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...E ora parliamo di Kevin

Creato il 11 luglio 2012 da Eraserhead
...E ora parliamo di KevinMi porto dietro una matassa che non riesco più a sbrogliare
comunque la rigiri pesa, e non sono più sicuro che sia lì la soluzione
ma che si trovi in fondo al mare, ma che si trovi in fondo al mare.
(Fine before you came – Sasso)

(…si parla del come)Partiamo dalla nota lietissima che viaggia sui binari della definitiva conferma: Lynne Ramsay. Al suo terzo lungometraggio la regista scozzese trova nell’intemperanza calcolata la propria dimensione. We Need to Talk About Kevin (2011) squaderna con intransigente potenza la maturità dell’occhio appoggiato al mirino, un occhio che misura millimetricamente ogni componente del rettangolo visivo mixando con sapienza inquadrature che offrono punti di vista fotografici (un plongée come quello iniziale incastona l’incipit nell’iride spettatoriale) a piani che sebbene più ordinari non si concedono all’ovvietà (quello di Eva nel supermercato). Lo stile abbraccia un repertorio tutto da sfogliare, pullulante di immagini franose, che investono, duettano tra di loro e che dettano la linea narrativa, perché, come afferma Pacilio (link), per l’autrice la narrazione è la visione, e viceversa. Sul serio: l’impatto della festa che apre il film (una reminescenza ispanica di Morvern Callar?) si coniuga all’attinente presente in cui la casa della protagonista è segnata da secchiate di pittura rossa. La cromatura sanguigna descrive senza sottotitoli lo spettro esistenziale della donna marchiato indelebilmente dal sangue, anche se il sangue vero e proprio non verrà mai esibito, nemmeno durante la strage. Tradurre questo stato di soggezione, di sofferenza e di annullamento non attraverso le parole ma per mezzo dell’immagine, attracca saldamente sul profilo alieno di una perfetta Tilda Swinton, e con spavalderia non si ferma al canale visivo perché il piatto ha ricchezze ulteriori che si rintracciano nella riproposizione audio dove non abbiamo solo la tremenda epifania degli irrigatori, ma si fende nel contrasto, lo scarto straniante tra ciò che viene sentito (Everyday di Buddy Holly) e ciò che si vede (dei bambini travestiti da mostri per Halloween).
(...si parla del cosa)
Proseguiamo con l’involucro del film, una corteccia nascosta dall’irregolarità temporale con cui la storia viene proposta. Il massacro, a sua volta celato dai balzi ellittici, è soltanto l’ultimo stadio della discesa che, ovviamente, viene disvelato nell’agghiacciante pre-finale. L’atto di rappresentare una siffatta tragedia non deve distogliere dal vero nucleo incandescente: il rapporto madre-figlio, diade controversa dal legame annichilente, indecifrabile, illogicamente contro-edipico. Avvalendosi degli strumenti sopraccitati, Ramsay interra il seme della scomodità nel solco materno, enuclea  insistendo sull’incontro tra i due genitori che vede Eva visibilmente alterata come a sottolineare la risibile volontarietà della donna ad unirsi all’uomo, e incide a più riprese un sentimento sovraccarico di odio, fin dalla natalità e via via nella crescita: il pianto martellante tra le mani della mamma, il vandalismo inflitto alle cartine geografiche che figurativamente sentenzia la prigionia di Eva, la finta bandiera bianca causata dal momentaneo malessere di Kevin che ascolta attento la fiaba di Robin Hood (e sappiamo come l’arco diverrà il suo flagello), l’abuso nei confronti della sorellina storpiata e la relativa indifferenza: un lichis spellato (un occhio, ancora un’immagine) e masticato sardonicamente. Ogni episodio, istantanea famigliare, o semplice sguardo all’interno delle mura domestiche si tinge di instabilità, come se il diavolo non avesse difficoltà a vestire i panni di un nanerottolo, e tutti i frammenti disseminati durante la proiezione trovano drammatica composizione dentro Eva: rivoltata nelle viscere, prosciugata, allontanata: sola.
(…si parla del perché)
Concludiamo con un piccolo appunto per cui è d’uopo abbandonare il plurale maiestatico, e quindi, se proprio si volesse condurre una sommossa al film, penso che il suddetto presti il fianco quando espone le vicissitudini tra il piccolo Kevin ed Eva. Parlando a titolo personale, e tenendo inserita la spina del razionale, ravviso nel comportamento del bambino una cifra irrealistica che sfonda il muro dell’eccesso. Non c’è solo parvenza diabolica in questo “adulto” di 5 anni, ma anche e soprattutto premeditazione, cattiveria, sadismo, umori che sfaccettano un prisma di ostinata contrarietà nei confronti di chi l’ha messo al mondo. Accetto il fatto che qui siamo in un film dove è lecito che alcune scelte si assoggettino all’intenzione, eppure ritengo che ci sia bisogno sempre e comunque di una coerenza tra i fotogrammi e ciò che sta al di fuori di essi quando si usa un taglio realistico; non si tratta di un difetto, piuttosto di una mancata opportunità nel conferire verosimiglianza di percezione. Ma Ramsay ha scelto questa via e la si accetta: con prepotenza ostacola in due atti la possibilità di compassione: da una parte Kevin che ammette di non sapere più perché lo ha fatto, e dall’altra Eva che nonostante le mostruosità si apre candidamente, quella stanza pitturata di blu garantisce ancora l’integrità di un corpo, il suo, fatto a pezzi. Che piaccia o meno, lei è pur sempre la madre di suo figlio.

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