraverso l’istituzione della stessa Special Court, cioè di un Tribunale che, già a detta della Corte suprema indiana, è particolarmente idoneo a dirimere una questione così delicata politicamente e controversa giuridicamente.

Incidentalmente, infine, si noti come, a dispetto di quanto affermato in certi ambienti politici e mediatici italiani, la sentenza della Corte suprema indiana non è un “riconoscimento” delle nostre ragioni. La Corte, infatti, si è solo limitata a trasferire il caso dagli organi giurisdizionali locali del Kerala a quelli centrali dell’India, riconoscendo comunque la giurisdizione indiana (anche nella sua illegittima applicazione nella zona contigua), ignorando l’argomento dell’immunità funzionale dei Fucilieri e rimettendo le parti dinanzi ad una Special Court che, salvo l’improbabile applicazione dell’art. 100 (ammesso e non concesso che la sua applicazione produca poi le conseguenze auspicate dall’Italia), deciderà comunque sulla base del diritto penale indiano e (sempre che non contrasti con quest’ultimo) anche della Convenzione UNCLOS. Considerando il poco conciliante atteggiamento indiano e i presupposti appena indicati, la strategia giuridica (far leva in prevalenza sul regime della Convenzione piuttosto che sull’immunità funzionale dei Marò) e giudiziaria (scendere nel merito della questione dinanzi alle diverse Corti indiane) dell’Italia appare infelice ed infruttuosa.

Invece di cercare di convincere il giudice indiano della (indubbia) fondatezza della nostra posizione, si sarebbe dovuta subito (e, tanto più, una volta rientrati in Italia i Fucilieri) iniziare una controversia contro l’India dinanzi alla Corte internazionale di giustizia de L’Aja (e non dinanzi al Tribunale UNCLOS di Amburgo perché, si ripete, il punto giuridicamente dirimente non è chi abbia giurisdizione nella zona contigua in base alla Convenzione, ma chi abbia giurisdizione sugli atti iure imperii di un organo dello Stato, ovunque commessi, in base al diritto internazionale generale) per individuare la giurisdizione competente ai sensi del diritto internazionale delle immunità (e non del diritto penale indiano indebitamente applicato extra territorium) e, con l’occasione, chiedere pure conto, da un lato, delle inaudite violazioni del diritto internazionale generale e pattizio commesse in danno prima dei Fucilieri e poi del nostro Ambasciatore e, dall’altro, della peculiare interpretazione che l’India offre dei propri obblighi internazionali sanciti dalla Convenzione UNCLOS.

Senza entrare nel merito della questione, si sarebbe così esposta l’India al pubblico ludibrio di un giudizio internazionale (come, a suo tempo, fece il Nicaragua con gli Stati Uniti per le attività dei contras) in cui l’India si sarebbe dovuta difendere con argomenti giuridici ben poco “internazionali” e, quindi, ben poco rassicuranti per gli altri Stati (ad esempio, l’infondata pretesa di esercitare la giurisdizione oltre il mare territoriale rende incerta la navigazione marittima di tutti gli Stati tanto quanto l’affermata prevalenza del diritto interno sugli obblighi internazionali rende incerti i complessivi rapporti tra gli Stati). È vero che l’India avrebbe potuto (legittimamente) rifiutare il contraddittorio dinanzi alla Corte ma è anche vero che un simile rifiuto sarebbe diventato un buon argomento politico da spendere in una società internazionale che ormai considera la “risoluzione pacifica delle controversie” (tanto più per via giudiziale) come la parola d’ordine dei rapporti internazionali.

Una decisa azione giudiziaria internazionale avrebbe reso il “nostro” problema anche un problema di tutti gli altri (nella misura in cui certi atteggiamenti ed interpretazioni unilaterali dell’India mettono a rischio la certezza dei rapporti internazionali) e, a quel punto, avremmo probabilmente ricevuto un sostegno effettivo a livello internazionale, a cominciare da quell’Unione europea che, ancora dopo l’inconcepibile ordine rivolto dalla Corte suprema al nostro Ambasciatore di non lasciare l’India (di fatto, una revoca della sua immunità a ‘garanzia’ del ritorno dei Fucilieri!), continuava a ripetere di non essere parte nella disputa.

La complessiva vicenda non consente comunque di concludere (come agli amanti dei luoghi comuni e a qualche miope “commentatore” piace invece fare) che il diverso trattamento riservato agli Stati in ragione della loro “potenza” politica, militare ed economica dipende dalla coincidenza del diritto internazionale con il “diritto del più forte” (se non quando con la “legge della giungla”), ossia con la non-law professata da John Austin e da John Bolton. Una simile conclusione è, infatti, infondata nella misura in cui non tiene conto che: a) esistenza ed applicazione della norma giuridica sono aspetti distinti (una norma, pur inapplicata in un caso, continua comunque a esistere); b) in una società anorganica (ma non anche anarchica) come quella internazionale, l’applicazione del diritto è rimessa all’autotutela individuale o collettiva dei soggetti più o meno direttamente lesi (dal punto di vista giuridico) ed interessati (dal punto di vista politico) dalla controversia; c) la maggiore o minore capacità di agire in autotutela (e di ricevere sostegno dagli altri Stati) dipende dalla “statura” internazionale dello Stato.

Il problema, allora, è proprio che, sin dall’inizio, l’Italia si è mostrata oggettivamente debole in ragione di una “statura” non all’altezza di una società internazionale sempre più interdipendente. Il punto, quindi, non sta tanto nel gettare la croce addosso al Governo Monti (che di errori ne ha comunque compiuti; si pensi, da ultimo, alle oscure giustificazioni per il mancato rientro in India dei Fucilieri, prima, e per la loro restituzione, poi) quanto nel prendere atto (per cercare poi, se possibile, una soluzione di lungo periodo) che, per quasi tutta la nostra Storia, quasi tutti i nostri Governi ogni volta che si sono trovati in situazioni del genere hanno avuto ben poche opzioni tra cui scegliere. E questo perché il numero di opzioni a disposizione di uno Stato per affrontare una crisi dipende anche dalla sua “potenza” nelle relazioni internazionali, laddove essere “potenti” non significa solo essere aggressivi e/o militarmente ed economicamente predominanti ma anche (e soprattutto, in un mondo globalizzato) essere autorevoli, credibili e affidabili sulla scena internazionale: in una sola parola, essere (ed essere considerati dagli altri) come “seri”. Si tratta di qualità che, sovente, non abbiamo mostrato di possedere a sufficienza (perlomeno agli occhi degli altri Stati) e che dovranno essere “acquistate” in dosi massicce dai Governi che verranno se, nel lungo periodo, vorremo essere meno deboli a livello internazionale e, quindi, più rispettati dagli altri Stati. Probabilmente, il conto da pagare per il loro acquisto sarà talvolta salato: magari, e tanto per cominciare, coinciderà proprio con il prezzo di qualche importante commessa internazionale.


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