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E' il fascismo che traccia il solco ma è la costituzione che lo difende

Da Gabriele Damiani
La data che ha marchiato a fuoco lo stivale, dopo che il regno di Sardegna ebbe liquidato gli altri staterelli italici e assoggetato al proprio dominio quasi l’intera penisola, è una e una sola: il 24 maggio 1915.Gli effetti di quel giorno funesto si snodarono implacabili e fragorosi. Menzionandoli sinteticamente tramite la loro data, essi via via furono: il 28 ottobre 1922, il 10 giugno 1940, l’8 settembre 1943, il 2 giugno 1946 e il primo gennaio 1948.La prima guerra mondiale mise in ginocchio il regno d’Italia. Tre anni e mezzo di guerra contro gli imperi centrali provocarono una guerra civile strisciante, volendo usare un eufemismo, e una crisi economica, sociale e politica che portò il grosso smargiasso romagnolo ineluttabilmente al potere.Basti pensare che nel primo dopoguerra l’inflazione, pur senza raggiungere i livelli parossistici della Germania di Weimar, fu da noi appena inferiore a quella polacca e austriaca. Nemmeno i fabbricanti di cannoni, cessata la produzione di materiale bellico, se la passarono liscia. A tal riguardo resta proverbiale l’esempio dei Perrone di Genova, che avrebbero perso sia la Banca di Sconto, finita in liquidazione, che l’Ansaldo, nazionalizzata nel 1933.A causa delle conseguenze disastrose della guerra – tanto desiderata, fra gli altri, proprio dal re Sciaboletta Savoia – il trono scricchiolava. Ed è dunque ben difficile rimproverare sua maestà Sciaboletta per non aver proclamato il 28 ottobre 1922 lo stato d’assedio, come gli chiedeva il presidente del consiglio dei ministri Luigi Facta, e aver invece distrutto lo stato liberale, consegnando la nazione nelle braccia dello smargiasso romagnolo.A Facta Sciaboletta rispose:«Queste decisioni spettano soltanto a me. Dopo lo stato d’assedio non c’è che la guerra civile».Non aveva torto. Riuscì in realtà a ritardare lo scoppio della guerra civile d’un ventennio e la perdita del trono di un quarto di secolo. L’8 settembre 1943, infatti, la guerra civile sarebbe iniziata eccome. Una guerra civile in piena regola, combattuta da due diverse entità statali, il regno del sud contro la repubblica sociale, entrambe di tipo Quisling, sorrette dalle opposte armate straniere occupanti.E il 2 giugno 1946 il popolo italiano, con lucida saggezza, diede un meritato calcio al sedere dei Savoia, liberandosene con il referendum una volta per sempre.
Il 10 giugno 1940 fu conseguenza del 15 maggio 1915 e del 28 ottobre 1922.I fascisti erano guerrafondai. Il bellicismo nazionalista, non a caso, costituiva uno dei cinque principi dottrinali della loro fede. Gli altri quattro erano: il principio totalitario, il principio proletario, il principio della superiorità etica dello stato e il principio corporativo. Gente di tale risma, è matematico, presto o tardi conduce alla disfatta il paese di cui prende le redini.La seconda guerra mondiale, poi, altro non fu che il secondo round della guerra europea, una follia deflagrata in seguito all’attentato di Seraievo e la cui prosecuzione fu determinata, con spirito diabolico, dal trattato di pace di Versailles.Noi italiani, per amara coincidenza, patimmo sia la sconfitta che la guerra civile, nonché l’occupazione militare del suolo nazionale da parte del vincitore, occupazione che ancora perdura. I Savoia, come ho già ricordato, ci rimisero il trono. Nacque pertanto una repubblica sottomessa agli Stati Uniti d’America.La carta costituzionale della nuova repubblica, entrata in vigore il primo gennaio 1948, avrebbe dovuto segnare il riscatto dai patimenti sofferti e l’emancipazione dalle tristi eredità del passato. Purtroppo non è andata così, se non in parte.Le ragioni furono tanto di natura culturale quanto psicologiche. L’arretratezza culturale dei costituenti – la loro superba incompetenza – spiega a chiare lettere perché la costituzione, per quel che riguarda formazione, struttura e funzionamento dei pubblici poteri, ricalca con pedissequa fedeltà lo statuto albertino. Ha cioè riprodotto pari pari il più smaccato parlamentarismo, replicandone ogni difetto, inclusa la congenita fragilità dei governi, esposti senza difese alle imboscate parlamentari. Ma tutto ciò, benché grave, non rappresenta il male peggiore. Dopo tutto, la costituzione configura pur sempre un sistema democratico, sebbene inefficiente.Altro è l’aspetto che lascia di sasso, l’elemento che fa sì che il gelido e sepolcrale alito del 24 maggio 1915 e del 28 ottobre 1922 spiri tutt’ora sulla nostra società.Quale?Questo.La costituzione repubblicana ha assorbito tre principi dottrinali del fascismo: il principio proletario (articolo uno, primo comma), il principio della superiorità etica dello stato (articolo quattro, secondo comma) e il principio corporativo (Cnel, organizzazione corporativa della magistratura, natura semipubblica dei sindacati).Ho accennato prima, per chiarire il nonsenso della costituzione, anche a ragioni psicologiche. Mi riferivo, in buona sostanza, al fatto che noi italiani non ci siamo mai vergognati del fascismo. Per il nostro nero ventennio non abbiamo mai provato vergogna, a differenza invece dei tedeschi, che per i loro dodici anni vissuti sotto la croce uncinata la vergogna l’hanno sentita nelle viscere.Con ogni probabilità, abbiamo ritenuto che la guerra civile ci avesse ripulito la coscienza. Badogliani e comunisti, combattendo contro la repubblica sociale, di certo hanno creduto di ripulirsela. Il loro impegno, purtroppo, non è stato sufficiente. Ciò perché il solco lasciato dal fascismo nella cultura politica italiana è stato profondo. Tanto profondo che tre principi dottrinali predicati dalle camicie nere sono entrati nella costituzione postfascista.Il fascismo si rivela dunque un’ignominia che non muore. Almeno, non del tutto.

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