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Dell’improvvisazione: Bergamo Jazz 2013

Creato il 23 marzo 2013 da Scribacchina

Ieri, prima delle tre serate di concerti al Bergamo Jazz 2013: non potevo mancare, considerato che c’erano Roberto Gatto e il mio adoratissimo Fabrizio Bosso. Che è sì uno straordinario trombettista, ma anche un gran bel vedere, come sicuramente concorderanno le solite lettrici:

Fabrizio Bosso

Unica pecca: troppo inflazionato, ormai è dappertutto. Pure al Festivàl nazionalpopolare di Sanremo era sul palco, pronto ad abbellire una canzone non propriamente interessante.

Ricapitolando: Fabrizio Bosso con Roberto Gatto all’interno del Dino & Franco Piana Septet, formazione guidata da Piana padre e figlio. Completavano l’organico Luca Mannutza al piano, Giuseppe Bassi al contrabbasso e Max Ionata ai sax.
Gran bella scoperta, Ionata; avevo sentito parlare di lui in diverse occasioni, ma per pigrizia non avevo ancora sentito suoi lavori, nonostante me lo riproponessi ciclicamente. E brava Scribacchina pigra, ora sai cosa ti perdevi.

Un concerto di quelli con la C maiuscola: non me ne voglia Gregory Porter che si è esibito subito dopo, ma se tutta la serata fosse stata dedicata alla famiglia Piana sarei stata molto ma molto più contenta.
Bosso merita a prescindere: vai a sentire lui con la certezza che sarà in grado di regalarti momenti di pura emozione, in un range che va dalla malinconia più cupa all’allegria più solare passando attraverso dolore urlato, rabbia esplosiva, gioia cantata a squarciagola. Sentirlo improvvisare insieme a Ionata è stato un momento di jazz supremo, uno di quelli che ti restano dentro e che difficilmente dimenticherai.
Poi, come sempre, de gustibus non disputandum est.

Musica a parte, nel buio del solito Teatro Donizetti ragionavo – tra un solo di Bosso e uno di Gatto, ben raccolta sulla mia seggiolina rossa in platea – come in questi giorni il tema dell’improvvisazione sia un argomento che incontro in maniera piuttosto ricorrente. O forse sono io che ci faccio più caso.
Con improvvisazione non intendo ovviamente l’improvvisazione strumentale tout-court: mi riferisco anche e soprattutto all’affrontare le situazioni della vita con un approccio fantasioso, rapido nel raccogliere le idee, pronto a rimescolarle come si fa con un mazzo di carte e proporle in maniera adeguata, a seconda delle necessità del momento (ma anche del proprio gusto).

Ripenso ai due spettacoli di ieri sera (Dino & Franco Piana SeptetGregory Porter) e noto come col tempo cambia il gusto per l’improvvisazione. Sarà che sto invecchiando, ma mi rendo conto che certi improvvisatori non riesco più a digerirli: parlo di quei musicisti che arrivano all’esasperazione, che inanellano note su note in un gioco senza senso, senza continuità logica apparente, a velocità non umane.
Temo di far parte di quella categoria di ascoltatori meno inclini ad apprezzare taluni tecnicismi fini a se stessi.
Mi chiedo: dov’è finita l’improvvisazione su tema? Dov’è finita la scelta (fatta col cuore e con la testa) delle note? Dov’è finita la grazia nel proporre quelle frasi emozionanti che ti lasciano senza fiato? Dov’è finito il piacere di gustare sulla punta della lingua le pause, attimi di piacere che evidenziano e impreziosiscono i fraseggi?
Il riferimento, per chi c’era, è a Yosuke Satoh (sassofonista di Porter), godibile sì ma fino a un certo punto. Temo sia stata anche colpa sua se l’osannato Gregory Porter non mi ha impressionata più di tanto.

Stasera il festival prosegue con il quintetto di Giovanni Guidi e l’Hermeto Pascoal Group; credo che darò buca.
Non mancherò invece domani sera: ci saranno Uri Caine, Han Bennink e John Scofield col suo Organic Trio.
Corre voce che i biglietti siano ben più che esauriti.
Se volete corrompermi per avere il mio, scordatevelo.

Buona serata, soliti lettori.
E buon ascolto

;-)


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