Magazine Opinioni

Droni e ridefinizione delle relazioni internazionali

Creato il 27 marzo 2013 da Bloglobal @bloglobal_opi

di Simone Vettore

Droni e ridefinizione delle relazioni internazionali
Secondo una interpretazione storiografica minoritaria il colonialismo che ha contraddistinto la seconda metà del XIX secolo – inizi del XX secolo, e l’imperialismo che per certi versi può essere visto come suo sottoprodotto, sarebbe stato determinato dalla necessità, per le Potenze occidentali dell’epoca, di possedere basi d’appoggio attrezzate e poste ad una prestabilita distanza l’una dall’altra a servizio delle rispettive flotte mercantili e militari. Quest’ultima esigenza, a sua volta, si era fatta impellente in un momento storico di trapasso dalla propulsione velica a quella a vapore la quale, se da una parte assicurava libertà di manovra indipendentemente dai venti, dall’altra vincolava le flotte medesime alle stazioni di rifornimento del vitale carbone.

Chi scrive è restio ad abbandonarsi a questa sorta di “determinismo tecnologico” ed è anzi, al contrario, profondamente convinto che molti altri motivi concorrano a spiegare il complesso fenomeno del colonialismo / imperialismo (necessità di accaparrarsi le materie prime, ricerca di mercati di sbocco, riconoscimento del rango di “Grande Potenza”, esportazione dei conflitti sociali interni, alleggerimento della pressione demografica, amore per l’esotico, sincera convinzione di dover compiere una missione civilizzatrice); premesso ciò è altresì incontrovertibile che nel secondo dopoguerra il fenomeno di decolonizzazione fu avviato anche perché le nuove tecnologie militari (portaerei nucleari capaci di proiettare la potenza militare su tutto il globo e missili balistici intercontinentali in grado di colpire con precisione sempre più chirurgica obiettivi a migliaia di kilometri di distanza) consentivano di tenere sotto tiro l’intero pianeta appoggiandosi ad un relativamente limitato numero di basi collocate in punti strategici [1].

Tale reale esperienza storica sembra in altri termini confermare l’esistenza di un’intima correlazione tra evoluzione della tecnologia bellica da una parte e scelte di politica estera (ed in particolare di quelle tese ad ottenere il consenso da parte di Stati terzi ad ospitare truppe e mezzi di un altro Stato) dall’altra, al punto che si può a buon diritto supporre che l’analisi della prima (essendo tangibile e concreta) possa aiutare a meglio comprendere, ed entro certi limiti perfino a prevedere, la seconda.

Partiamo dunque dalla prima e cerchiamo di capire qual è, alla luce dell’analisi delle operazioni belliche condotte negli ultimi anni, il paradigma militare attualmente dominante e, al suo interno, qual è la tecnologia core.

Il punto fermo da cui partire è che l’esercizio del potere aereo continua a rappresentare il fulcro di qualsiasi dottrina militare: ogni conflitto combattuto nell’ultimo quarto di secolo, dalla I Guerra del Golfo (1990-91) passando per le guerre balcaniche (operazione Allied Force del 1999 su tutte), il conflitto in Afghanistan (2001 – ) e le correlate operazioni nel mondo contro i vari gruppi affiliati ad Al Qaeda, per finire con la guerra di Libia (2011) e l’attuale intervento in Mali, ha visto il ruolo preponderante delle operazioni aeree (o perlomeno aeronavali) su quelle terrestri.

In leitmotiv di tali conflitti è stato, in buona sostanza, il seguente: alle forze aeree spettava il compito di ottenere il dominio dell’aria e di mettere fuori combattimento il maggior numero di mezzi e truppe nemici, la relativa catena di comando e controllo oltre alle principali infrastrutture, spianando la strada al successivo impiego delle truppe di terra, queste ultime destinate vuoi ad operazioni di combattimento tradizionali (come in Iraq nel marzo – maggio 2003), vuoi ad operazioni di peace keeping / peace enforcement (Kossovo 1999 ed Afghanistan).

All’interno di questo ricorrente schema d’azione si intravede però a cavallo degli anni 2001 – 2004 un cambiamento, seppur non lineare: gli attacchi dell’11 settembre 2001 difatti delineano un nuovo tipo di guerra asimmetrica che gli Stati Maggiori degli eserciti occidentali faticano a metabolizzare ed alla quale non sanno controbattere efficacemente. Il punto di svolta si ha in Iraq: l’idea di combattere il terrorismo muovendo guerra al laico Saddam Hussein si dimostra infatti, oltre che pretestuosa [2], concettualmente errata. La network centric warfare (NCW), ardentemente propugnata dall’allora Segretario alla Difesa Donald Rumsfeld, funzionò nelle prime fasi del conflitto ma fallì miseramente nel momento in cui, per garantire il controllo del territorio (con popolazione fondamentalmente ostile), si rese necessaria la presenza massiccia di boots on the ground, fanteria statica a presidio dei villaggi e delle città, vulnerabile di fronte ad attacchi condotti con i mezzi più disparati ed inusuali.

La lezione per gli Stati Uniti è bruciante e negli altri teatri operativi (Yemen, Somalia) si comincia a fare affidamento sempre più su attacchi mirati a singoli individui / nuclei di terroristi (individuati dai satelliti, dagli aerei spia, da team di forze speciali infiltrate o da agenti locali), compiuti con missili lanciati da aerei con pilota, UAV (Unmanned Aerial Vehicle) e, più raramente, navi.

Con l’amministrazione Obama il ricorso agli UAV, detti comunemente droni [3], si fa massiccio. Il cambio di strategia è notevole: non più guerre da prima pagina sui giornali, con i conseguenti imbarazzi politici, ma una lunga ed ininterrotta sequenza di azioni chirurgiche (anche se le vittime civili vengono accettate come inevitabile danno collaterale) guidate a tavolino da un qualche container climatizzato situato nelle grandi basi del sud degli Stati Uniti.

Ma attenzione, definirla “guerra videogame” è riduttivo: la presenza degli UAV, oltre che politicamente vantaggioso, si inserisce perfettamente nel processo di digitalizzazione del campo di battaglia, nel quale ogni mezzo [4] ed ogni individuo, individuato da un segnale GPS, diventa un “sistema d’arma” a disposizione del comandante che ha, in linea teorica, perfetta conoscenza del teatro operativo e della disposizione delle sue unità.

La presenza di UAV sul campo di battaglia ha un ulteriore implicazione, vale a dire la dilatazione temporale della battaglia: un UAV non ha bisogno di dormire, attraverso i suoi sensori ci vede benissimo anche di notte e può dunque stazionare sopra il teatro di operazioni per giorni (imponendo al nemico un ritmo che non può sopportare a lungo). Ne deriva che gli obiettivi non vengono più predefiniti nei tradizionali briefing prima del decollo ma vengono scelti letteralmente “al volo” (non a caso in gergo sono definiti “bersagli di opportunità”), cosa assai più pagante specie quando, come nel caso di gruppi terroristici, non ci sono infrastrutture o comunque bersagli statici degni di rilievo da colpire ma al contrario si fronteggia un nemico sfuggente che fa dell’abilità di occultarsi principale tattica di sopravvivenza e che va colpito nel momento in cui si espone. I droni pertanto, in considerazione della loro capacità di colpire con precisione e di stare a lungo in “appostamento”, rappresentano l’arma ideale di questa nuova tipologia di conflitto.

Ponendo dunque come premessa che i droni saranno, nei prossimi decenni, l’arma principe di quella che viene da tutti individuata come la guerra del XXI secolo (o perlomeno della sua prima parte), ovvero la lotta al terrorismo, quali sono le ricadute nelle decisioni di politica estera e nel sistema di alleanze internazionali?

Il punto da cui partire è che il passaggio ad un tipo di attacchi “di opportunità” impone la presenza costante, sulle zone calde, dei summenzionati sistemi d’arma e che tale esigenza a sua volta implica l’esistenza di una capillare rete di basi d’appoggio in prossimità dei principali teatri operativi. Non è dunque un caso se la geografia delle basi ospitanti UAV rispecchia specularmente l’evoluzione della guerra al terrore: gli Stati Uniti, nazione capofila di questa guerra e Stato che ne fa il maggior uso [5], ne schiera di sicuro nelle sue basi in Afghanistan (Jalalabad, Khost, Kandahar, Shindand), in Turchia (Incirlik), in Qatar (Al-Udeid), nelle Filippine (Zamboanga), negli Emirati Arabi (Al-Dhafra), nello Yemen (Al-Anad), in Etiopia (Arba Minch), a Gibuti (Camp Lemonier), nell’arcipelago delle Seychelles (Mahe) [6] ma altri sono sicuramente basati in Oman (Masirah), in Niger [7], di nuovo nello Yemen (Socotra) nonché in Italia (Sigonella) [8].

Tali basi, evidentemente, sono ottenute solo grazie ad un duro lavoro politico e diplomatico (e molto più pragmaticamente ammorbidendo le resistenze attraverso l’erogazione di cospicui “aiuti” e finanziamenti); pare dunque trovare conferma la tesi, esposta all’inizio, della correlazione tra tecnologia dominante e politica estera (ed in effetti lo spostamento progressivo delle basi verso occidente – Africa in primis – riflette il rinnovato interesse da parte delle diplomazie delle principali potenze mondiali per il continente nero).

In realtà, guardando un po’ più a fondo, si scopre che le cose non stanno esattamente così: gli UAV hanno bisogno di un supporto logistico decisamente limitato (ad esempio, secondo Micah Zenko, i quattro Predator basati ad Incirlik sono seguiti da appena 15 specialisti) e le stesse piste di volo talvolta consistono in esili strisce d’asfalto (le foto satellitari lo attestano in modo lampante [9]). Si tratta dunque di un’infrastruttura leggera che non richiede massicci investimenti e che fornisce il vantaggio, per la diplomazia (statunitense), di agire con le mani relativamente libere: pochi Stati diventano veramente alleati indispensabili né si corre il rischio, a seguito di un sempre possibile voltafaccia, di vedersi doppiamente danneggiati da una parte per la perdita degli ingenti investimenti infrastrutturali effettuati e dall’altra per il mancato utilizzo delle basi delle quali ci si trova improvvisamente privati.

Come già accennato, per i decisori politici i velivoli senza pilota sono inoltre le armi ideali. Relativamente poco costosi, di basso profilo tanto per chi li rischierà (non si corre il rischio di perdere i piloti e in caso di incidente / abbattimento si può sempre parlare di avaria [10]) quanto per chi li ospita (un paio di “aerei telecomandanti” ed un pugno di yankee non è come avere in casa un intero squadron con piloti, addetti alla logistica, alla sicurezza, etc.) al punto che alcuni osservatori, non a torto, paventano il rischio di “deresponsabilizzazione” politica: una vera manna per i primi ed ulteriore motivo per prevederne il loro massiccio utilizzo negli anni a venire.

È opinione di chi scrive, avviandoci alla conclusione, che la possibilità di esercitare il proprio air power attraverso mezzi, quali gli UAV, estremamente flessibili e low profile ma allo stesso tempo capaci di garantire una migliore copertura (spaziale e temporale) del campo di battaglia rafforzerà la tendenza, già evidente nel caso degli Stati Uniti, ad agire in modo unilaterale e ricercando al massimo alleanze a geometria variabile. Tale convinzione trova conferma indiretta leggendo le specifiche tecniche del Vulture [11], drone di tipo strategico con capacità ISR (Intelligence, Surveillance and Reconnaissance) al quale sta lavorando il DARPA, il quale dovrebbe riuscire a rimanere in volo fino a cinque anni senza scalo (sfruttando l’energia solare) né bisogno di rifornimenti. Quando mezzi come il Vulture entreranno in servizio, gli Stati (Uniti) non avranno praticamente più bisogno di paesi alleati e di conseguenza crescerà la loro propensione ad agire unilateralmente nei momenti di crisi con probabili gravi ripercussioni sulla stabilità complessiva del sistema delle relazioni internazionali, sistema che da sempre ha usato l’interdipendenza tra Stati come cassa di compensazione e risoluzione politica delle dispute.

* Simone Vettore è Dottore in Storia Contemporanea (Università di Padova)

[1] Che poi si siano verificati numerosi conflitti locali convenzionali condotti in genere “per procura” in nome delle due superpotenze e che queste ultime abbiano avvertito l’esigenza di  dislocare proprie truppe praticamente in tutti i continenti, ciò non inficia l’assunto iniziale, essendo tale scelta dipesa da considerazioni di natura squisitamente politica (far sentire la propria vicinanza agli “alleati”) e di gelosa preservazione degli equilibri internazionali usciti dalla II Guerra Mondiale.

[2] Ci si riferisce alla giustificazione di questo conflitto presso l’opinione pubblica sulla base dell’asserita presenza di non dichiarati arsenali di armi di distruzione di massa laddove il capo degli ispettori ONU, Hans Blix, a pochi mesi dall’attacco metteva in guardia Tony Blair circa la loro probabile inesistenza; vedi Richard Norton-Taylor, Hans Blix: Blair government became ‘prisoner’ of US before war in Iraq.

[3] La famiglia degli UAV è enorme: si parte dai mini UAV tattici a supporto dei reparti sul campo, lanciabili a mano come un normale aereo da modellismo, a quelli d’attacco (UCAV, Unmanned Combat Aerial Vehicle) a quelli strategici con apertura alare di 20 metri in grado di restare in volo sopra il teatro delle operazioni per giorni. Personalmente trovo ancora valida la classificazione proposta da Peter van Blyenburgh, il quale individua: a) tra gli UAV tattici quelli micro e mini (come dimensioni), quelli a corto / breve / medio / lungo raggio (d’azione) e quelli a lunga durata (come missione); b) tra gli UAV strategici invece egli identifica quelli a media quota operativa e lunga durata (MALE) e quelli ad alta quota e lunga durata (HALE). Vedi Peter van Blyenburgh, UAV: a che punto siamo, in RID, a. XVIII, , n. 11/1999, pp. 68-75.

[4] Sia esso aereo, terrestre o navale (inclusi gli UUV, Unmanned Undersea Vehicle).

[5] Le cifre sono ovviamente top secret: il Guardian, che cita uno studio dell’IISS (International Institute for Strategic Studies), sostiene che gli USA ne abbiano uno stock accertato di 678 unità (dato verosimilmente di molto sottostimato); di sicuro non sono gli 8mila di cui parla, in un articolo su Il Post per il resto ben documentato, Alessandro Marchionna. Vedi http://www.guardian.co.uk/ news/datablog/2012/aug/03/drone-stocks-by-country e cfr. con A. Marchionna, Tutto sui droni.

[6] Vedi Micah Zenko e Emma Welch, Where the drones are?.

[7] Vedi U.S. to build drone base in Niger.

[8] Vedi Michele Farina, Benvenuti a Saigonella. Dando credito ai rumor in circolazione gli UAV avrebbero poi operato sulla Colombia, su Haiti, sulla Corea del Nord, etc. il che rafforza la tesi che ulteriori basi segrete siano sparse per il mondo.

[9] I droni di dimensioni minori non necessitano nemmeno di una pista di decollo, essendo lanciati, come si è già visto, a mano oppure per mezzo di catapulte pneumatiche. Per quanto riguarda poi le attività di pilotaggio, analisi dei dati raccolti, battle damage assessment, etc. queste avvengono di norma al sicuro negli Stati Uniti, sovente affidate a contractor civili.

[10] Emblematico quanto accaduto con la cosiddetta “bestia di Kandahar” (in realtà un Lockheed Martin RQ-170 Sentinel) caduta in territorio iraniano il 4 dicembre 2011.

[11] Vedi http://www.darpa.mil/Our_Work/TTO/Programs/Vulture.aspx.

Photo Credit: U.S. Air Force


Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :