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Due ruote e un corpo: elogio dell’umanità.

Creato il 09 ottobre 2013 da Emialzosuipedali @MiriamTerruzzi

Scroscia incessante e sempre uguale la pioggia sui tendoni e sugli ombrelli. La voce metallica della telecronaca si sente a tratti, scappa qualche nome, qualche considerazione a metà. Lo schermo è come se fosse muto, sul traguardo che aspetta un altro arrivo. Il Lombardia chiude la stagione, si può dire. Con le prime foglie che cadono, la nebbia che sale piano, le corse si danno l’appuntamento al prossimo anno. E qui tutti vogliono arrivare a Lecco per primi, dire che l’ultima occasione l’hanno afferrata loro, che il Sormano li ha piegati ma non sconfitti. Qui, tra l’umido che sale dal lago e quello che viene dal cielo, la gente aspetta.
Guardo quelle braccia piegate sul manubrio: lucide di pioggia e di sudore, le mantelline fradice e le facce scavate dalla fatica. Non riesco a staccare gli occhi da quei corpi in bicicletta. Corpi leggeri che si prendono l’acqua, la sentono nelle ossa, eppure devono andare avanti. Corpi che sono come nudi, in balìa di tutto, con il solo pensiero dell’arrivo.
La verità è che li trattano come cavalli da corsa” dice qualcuno. “Scendono dai pullman, corrono e poi risalgono. E così, tutte le volte.
Quando si commentano i distacchi sul Sormano e le valutazioni sono fredde, meccaniche, statistiche, penso che sì, è vero: la gente pensa che questi ragazzi siano cavalli purosangue, sempre pronti a partire e ad arrivare, a lucidarsi il mantello e nutrirsi bene per le prossime corse.

Quello che non si vede, dai divani, dalle case già scaldate per l’inverno, dai bar, è che il vero miracolo del ciclismo non sta nell’arrivare primo. E’ nell’umanità che sta nuda, lì, in pasto a tutti. La fatica è la via più sublime per il sogno, spronare le gambe oltre quello che la testa concede. E’ questo che commuove: due ruote e un corpo che è fragile, come lo sono tutti quelli che corrono verso un arrivo che è un po’ un miraggio. Ma allo stesso tempo è forte: come tutti gli ideali che la strada imprime nell’anima.
Alla fine è lì, l’essenza di quello che è il ciclismo. E’ qui, su questo rettilineo dove la gente si attacca alle transenne per vedere i ragazzi che arrivano sotto la pioggia battente. Su questo pezzo di asfalto lucido che accoglie le ruote stanche, le tutine strappate di chi è caduto ma è arrivato comunque. Strappi che lasciano intravedere la carne viva.

E forse è normale che davanti a quelle facce stanche, a questi panni zuppi che si appiccicano ai muscoli tesi, desiderosi di una doccia calda, mi senta sempre un po’ di troppo, invadente. Quasi che si rompa una strana intimità per cercare lo scatto migliore, la dichiarazione più incisiva. Ma chi parla è il silenzio. E la pioggia, e gli asciugamani inumiditi, e il respiro. Niente santi ma nemmeno eroi. Uomini di carne che alla bicicletta hanno dato l’anima. Uomini di carne che con la fatica scrivono poesie. Ma di quelle vere, però: scritte sui taccuini d’asfalto della loro quotidianità. Di quelle che fanno indurire le gambe per giorni. Una poesia deve grattare dentro, disse qualcuno: il ciclismo gratta dentro, fa male, fa maledire le salite, ma salva. Salva l’umanità mostrandogli il suo stesso volto: livido, stanco, fragile. La salva da tutte le sue apparenze luccicanti, dalla cipria che ci mettiamo addosso per coprire i lividi e le cicatrici.
Uomini di carne ai quali forse va un grazie senza retorica e sincero come un bicchiere di vino in un’osteria di paese. Perché tutte le volte, ci insegnano che ci si può mostrare anche nudi, sotto la pioggia, dopo chilometri e chilometri su due ruote sottili. Tutte le volte, silenziosamente, senza accorgersi, ci dicono che non ci vuole solo il coraggio ma anche la fatica perché il viaggio abbia senso. Un traguardo non ci restituisce l’umanità, la strada sì. Con l’asfalto liscio e piano o pieno di buche. Ce la restituisce tutta quanta.

IL Lombardia 2013 138



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