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Due parole su (me e) Michele Catti

Creato il 02 aprile 2013 da Spaceoddity
Due parole su (me e) Michele CattiNon mi intendo d'arte, le mie considerazioni sono sempre piuttosto soggettive, capricciose - e suonano un po' come "questo quadro non lo appenderei mai nel mio salotto" - ma, come in ogni campo, trovo intollerabile chi trova interessanti cose su cui non sa o non vuol dire altro. Interessante è l'attributo usato da chi non apprezza quell'opera, ma si sforza (anche in buona fede) di collocarlo al di là del giudizio, direi in salvo da un giudizio che può anche sbagliare. Io, che non ho mai capito se possa definirmi troppo modesto o troppo borioso, non ho nessuna paura di commettere errori di giudizio, so che è col contatto diretto che apprendo: definire interessanti delle opere significa perciò rimandare all'infinito il momento in cui me me ne impadronirò. E il mondo intero deve far parte della mia vita.
Questo lungo preambolo per dire che io amo Michele Catti. Lo amo dalla prima volta che ho visitato la Galleria d'Arte Moderna di Palermo, quand'era al ridotto del teatro Politeama, e poi l'ho riscoperto anni dopo nella nuova sede, al complesso monumentale di S. Anna, diverse volte. Oggi, approfittando dei musei aperti, onde sfuggire a ben meno spassose o costruttive passeggiate, sono tornato a visitare il museo e, via via che mi avvicinavo, ho sentito l'emozione invadermi. Ho fatto pace, è vero, con alcune (non con tutte) tele di Lojacono, maestro (poi rifiutato) di Catti, direi anzi che ho riscoperto il celebre pittore di vedute, specie nel tratteggio di piante e piccole radure folte di acque e vegetazione, ispirate dalle sue visite al nostro Orto botanico. Continuo, purtroppo, a rifiutare il tratto di Antonio Leto - con la stessa presa di posizione che mi allontana dai vari realisti e neorealisti (non ultimo il per me insopportabile Giambecchina).
Due parole su (me e) Michele CattiE arrivo dunque alle sale dove sono esposti i quadri di Michele Catti (Palermo 1855-1914) e lì qualcosa succede. Sembra quasi - e dico sembra - che io li capisca. Al primo piano della G.A.M., dove si trova esposto, c'è prima una collezione di piccole vedute, suggestive, ma non originali, che forse non ne avrebbero determinato la fama o l'interesse di Ignazio Florio (non so), poi la sala d'angolo con due immense tele (Ultime foglie) a netto sviluppo orizzontale, che sono vedute impressionistiche della nostra città. Rivedo questi paesaggi autunnali (in una sala che, tra festa dei Morti e vedute di ottobre e novembre fa dell'inverno incipiente una condizione esistenziale) dopo aver filtrato questa dannatissima città, dopo aver inventato il mio sguardo (attraverso la fotografia) su Palermo bellissima.
E all'improvviso eccomi. Eccomi annichilito, non dall'impressionismo dilagante e francese (certo il museo d'Orsay rimane la cosa più bella che io ricordi della mia adorata Parigi), ma dalla distanza che si può mettere tra sé e il mondo, la distanza necessaria a renderlo fedelmente, con quel po' d'amore in più che lo vivifica. La Palermo di Catti è come battuta dal dolore, eppure composta. I suoi soggetti sono lì, senza nome, certo, ma è impossibile definirli anonimi, raccontano, semmai, storie di passaggio, storie che ti sfuggono. È una Palermo artistocratica e altera, ma non altezzosa, che non sogna di essere altrove, che vuol essere Palermo, anche sull'orlo del baratro. Una Palermo in costume, ma modernissima, senza mai cedere alla tentazione di essere contemporanea.
Due parole su (me e) Michele CattiÈ una Palermo riesumata dallo sguardo, che non può mai cedere alla tentazione di essere attuale. Non è la nostra città dismessa, ruvida e banale, la città sciatta che ci scarica addosso ogni giorno che (mal) la sopportiamo; è invece una città di vagabondi che non si incontrano, che forse cercano di evitare la pioggia più fitta, però sono parte ineludibile del suo paesaggio. È, forse, una città nella quale non vivrei mai, ma non sono ancora così squilibrato da cercar casa dentro un quadro. Per chi, come me, non si trasferisce, semmai esplode in un posto, riconoscersi in una memoria non è come posare i bagagli e adattare gli spazi a proprio uso e consumo: significa piuttosto vedere, nella sua concretezza, la distanza dal proprio presente e la strada per colmarla.

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