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E intanto anche Clint Eastwood mi sbaglia un film

Creato il 22 marzo 2010 da Paperoga

E intanto anche Clint Eastwood mi sbaglia un film

Non sono uno di quei tipi che vanno al cinema a scatola chiusa, così per il piacere di andarci. Vado al cinema per vedere dei bei film, visto che pago profumatamente per la loro visione. Detesto uscire dal cinema con le balle che mi fumano perchè ho sprecato oltre sette euro per vedere una colossale cagata. Dunque seleziono molto attentamente l’offerta e, scartando a priori quasi in blocco l’orrendo cinema italiano, mi affido ad autori fidati, o a generi che amo particolarmente.

Clint Eastwood, per dire, è per me il miglior regista vivente. Fa cinema classico, solido, universale, girato con maestria. Con lui vado sul sicuro, da un decennio circa. E’ stato capace di far commuovere questo vecchio orso privo di cuore per ben due film consecutivi, Mystic River e Million Dollar Baby. Per non parlare di quando ho visto in tv I ponti di Madison County e, per la prima (e ultima) volta in vita mia, mi sono commosso come una Bridget Jones qualunque di fronte ad un melò che, ad una lettura veloce della trama, sembrava essere il solito polpettone melenso per casalinghe avvinazzate.

Ecco dunque che, uscito questo Invictus, ho trovato finalmente tempo e soldi per recarmi baldanzoso nel multisala vicino casa.

La trama del film in soldoni è questa, e non credo di spoilerare dato che si tratta di una storia sostanzialmente accaduta: narra della vittoria della nazionale sudafricana di rugby nel mondiale giocato in casa nel 1995. Nei primi anni ’90, abolito l’apartheid, Nelson Mandela è eletto presidente del Sud Africa dopo oltre 20 anni passati in gattabuia a spaccar pietre. Il rugby è da sempre lo sport dei bianchi, e la squadra degli springboks, da sempre l’orgoglio sportivo degli afrikaner, è invece detestata dalla maggioranza nera. Invece di far fuori uno storico simbolo della segregazione razziale abolendo la maglia verde oro e sbattendo fuori a calci un bel po’ di visi pallidi mettendoci al posto qualche bel colored, Mandela ritiene che proprio da quella squadra si possa partire per una bella pacificazione nazionale. Il suo sogno è che si vinca i Mondiali e la nazione nera si stringa attorno a quella squadra di bianchi. Ovviamente, ci riuscirà.

Ora, questo vuole essere un film che celebra l’intuizione quasi eretica di un uomo straordinario, nonchè la sua capacità sovraumana di perdono: un uomo rinchiuso per decenni in una cella due metri per due che, quando esce, invece di far fuori col gas nervino quella minoranza di tangheri razzisti che gli ha rovinato la vita, si dedica alla riconciliazione tra bianchi e neri.

Come puoi tirare merda su un film così, mi chiederete? Perchè l’avete già intuito che sto per farlo….

Perchè sì, cazzo. Il film non è brutto, chiariamoci. E’ solido e di ampio respiro. Ma stavolta non è un film asciutto. E’ un film piatto, che scorre verso la fine senza un sussulto di emozione, troppo impegnato a celebrare un uomo che è dipinto come un Santo, anzi, una sorta di concentrato di tutti li santi. Un uomo così perfetto che quasi ti annoia, ti irrita per la capacità di fare sempre la scelta giusta, e sopratutto ti fa venire il dubbio, anzi ti fa proprio sperare, dopo due ore di patinata agiografia allo stato puro, che magari nella realtà Mandela sia un tantino più stronzo di come viene dipinto.

Per tutto il film non fa che essere gentile come il più affettuoso dei nonni, il più galante dei gentlemen, il più interessato degli amici, il più buono dei filantropi, il più comprensivo dei datori di lavoro. Sorride sempre, saluta tutti, anche quando nella sua prima comparsa nello stadio la gente lo fischia e gli tira secchiate di birra quasi addosso, lui continua a salutare come il papa a San Pietro.

Poi sta cosa della fissa per il rugby che per lui diventa un’ossessione. Comincia a vedersi tutte le partite, interrompe vertici intergovernativi per vedere la sintesi della partita, manca poco che si porta la radiolina nascosta nella giacca come Fantozzi. Impara a memoria tutti i nomi dei giocatori, magari si scambia le figurine panini con i ministri, ce l’ho, mi manca, ce l’ho, mi manca. La sua consigliera ad un certo punto gli chiede senti Mandela, cristo, ma occuparsi di disoccupazione, inflazione, scuola, sanità, ti pare brutto? E lui davanti alla tv col secchiello di popcorn che risponde zitta porcatroia che c’è un piazzato da posizione favorevole. Quando la Nuova Zelanda passa avanti nel secondo tempo della finale, al rallenty è possibile tradurre il labiale di Mandela che alza le mani al cielo e butta un gigantesco porcod…

E poi i dialoghi, santoddio, i dialoghi. Pare un libro stampato, quando parla. Speri per tutto il film che mentre sta piazzando la sua ennesima perla di saggezza gli scappi un rutto o una scoreggia, o mandi affanculo qualcuno. E invece è un aforisma umano, illumina e ispira persino quando sorseggia il thè senza il tipico risucchio che fanno gli anziani.

Ma non voglio dissacrare il personaggio, ci mancherebbe. Dissacro il modo in cui è proiettato al cinema. Gli mancano gli uccelli sulla spalla, l’aureola e il saio. E poi sempre tranquillo, serafico, come se fosse imbottito di bromuro. Se nel film ci fosse stata la scena in cui magari un bianco ubriaco dagli spalti gli dava del maledetto negro, lui si sarebbe voltato, gli sarebbe andato incontro, lo avrebbe perdonato, e il giorno dopo nominato ministro.

E poi sta storia della pacificazione nazionale è posticcia e irreale, dipinge quello che tutti noi avremmo augurato ad un paese reduce dalla segregazione razziale, ma non ci raccontiamo balle mica è andata così. Nel film, mentre gli Springboks stanno per coronare il loro sogno di vittoria, il paese gli si stringe materialmente attorno. Cinematograficamente è impressionante, ben raccontato, ma la scena dei poliziotti bianchi un tempo al servizio degli afrikaners che festeggiano assieme al ragazzino nero con le pezze al culo, e poi la scena della guardia del corpo bianca e e della guardia del corpo nera che dopo un film passato a sfancularsi a vicenda poco ci manca che pomiciano, e poi la scena dei bianchi che guardano la partita nella loro lussuosa casa del quartiere ricco, e poi la scena dei neri che guardano la partita dietro ai vetri di un locale lercio e poi tutti per strada a festeggiare, sono momenti così farlocchi che mancano solo i ragazzini dei ringoboys che corrono l’uno contro l’altro e battono il cinque con le loro due manine di colori diversi.

E in questo tripudio di retorica con cui noi bianchi ci laviamo agilmente la coscienza di un crimine durato 40 anni, in questa esaltazione sportiva collettiva tramutata con troppa fretta in riconciliazione nazionale, mentre tutti festeggiano e cantano e Mandela consegna la coppa al capitano, desideri bramando sangue che succeda qualcosa di brutto, che interrompa questa euforia carnascialesca, che ti restituisca ad una realtà che non è mica questa, che precipiti un aereo in campo, che qualche cecchino impallini Mandela (tanto lo sai che non è successo per davvero) insomma un bel martirio, qualche uccisione a raffica, il sogno spezzato distrutto dalla realtà sarebbe stato ben più emozionante nel film di questa favola esopea. Darebbe ben più da pensare.

E invece tutto finisce nel trionfo di una nazione e di un uomo, e non ci sarebbe nulla di male se non fosse che non è mai successo niente più di una sbornia collettiva. Che il vero Sudafrica non è questo, sopratutto oggi.

Però poi nei titoli di coda vedi le foto di quella finale, e vedi quel piccolo uomo per davvero vestito con la casacca verdo-oro dei bianchi afrikaners, capace di perdonare e di intuire in nome del suo sogno di pace. Se il film si fosse concentrato su quella foto, sarebbe stato un gran film. Se invece tu spettatore anneghi nella melassa retorica per due ore e negli ultimi dieci minuti non desideri altro che facciano fuori Nelson Mandela, mi sa che non è andata granchè bene con Eastwood, stavolta….



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