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Diego Zandel: la mia Kos

Creato il 05 gennaio 2014 da Luoghidautoreblog

untitledFra i luoghi più cari a Diego Zandel vi  è l’isola greca di Kos che lo scrittore visita regolarmente ogni anno dal 1969: «la mia vacanza a Kos gira tutta intorno alle prime ore pomeridiane, quando il tempo è dedicato alla lettura» così afferma l’autore sul suo sito; il legame con l’isola è in effetti fecondo e produttivo, lo testimonia anche la pubblicazione dei romanzi “L’uomo di Kos” (Hobby&Work 2004) e “Il fratello Greco” (Hacca 2010) ambientati proprio a Kos. Di recente Diego Zandel ha ripubblicato il romanzo “Massacro per un presidente” (EDIT-Il Ramo d’Oro editore) ed attualmente si sta dedicando ad un nuovo progetto letterario, un lavoro autobiografico su Kos. Qui di seguito  siamo molto felici di potervi proporre il primo capitolo di questo nuovo lavoro di Diego Zandel e vi invitiamo a visitare il sito www.diegozandel.it e a leggere la nota qui in fondo per la bibliografia completa dell’autore.

La mia Kos

di Diego Zandel

Arrivai per la prima volta a Kos nel luglio del 1969. Avevo ventun’anni. Ci arrivai dal Pireo,  a bordo di un piccolo piroscafo bianco dal nome Sebastiana, in compagnia di Anna, con la quale ero ancora fidanzato, di suo fratello Sebastiano, e della loro madre Despina, mia futura suocera, originaria dell’isola. Al contrario del traghetto Aphodite della Med Sun Lines, che, in ventidue ore di navigazione,  da Brindisi, attraverso il canale di Corinto, ci aveva portato al Pireo,  capitammo sul Sebastiana per caso. Da Roma, dove vivevamo, non c’era la possibilità di prenotare un viaggio su linee di navigazione interne alla Grecia,  una difficoltà che, in parte, esiste ancora oggi. Pertanto, potemmo farlo solo dopo essere sbarcati al Pireo, rivolgendoci a un’agenzia qualsiasi, scoprendo che il primo piroscafo per il Dodecanneso era, appunto,  quel Sebastiana, in partenza ormai il giorno dopo, alle 14,30 e  con il quale saremmo giunti a destinazione il mattino successivo. In pratica, tra la sosta al Pireo e le oltre 19 ore di navigazione che ancora ci restavano, per arrivare a Kos da Roma ci volevano quattro giorni, calcolando anche il viaggio, che facemmo in treno, per Brindisi.

Fino all’anno precedente esisteva invece, addirittura, una linea diretta Brindisi-Kos, con tappa finale Rodi, della quale Anna e la sua famiglia si erano sempre serviti.  Era un viaggio lunghissimo, sempre attraverso il canale di Corinto, con la nave che partiva alle dieci di sera della domenica e arrivava a Kos il mercoledi all’alba, per cui, se non si era ben attrezzati, ovvero con la disponibilità di una cabina, la traversata con la sola sistemazione “ponte”,  era durissima.

Due anni dopo, il viaggio al quale partecipai anch’io, in parte fu diverso, anche perché riuscimmo a prenotare per tempo una cabina da quattro cuccette sulla Aphrodite.  Quel tratto, pertanto passò liscio (in un taccuino che conservo d’allora annoto che “il viaggio è stato molto bello, ho letto cento pagine di Vino e pane di Ignazio Silone, mentre navigavamo su un mare calmo”).

Era evidente che sul Sebastiana, senza cabina e viste le 19 ore di navigazione che avevamo davanti, sarebbe stato diverso.

Quella notte, intanto, in attesa del nuovo imbarco, dormimmo al Pireo in una pensione nei pressi del porto che, ci rendemmo ben presto conto – per il tipo di personaggi che vi albergavano, compresa la padrona, dal forte gusto per le allusioni – era il passaggio di amori mercenari o, comunque, clandestini. Di quel luogo conservo una collanina di piccole farfalle in filigrana che in precedenza una donna, spogliandosi – immagino con il suo amante – aveva dimenticato, appesa alla maniglia della finestra della camera che ci fu assegnata.

La mattina dopo, in attesa dell’imbarco,  andai alla scoperta del Pireo, assaporando per la prima volta, nell’animazione delle strade, nelle offerte dei negozi, negli odori, nelle musiche mescolate ai rumori e alle voci, nella lingua sconosciuta,  un mondo che mi avrebbe preso il cuore. L’unica cosa che mi disturbava era la massiccia presenza dei simboli della dittatura militare che vigeva in quel periodo, dopo il colpo di stato dei colonnelli del 21 aprile del 1967: lo stesso porto del Pireo era sovrastato dal simbolo del regime: la fenice che risorge dalle fiamme con la scritta, in grande, 21 aprile.

Sul Sebastiana  non era più disponibile nessuna cabina, neppure col water in comune com’era capitato sul piroscafo Brindisi-Pireo. Ci dovemmo accontentare, pertanto del ponte, come era capitato ad Anna e al padre due anni prima, anche se per noi si trattava del sacrificio di una notte soltanto. Anche così però, a parte la oggettiva scomodità, non  fu agevole sistemarci alla meglio per il fatto che il ponte era sovraffollato. Non c’era un angolo disponibile. La confusione poi era al massimo, perché ciascun passeggero cercava di occupare, disponendo coperte sul pavimento della tolda, gli spazi più ampi per sé ed eventuali famigliari o amici. Così, facendo leva un po’ sulla gentilezza di qualcuno, Anna e mia suocera riuscirono a trovare un buco, mentre io e Sebastiano in qualche modo ci arrangiammo  alla meglio, trascorrendo il tempo per lo più in piedi.

Di quella folla, ricordo in particolare un giovane che aveva con se una grande gabbia con degli uccellini, e un pope, nel suo nero abito talare e la barba lunga, con moglie e figli piccoli intorno. Quasi tutti gli uomini poi avevano in mano una sorta di rosario che appresi chiamarsi komboloi.  Il mio desiderio di visitare la nave fu subito abortito dalla costatazione che la tolda rappresentava la terza classe e che una rete separava le varie classi, per cui non avevo altro spazio che quello destinato ai viaggiatori di terza in cui muovermi.  Sul ponte c’era un piccolo punto ristoro, dov’era possibile mangiare anche piatti caldi. Lo strimpellare del bouzouki aleggiava ovunque. Partimmo, non immaginando quanto divertente, non meno che estenuante, fosse quell’ultima parte del viaggio che mi avrebbe portato a toccare i porti di tante isole prima di approdare a quello di Kos.

Divertente,  perché nel volgere di poche ore era sorto spontaneo un certo cameratismo tra i passeggeri, con chiacchiere che finirono per coinvolgermi pur essendo a digiuno della lingua greca. Fu in quella circostanza che, dichiarandomi italiano, udii per la prima volta la frase che, più o meno storpiata, avrei sentito ripetuta ad ogni incontro con un greco: “Italiano-greco, una faccia, una razza”.

Naturalmente, lì a bordo, mi davano una mano nei dialoghi Anna e Sebastiano che, oltre naturalmente a mia suocera, il greco lo parlavano bene. Mi divertiva in particolare un uomo, magro e con i baffi, dall’aria del contadino (“Mi ricorda zio Giorgio” mi avrebbe detto Anna)  che la sera – stazionando quasi sempre davanti al punto ristoro e con qualche birra in corpo – si era messo a ballare da solo quello che avrei appreso col tempo essere uno zebetiko.

Comunque, fu un viaggio estenuante, per le tante ore in piedi, col sole a picco,  nella monotonia  della navigazione. A un certo momento, nonostante le diverse distrazioni – tra queste la salita a bordo, ad ogni porto, di ambulanti che si facevano notare gridando la merce che vendevano, per lo più pistacchi, arachidi, dolciumi – a un certo momento mi scoprii stanchissimo. Il tempo sembrava non passare mai. Non avevo neppure la possibilità di leggere, come m’era capitato nel primo tratto, Brindisi-Pireo, riempiendo parte delle lunghe ore di viaggio con la lettura del romanzo di Ignazio Silone, “Pane e vino” che m’ero portato dietro insieme a “La nausea” e a “Il muro” di Sarte, tutti nelle edizioni Oscar Mondadori.  Sulla Sebastiana, pur  se fossi riuscito a trovare un posto, mi sarebbe stato impedito dal beccheggio della nave che a un certo momento, nel cuore della notte  diede il via a un crescendo di vomiti, tra cui anche quello mio, del tutto inaspettato, perché fino ad allora ero convinto di reggere bene il mare. Subito dopo, la ricerca di un posto in cui distendermi divenne così disperata da lasciarmi andare sul duro pavimento della tolda nel l’unico posto che trovai,  lungo una fiancata del ponte a pochi centimetri dal parapetto.

Mi addormentai per quel tempo breve che servì un po’ a ritemprarmi, mentre già sorgeva l’alba di un nuovo giorno che mi avrebbe introdotto alla luce di un paradiso azzurro.

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Erano le prime ore del mattino, con il sole comunque già sfolgorante, quando arrivammo a Kos. Fu subito dopo la sosta all’isola satellite di Kalimnos.  Mia suocera si sentiva già a casa. Lasciato quel porto, affacciati sul parapetto, guardavamo  la lunga costa di Kos, col profilo del monte Dikeo, sul cui costone, sottostante la cima più alta, si adagiavano le bianche case di quello che avrei saputo essere il villaggio natio di mia suocera: Asfendiou, la nostra mèta.

Ormai non vedevo l’ora di sbarcare.

Pensavo a uno dei soliti approdi, con l’entrata in porto, l’attracco alla banchina, la discesa lungo la passerella. Nessuno mi aveva detto che il porto di Kos non aveva sufficiente pescaggio neppure per accogliere un piroscafo di così piccole dimensioni quale era il Sebastiana. In quel lontano 1969 non era stato ancora dragato il fondo e costruita fuori del porto la banchina che avrebbe consentito l’attracco anche ai traghetti più grandi. Così, per la sabbiosità della zona, doppiato il Faro, ovvero punta Skandari, con un giro così largo da arrivare quasi alle acque limitrofe della dirimpettaia Turchia,  la nave si fermò al largo di Kos. Ben presto vedemmo avvicinarsi diverse scialuppe con a bordo barcaioli che presero a scambiare grida piuttosto agitate con i marinai a bordo del Sebastiana.  Mi chiesi chissà  quali problemi erano in discussione tra le due fazioni, per poi apprendere che quello era il modo consueto dei greci di comunicare tra loro. Furono gettate le ancore e, su un lato della fiancata, venne calata una scaletta che finiva dritta in mare, tra i flutti, lasciando intendere che era quello il punto in cui saremmo sbarcati. E, in effetti, così avvenne, mentre sotto la scaletta si alternavano le scialuppe che, mosse dalle onde, accoglievano i passeggeri. Quando arrivò il nostro momento, carichi ciascuno di bagagli, facemmo altrettanto, non senza provare, nel fatidico momento del salto dalla scaletta alla scialuppa,  il timore di non prendere le misure giuste, rischiando il classico tonfo. Un timore  ben vivo soprattutto in mia suocera che piccolina di statura e non proprio donna di mare, sorrideva imbarazzata della propria diffidenza nei confronti del barcaiolo che, tendendole la mano, la incoraggiava al salto.

La mia sensazione fu da subito quella di star vivendo una meravigliosa avventura. E ne ebbi conferma poco dopo, quando con la scialuppa – in un’atmosfera di festosa amicizia che si creò tra noi e il barcaiolo -  sfilammo accanto alle mura del Castello dei cavalieri che dominava l’ingresso al porto, entrando nel racchiuso emiciclo  che lo comprendeva. Sbarcammo sulla riva,  tra pescherecci all’ormeggio, davanti  a una fila di case basse, bianche, riparate dalle fronde di platani giganteschi. Si trattava di  edifici dallo stile oriental-veneziano, mentre sullo sfondo si ergevano un paio di minareti che mi fecero subito pensare a scenari da mille e una notte.

Ma ci sarebbe stato tempo di conoscere la città.

La prima preoccupazione fu quella di trovare un taxi, cosa non difficile, visto che la stazione di questi si trovava proprio lì, sulla riva, a due piedi dal castello, sotto la piccola scalinata che portava alla moschea Hazi Kassani.  Uno degli uomini seduti a chiacchierare fuori dall’ufficio, all’ombra dell’ultimo platano della riva, tra tazzine di caffè e snocciolare di komboloi,  si alzò prontamente non appena ci vide arrivare carichi di bagagli.  Era piccolo, calvo e con i baffetti. Ci indirizzò a una grossa automobile,  uno di quei cassoni americani, agghindati di tendine orientaleggianti sia sul parabrezza che sul lunotto posteriore e un komboloi appeso allo specchietto retrovisore, per poi aiutarci  a riempire il portabagagli. Quando gli dicemmo che volevamo andare ad Asfendiou  si mostrò un po’ contrariato.

“Petra, petra” spiegò, aggiungendo qualcosa che Anna mi tradusse: “La strada per arrivarci non è asfaltata, è sassosa e per le gomme della macchina un problema”.  Comunque, chiuse il discorso abbassando deciso, quasi fosse arrabbiato, il cofano del portabagagli.

Noi ci sistemammo a bordo, io davanti, accanto all’autista, nonostante la presenza di una signora come mia suocera, gli altri dietro, imparando così da subito che in Grecia, nella Grecia di quei tempi almeno, il posto d’onore spetta all’uomo.  E ci si mosse, tra chiacchiere, musiche e canzoni che uscivano dall’autoradio a buon volume.  Intanto, i mie occhi avidi, preso nota delle icone di un paio di madonne e fotografie di bambini  attaccate sulla plancia dei comandi, si misero a guardare fuori mentre la macchina, percorsa la riva e infilata una via trasversale che ci allontanava da essa, usciva dall’abitato. Ben presto imboccò una strada stretta, a dorso d’asino, che avrebbe attraversato longitudinalmente l’isola, in mezzo a una campagna bruciata dal sole, mentre il mare, di un azzurro intenso, appariva a una certa distanza, sulla destra, come incanalato tra le coste color aragosta delle isole di fronte. Intanto, sulla sinistra, via via che si procedeva, prendeva consistenza il rilievo che sarebbe culminato nella cima del Dikeo.

Stavamo percorrendo l’arteria principale che, avrei appreso, terminava dalla parte opposta dell’isola, con l’ultimo villaggio, quello di Kefalos posto sulla testa come di un  ippocampo gigantesco: una strada fondamentale per le comunicazioni tra i vari villaggi e che negli anni si sarebbe ampliata di molto, a tratti prendendo addirittura, là dove era possibile,  le misure di un’autostrada.

Lungo la strada le case erano rare, non come adesso che, in pratica si susseguono lungo il ciglio polveroso, alternate a benzinai, autolavaggi, capannoni  in vetro e alluminio  di rivendite di automobili o di barche,  di elettrodomestici, di abbigliamento, e grandi laboratori ed esposizioni di pellicce addirittura (di proprietà russa). Strada, allora, ancora priva del grande supermercato di Marinopoulos, al quale negli anni  di là a venire si sarebbero poi aggiunti quelli di Vasiliadis, di Alfa Vita, e per ultimo, molto più recentemente, quello di Lidl.

Procedemmo sempre dritti fino una località chiamata Zipari. Oggi è diventato il centro più grosso e caotico della circoscrizione del Dikeo, sede del comune e del medico condotto, con una grande chiesa, ma nel 1969 non era più di  un pugno di case, con un pantofoleon, cioè un magazzino che vendeva un po’ di tutto, posto all’inizio della salita che porta ad Asfendiou. Da qui, allora,  prendeva avvio la tanto vituperata strada bianca e sassosa lamentata dal tassista, una strada che, tra un susseguirsi di tornanti s’inoltrava sempre più nel verde ombroso di grandi eucalipti e abeti, tra le cui cime occhieggiava la sassosa vetta del monte Dikeo.

Via via che salivamo,  il mio sguardo comunque spaziava  anche verso il basso, su un panorama sempre più ampio, che abbracciava la grande piana dell’isola appena interrotta, nella prospettiva, dal colle del Profeta Elia. Laggiù poi si allargava il mare, sul quale, nell’incontro con l’azzurro del cielo, prendevano corpo, come sospese nella trasparenza dell’aria,  le isole dirimpettaie di Kalimnos e Pserimos, con la piccola virgola, tra le due, della disabitata Platì.

Per il tassista, naturalmente, tutto questo non contava. Continuava a dire “petra, petra!”, scuotendo la testa, e cercando la mia attenzione per mostrarmi la strada, perché condividessi il suo disappunto. Io mi limitavo ad annuire, per pura cortesia. E certo che, dietro, lasciavamo una nube di polvere che in alcuni casi offuscava la vista del paesaggio, che era quello che più mi interessava. Ero felice, e pensando al paradiso, mi ripetevo esultante: “Ma dove mi stanno portando?!”.

La strada, seppur asfaltata ormai da tanti anni, ancora oggi  è sempre quella,  ma tutte le volte che la percorro, e talvolta anche più volte al giorno, resto sempre ammirato  del panorama. Anche se, rispetto ad allora, è in parte mutato  per un addensarsi di case nella pianura e lungo la strada che dall’arteria principale, indicata ora dai cartelli ad uso dei turisti come Main road,  porta alla spiaggia di Tigaki,  dove le case da tre che erano originariamente si sono moltiplicate.

Ma anche lungo la stessa strada che s’inerpicava per il costone della montagna, allora contraddistinta da pochissime case,  ne sono sorte nel tempo altre, alcune tipo ville,  non certo le quattro mura tirate su, calcinate e dalle imposte delle finestre dipinte di azzurro, tipiche un po’ di tutte le isole dell’Egeo: quelle stesse case che costituivano invece il villaggio di Asfendiou.

Arrivammo  qui sbucando con il taxi su una piazza quadrata dominata da una chiesa – quella di Panaghia Evangelistria – tipicamente ortodossa con la cupola azzurra e l’edificio bianco e il campanile a lato con la data di costruzione, 1930. Sullo stesso lato, al termine della piazza, c’era un kafenìon. Ci passammo davanti, attirando l’attenzione dei pochi uomini, tutti con la scoppola in testa, che, incuriositi, cercavano di capire chi stesse arrivando.

Sullo stesso lato del kafenìon,  dietro il quale  si allargava il cortile di quella che s’indovinava essere una scuola, s’apriva una strada che il tassista, su indicazione di mia suocera, imboccò. Dopo neppure cento metri ci trovammo al cospetto di una curva a elle, delimitata sul lato esterno da un burrone profondo, una gola di una ventina di metri, caratterizzata da una vegetazione lussuriosa, compresa quella di eucalipti giganteschi, evidentemente tali perché irrorati dall’acqua che d’inverno  precipita dalla montagna.  La seguimmo tutta, fino a un ponticello che oltrepassammo e che risultò essere poco più largo del taxi stesso, per poi inoltrarci tra le case del villaggio, quasi tutte allineate lungo la via. Al nostro passaggio, le poche persone che incontravamo – per lo più donne anziane, vestite di nero – si fermavano per seguirci con gli occhi. Perché erano solo questi, neri, puntuti, indiscreti, che vedevo, per aver avvolta la testa fin sopra la bocca da un fazzoletto nero o bianco. Mi facevano impressione quegli sguardi. Mi voltai verso Anna.

“Portano i fazzoletti come le arabe?”

“Ma no, sono gli  tzemberi, con i quali si proteggono dal sole, e dal vento.”

Comunque, per me un mondo nuovo, diverso.

Fu così che arrivammo, al termine di una lunga, ultima salita, a una casa posta su una curva, caratterizzata da un ombroso cortile, davanti al cui cancelletto di legno mia suocera disse al tassista di fermarsi.

In quello stesso momento, attirata forse dal piccolo trambusto della macchina che aveva frenato lì davanti e dal rombo del motore, vedemmo affacciarsi alla porta una donna piccola, vestita di nero, che subito capì l’evento, perché si mise a gridare il nome di mia suocera per poi precipitarsi subito verso di noi, presto seguita da altre due donne che stavano in casa con lei. Facemmo appena in tempo a uscire dal taxi che ci vedemmo abbracciare e baciare. Per me erano tutti volti sconosciuti, quindi baciai le donne con uguale trasporto credendole tutte zie di Anna. In realtà le zie erano due: zia Stavrulla,  dalla somiglianza impressionante con mia suocera, quasi a crederle gemelle se non fosse per il fatto che erano nate in anni diversi: l’unico particolare che le distingueva era il colore degli occhi che in mia suocera erano castani e in zia Stavrulla di un celeste chiarissimo; quindi, la sorella più giovane di tutte, zia Iannulla, allora trentatrenne, bellissima. La terza donna, invece, bassa e grassa, era una vicina di casa, Maria Lividicou, che aiutava le zie nelle faccende domestiche, ricompensata con il cibo che le veniva offerto a pranzo e a cena.

Subito dopo dall’interno della casa sbucò anche un  vecchio sorridente con dei grandi mustacchi bianchi,  in testa un berretto circolare, senza tesa, e  la camicia infilata in un paio di calzoni strani, neri, larghi alla vita quasi come una gonna, che erano poi i pantaloni alla turca all’epoca ancora in auge nell’isola.

Pateras mou!” esclamò mia suocera, andandogli incontro e inchinandosi davanti a lui, baciandogli la mano rispettosamente, per poi solo dopo abbracciarlo.

Era il nonno di Anna. Papus Nicola.

Un paio di fotografie mi avrebbero ritratto con lui, in quello che sarebbe stato l’ultimo anno della sua vita. Era malato di ipertensione, tenuta a bada con delle sanguisughe che poi venivano riposte in un barattolo di vetro, immerse in una sorta di liquido  verde-giallastro. Al padre provvedeva in tutto personalmente zia Iannulla.

Arrivando lì, vivendoci quotidianamente,  provai ben presto l’impressione di essere passato in una dimensione diversa del tempo, tale per la partecipazione emotiva e fisica che quel mondo  ancora arcaico, rispetto a quello a cui ero abituato, richiedeva.  E non potevi non esserne penetrato, fino a sentirti parte di esso fin dalle più elementari necessità. Ad esempio, quella del wc. Questi si trovava fuori casa, piuttosto distaccato, alla fine di una scomoda discesa sassosa e consisteva in una cabina di tavole,  con uno scomodo bugliolo aperto, puzzolente, infestato di mosche, riparato dal telo di un sacco. Starci col sole a picco, lì dentro, seduti sui talloni, e le tavole in bilico, era una sofferenza.

Per il resto, la casa era – così come lo è ancora – composta da due diversi piccoli edifici rettangolari a elle, non collegati internamente tra loro ma con le porte che danno entrambe sul cortile:  uno  costituisce la cucina e l’altro la camera da letto. Il cortile è rivolto verso la piana e il mare, così da aprirsi a quel panorama bellissimo, in ogni momento restituendo gioia e luce allo sguardo.

Letto  nella casa di Asfendiou
Gli interni della casa sono unici, in particolare la camera da letto, composta da due tavlados, ovvero due rialzi rispetto al pavimento, il primo, fatto di pietra,  posto a sinistra della porta d’entrata, sotto un’iconostasi famigliare; il secondo, costruito in legno come un grande soppalco, posto sulla parete di fondo, alla stessa altezza del bordo di un paio di finestre che si affacciano sulla piana, il mare e le isole di fronte. Su questi tavlados vengono posati i materassi per dormirci.  Agghindati con tendine di velo a sipario oppure  nascosti da  koulouria,  che sono  tappetini di varie lunghezze che le donne ricamano con gli avanzi di varie stoffe,  assicurano l’intimità della persona.

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Tutto intorno alla stanza poi, c’è una mensola che percorre interamente le quattro pareti e sopra la quale,  a carattere ornamentale, si susseguono piatti di porcellana, bicchieri, tazze, mentre, sottostanti la mensola,  si alternano, ben incorniciati,  ritratti famigliari in bianco e nero, quelli del tempo del dagherrotipo: foto dei nonni di Anna, degli zii e delle zie, e poi una serie di stampe della vita di Santa Genoveffa, che erano molto in voga nelle case dell’isola.  Al centro della stanza, infine, c’è un tavolo con delle sedie, a rappresentare un po’ il soggiorno in cui far accomodare gli eventuali ospiti, almeno d’inverno, perché d’estate la vita si svolge tutta nel cortile.

L’altro locale è costituito appunto dalla cucina che appare molto spartana, col pavimento di cemento, e a sinistra un tavlado di pietra posto davanti a un caminetto, quindi al centro un tavolo e le sedie impagliate. Oggi, il  resto dello spazio è occupato da una cucina a gas, il frigorifero e  il lavandino sul fondo, ma allora ancora non c’erano per il fatto che l’elettricità era appena arrivata e mancava l’acqua corrente. Senza il frigorifero, tutti i cibi cucinati, o comunque in attesa di essere cucinati, come la carne o il pesce, venivano conservati in una gabbia di fil di ferro a maglia che impediva l’accesso alle mosche, però consentiva anche ai cibi di non stare al chiuso ed essere arieggiati.  Quanto all’acqua provvedevano le zie, che andavano a raccoglierla a una fonte pubblica con un paio di anfore che portavano una in testa e l’altra in mano o sotto il braccio. Queste venivano poi adagiate dentro una sorta di cappella ad arco esterna alla casa, sopra un cespuglio di rovi, che avevano il compito di mantenerne la freschezza. Quell’acqua serviva a tutto, per bere, lavare i piatti, farsi la barba. Per quest’ultima incombenza esisteva un piccolo serbatoio di latta con tanto di rubinetto e un piccolo ripiano per il sapone che veniva appeso a un chiodo  ficcato nel tronco del gelso. Un altro chiodo, accanto, serviva per appenderci lo specchietto. La prima volta che dovetti farmi la barba ricorrendo a quei mezzi mi apparve divertente, ma anche non proprio comodo, perché bisognava stare attenti a chiudere ogni volta il rubinetto per non favorire lo sciupo dell’acqua, che doveva servire almeno per un paio di persone, se non più.

Di uomini in casa, oltre al nonno e a me, c’erano ancora zio Giorgio e zio Andrea, i quali li avrei conosciuti soltanto nel pomeriggio. In quel momento si trovavano in campagna a provvedere ai buoi  e alle capre, oltre che a coltivare un appezzamento d’orto che avevano in mezzadria. Non essendo sposati – i maschi potevano farlo solo dopo che tutte le femmine erano convolate a nozze, e fino a quel momento delle cinque sorelle c’è n’erano da sistemare ancora due – abitavano tutti in quella casa. Per non stare tutti stipati zio Giorgio, zio Andrea e il nonno dormivano fuori, nel cortile di casa, su delle reti e materassi che durante il giorno venivano chiusi, le zie sul tavlados della cucina, mentre a mamma Despina e Anna, da una parte, e a me e Sebastiano dall’altra, erano riservati  rispettivamente i due tavlados della camera da letto.

La sera del nostro arrivo, con tutta la famiglia riunita, ci fu naturalmente una bella festa.  Si mangiò e si bevette in abbondanza. A tavola avevano messo un vino cotto, molto dolce, fatto dagli zii stessi che mi trovai a bere fino a stordirmi. Resistetti, naturalmente, assistendo agli zii che, al suono di un mangiadischi, si misero a danzare in circolo  la susta, una danza tipica del Dodecaneso, dalla musica un po’ monotona  della quale prevaleva il suono del violino.  Erano agili sulle gambe, in passi  rapidi e ritmati,  sia zia Iannulla che zia Stavrulla, ma anche mia suocera che aveva preso posto in mezzo ai fratelli, felicissima, mentre zio Giorgio conduceva le danze da capofila, saltando sulle ginocchia e prodigandosi in morbide piroette, mentre nel pugno stringeva un fazzoletto al quale era aggrappata anche la  prima ballerina del circolo,  in quel caso zia Stavrulla. Straordinariamente anche nonno Nicola non si sottrasse dal compiere qualche passo di danza.

Quando fu il momento di andare a dormire raggiunsi con Sebastiano il tavlados che ci era stato assegnato. Non avrei mai immaginato, allora, che quel posto – sul quale avevano trascorso le notti i sette figli della famiglia di Nicolas Xenicos  – sarebbe diventato negli anni tra i  più bei angoli della mia vita in cui distendermi: per dormire la notte, e magari, nell’attesa di chiudere gli occhi, veder passare, laggiù dov’è il mare, le luci di una nave o di qualche barca di pescatori, così come, senza neppure alzare la testa dal cuscino, riempirmi dell’azzurro del mare e del cielo al mattino. Nel pomeriggio, poi,  trasformarsi nel luogo in cui, con un libro in mano, potevo raccogliermi nella lettura,  beneficato dal venticello che, dal mare, sale alle finestre ai tuoi piedi.

NOTA BIOBIBLIOGRAFICA DI DIEGO ZANDEL  (2013)

Diego Zandel, di origine fiumana, è autore dei romanzi Massacro per un presidente  (Mondadori, 1981, ripubblicato da Il ramo d’oro-EDIT,  2012), Una storia istriana (Rusconi, Finalista Premio Napoli, 1987), Crociera di sangue (Segretissimo, Mondadori, 1993), Operazione Venere (Segretissimo, Mondadori, 1996)  I confini dell’odio (Aragno, 2002), L’uomo di Kos (Hobby&Work, 2004), “Il fratello greco” (Hacca, 2010), I testimoni muti (Mursia, 2011), Essere Bob Lang (Hacca, 2012). I suoi racconti, sparsi in diverse antologie, sono stati raccolti nei libri Verso est – racconti di oltre il confine orientale e dell’Egeo (Campanotto, 2006) e Il console romeno (Edizioni Oltre, 2013). In collaborazione con Giacomo Scotti ha scritto il saggio Invito alla lettura di Ivo Andrić (Mursia, 1981). Suoi libri sono stati tradotti in Croazia e Grecia. Collabora con La gazzetta del mezzogiorno e  Il Piccolo.


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