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Diari di viaggio – Africa – 2° parte

Creato il 25 maggio 2012 da Giornalismo2012 @Giornalismo2012
Dakar

-Di Carmen Gueye

Un bel giorno la mia vita cambiò, ma proprio radicalmente. Ero una donna sola. Cosa fa una donna sola e non più ragazzina dalle nostre parti? Si iscrive ai corsi di latino americano, frequenta i seminari di discipline new age, esce la sera e cerca magari un compagno.

Era l’8 settembre del 2001 (notare la data), quando conobbi un uomo africano, incontro a cui non diedi peso.  In seguito però la situazione cambiò in una certa direzione e mi ritrovai sposata con lui. L’ho fatta breve, ma non fu facile. Non avevo i fondamentali per quella esperienza e soprattutto per capire a fondo, con i miei strumenti, il continente che tanto mi intrigava e anche un po’ spaventava. Speravo di farcela con la mezza cultura che avevo accumulato fino a quel momento: mi informai, lessi, guardai documentari, mi inoltrai nelle arti locali, approfondendo ovviamente quella del paese del mio sposo, il Senegal.

Primo impatto dopo quella immersione enciclopedica: infatuazione. Colori, sorrisi, bimbi belli, ritmi inebrianti,  ricordi dai libri di scuola, sensazione di libertà dalle ingessature del nord del mondo, calore umano, confronti tra usi e costumi. Ero ammirata dal loro rispetto per la famiglia e i genitori, che non vedevano per anni, confrontato al nostro abituale pretendere senza dare; dall’entusiasmo nel parlare della patria lontana, quando qui al massimo ci si ricorda del posto dove si vive solo ai mondiali di calcio; e anche da quelle lingue misteriose, senza alcun aggancio a una radice comune.

Gli impegni di lavoro, le preoccupazioni della vita quotidiana, anche una certa stanchezza che l’età a volte porta con sé, mi fecero esitare, finché il gran giorno venne; un po’ tardi, ma arrivò.

Ricordavo vagamente quando, anni prima,  avevo attraversato i cieli dell’Africa orientale e a malapena ogni tanto si intravedevano luci delle grandi città e poco d’altro; l’esperienza si ripeté. Sorvolammo il nordafrica dopo lo scalo a Tripoli. Ore di ritardo si erano accumulate aspettando una coincidenza, ma non volevo perdermi un minuto. Come era buio, lì sotto! Certo, niente centri commerciali , insegne o qualcos’altro che intervenisse a segnare il territorio: una densità scura e irreale sembrava introdurre nel cuore del mondo. Non un alito di vento s’ intuiva e, si presumeva, scarso doveva essere il traffico dei velivoli: l’aereo filava come un razzo.

Scivolai nel sonno. Al risveglio, i passeggeri che ritornavano in Senegal davano segni di eccitazione e io pure, in verità:

Diari di viaggio – Africa – 2° parte
l’ora stava per scoccare. All’appressarsi a Dakar, lì, mi dissi, un po’ di luci dovevano segnalarci la metropoli. Mica tanto. Atterrammo più o meno nell’oscurità quasi totale, l’aeroporto si presentò all’improvviso. Avevo solo il bagaglio a mano, dunque scesi di corsa e respirai intensamente: qui le stelle erano ancora più grandi e facevano dimenticare lo sgomento per l’assenza di luminarie, che poco prima mi aveva un poco deluso.

Ecco subito l’intoppo: il maledetto modulo da compilare. Ma non potevano darcelo in aereo, come si fa ovunque? Meglio non lamentarsi, dopo diciotto ore in viaggio, via con la penna, moduletto sul muro perchè non c’è un angolo di ripiano dove appoggiarsi e via!

Ero a Pikine, una banlieu di Dakar, quartiere dal tono tutto sommato di mezzo, tra il centro e le sterminate periferie della megalopoli “che non dorme mai”. Personalmente, dormii poche ore, troppo era il desiderio di aprire gli occhi e vedere.

Erano le sei, che poi sarebbero state le otto in Italia. Andai sulla terrazza, mi sgranchii, guardando il cielo rosa, immaginando il brulichio sotto l’affastellarsi di case strette le une alle altre, quando mi arrivò, lenta, insinuante una litania oscura sulle prime, poi sempre più chiara: il muezzin! Mi era già capitato altrove di essere sorpresa da quel suono, per esempio al Gran Bazar di Istanbul, dove la voce, potente, ti trasporta di botto nella dimensione di qualche vecchio film, ma qui…era diverso.

Compresi in quel momento, con la rassegnata disperazione di chi capisce che ha perso qualcosa di irrecuperabile, quanto l’abbandono alla novità, alla cultura altrui, alle parti inesplorate dell’anima, siano atteggiamenti da acquisre presto, nella vita, o l’alternativa rimane quella che appunto stavo vivendo io: un’ebbrezza dei sensi, uno stordimento utile a respingere il passato che tornava e le ambasce della vita di tutti i giorni, quella dove non manca niente, ma cedere è debolezza.

Infatti, mi mancava qualcosa, delle infradito che scioccamente avevo dimenticato di portare nella mia piccola valigia. E fu già un’impresa trovarle: mica scendi al supermercato, no. Dovetti girare un po’, contrattare sul prezzo, e faticare a far accettare l’euro: ah l’Africa, bella ma…

Nell’occasione partecipavo a un seminario per il Nobel alle donne africane e ci condussero in un centro culturale, ma mica uno di quei grandi alberghi tutti vetri, no. Una cosa alla buona, uno spiazzo con il tendone, e uno stanzone interno dove si mangiava per terra. Da locali, insomma: che bello, mi sentivo dentro la storia e non semplice visitatrice.

Era più forte di me: guardavo quelle signore nei loro splendidi costumi e i bambini…che tentazione. Riuscivano a sorprendermi: più allegri, più sorridenti, vogliono una foto, ma poi solo riverdicisi, sono tornata alla mia infanzia, eppure anche qui girano cellulari e digitali, ma non per tutti. Riesco ad acchiapparne una dopo essermi ingraziata la giovane madre e le numerose parenti, me la fanno prendere in braccio. Non me ne stacco più, mi chiedono: la vuoi portare con te? Magari…


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