Magazine Politica

ECONOMIA: Reddito minimo garantito, un’utopia possibile

Creato il 12 aprile 2013 da Eastjournal @EaSTJournal

Posted 12 aprile 2013 in Economia, Slider with 0 Comments
di Matteo Zola

Reclaim

«The european social model has already gone», tuonava Mario Draghi nel febbraio scorso, a pochi mesi dalla nomina a presidente della Banca centrale europea, sollevando un coro di critiche. La crisi, insomma, sta distruggendo l’economia europea e se la barca affonda si butta a mare ciò che pesa di più: lo stato sociale, appunto. Scuole e sanità pubbliche, pensioni e sussidi, sono un peso morto di cui liberarsi. Ma a finire a mare non sono numeri, bensì persone. E l’affondamento del barcone europeo sarebbe solo rimandato di qualche decennio. Ecco allora che è necessario andare alla ricerca di idee alternative, che tengano insieme sviluppo e democrazia, numeri e persone. Tra queste se ne fa largo una di sicuro interesse: si chiama “reddito minimo garantito”. Tre semplici parole.

A spiegarci cosa significano ci pensa un’associazione, la Basic Income Network (Bin), la cui branca italiana ha da poco licenziato un libro assai interessante, Reddito minimo garantito, un programma necessario e possibile (Edizioni Gruppo Abele, 2012). Gli autori ci dicono che per far fronte alla crisi economica (che è anche una crisi di cultura economica) il vecchio continente deve fare più welfare garantendo a tutti un reddito minimo, che si tratti di lavoratori o inoccupati, italiani o stranieri, giovani o vecchi. Utopia? Non proprio, poiché si tratta di un progetto concreto e che, in forme ridotte, è già stato realizzato in molti paesi europei. Sul tema però è facile confondersi, andiamo con ordine.

Negli ultimi trent’anni a essere radicalmente mutato è il sistema economico dei paesi cosiddetti “occidentali”. Da una centralizzazione della produzione e dell’informazione, si è passati a una delocalizzazione favorita dalla velocità delle comunicazioni. Nei paesi dell’area Ocse ci si è trovati così con il 71% dei lavoratori occupati nel settore dei servizi a fronte di un 24,9% impiegato nell’industria e di un 3,9% nell’agricoltura. Il tradizionale sistema di welfare si è trovato impreparato a questo mutamento e la crisi economica ha spinto molti paesi a tagliare la spesa per lo stato sociale.

Il welfare state europeo aveva già da tempo messo in atto varie misure, dette previdenziali, di protezione sociale e sostegno del reddito. Queste ultime in particolare sono state pensate per far fronte a uno sviluppo industriale che non riduceva la disoccupazione. Si è reso quindi necessario intervenire affinché il soggetto in stato di disoccupazione non diventasse un disoccupato strutturale, incapace cioè di reinserirsi nel mercato del lavoro. Negli ultimi anni, specialmente in America, si è affermata un’idea alternativa al welfare state classico, il cosiddetto workfare: si tratta di misure, per dirla con Jean-Claude Barbier, sociologo della Sorbona, «che condizionano gli aiuti sociali all’obbligo di lavorare per coloro che ne beneficiano». Al centro è quindi posto il lavoro. Il workfare è più leggero ma poco efficace come misura di protezione sociale e non tiene conto dei nuovi disagi che il modello economico post-fordista ha portato con sé: precariato, working poor, esclusione sociale.

Gli esperti del Bin ci spiegano come la centralità del lavoro nelle misure di welfare state si traduca in programmi per la ricerca di impiego, per la formazione, per il sostegno all’imprenditorialità, la creazione di nuovi impieghi e – last but non least – in immediati sussidi di disoccupazione. In tutta Europa esistono cose simili ma si legano a misure, dette assistenziali, che garantiscono un reddito minimo che può durare anche molti anni. Esse sono, in sostanza, misure che contrastano l’esclusione sociale volte a creare una rete (safetynet) che interviene quando ha termine il periodo di sussidio di disoccupazione. Si articolano in vari modi e vanno dall’erogazione di denaro all’esenzione fiscale, ai contributi per l’affitto e per le spese alimentari. L’idea di base è che un individuo debole non debba essere lasciato solo, in nessun caso. Si crea dunque un legame tra sussidio e reddito minimo, tra misure previdenziali e assistenziali. Il modello sociale europeo, fin qui, ha cercato dunque di armonizzare le esigenze dello sviluppo industriale a quelle dello sviluppo sociale o, almeno, di garantire protezione alle fasce svantaggiate. Molto resta da fare e, secondo gli autori del Bin, investire in welfare sarebbe una valida misura anticrisi, specialmente nel nostro paese dove  le cose – manco a dirlo – funzionano diversamente rispetto al resto d’Europa.

In Italia, terminato il periodo di sussidio, le persone vengono abbandonate a se stesse e chi non riesce a rientrare nel mercato del lavoro è destinato alla povertà con il rischio evidente di passare da uno stato di esclusione lavorativa a uno di esclusione sociale. Il libro mostra le sperimentazioni messe in atto nelle varie regioni italiane, ma si tratta di misure destinate a particolari e limitati soggetti: siamo ben lontano dall’idea di reddito minimo garantito come diritto universale. Eppure, ci dicono gli autori, si tratta di un obiettivo possibile. Certo, dipende quanto lo Stato è disposto a spendere. O a risparmiare.

Già, perché secondo gli esperti della Bin, un reddito minimo garantito andrebbe a procurare risparmi importanti. La vecchia storiella che “in Italia non ci sono i soldi” non regge più. Si può fare, spiegano gli studiosi del Bin, ed ecco come. Citando Un nuovo contratto per tutti, ricerca dell’economista Tito Boeri, condotta con Pietro Garibaldi, si evidenzia come la necessità primaria sia quella di riformare gli ammortizzatori sociali, procedendo a una razionalizzazione e a una drastica semplificazione dell’intero sistema che sostituisca le particolari forme di sussidio, indennità, integrazione, mobilità, attualmente diverse da categoria a categoria, in un unico sistema di base. Accanto a questa operazione andrebbe introdotto un reddito minimo garantito.

Gli autori calcolano che per il sussidio di disoccupazione (che prevedono della durata di 18 mesi, su base contributiva) il costo sarebbe di circa 8 miliardi di euro per la messa a regime. La spesa per il reddito minimo, fissato a 450 euro, graverebbe per circa 6 miliardi di euro l’anno. Tali costi andrebbero a produrre risparmi sotto altri versanti, uno su tutti quello della sanità. Una persona in difficoltà economica è più esposta a malattie, non ha possibilità di fare prevenzione e, in casi estremi, si arriva persino al rischio malnutrizione. Tutte situazioni che ricadono sulla sanità pubblica e che un tenore di vita dignitoso andrebbero a limitare. Non meno rilevante sarebbe la ricaduta sulla criminalità e, tasto dolente, sul lavoro nero.

Gli esperti del Bin, interrogati sulla questione, dichiarano che il ricorso al lavoro nero, essendo una forma di reddito priva di benefit previdenziali, sarebbe una scelta non conveniente a fronte di un reddito minimo garantito che, ovviamente, verrebbe tolto in caso di frode. «Sappiamo che nei paesi dove c’è il reddito minimo garantito il lavoro nero è stimato in percentuali bassissime».  Inoltre il timore che qualcuno possa approfittarsi del sistema «non può ricadere sui molti che hanno bisogno» e «spetta alle forze dell’ordine vigilare e punire i trasgressori». L’idea, insomma, non può essere sacrificata sull’altare dei furbetti. Altra critica che generalmente si muove all’idea del reddito minimo garantito è che un soggetto, avendo questa forma di paracadute sociale, sia meno incentivato a svolgere lavori a basso salario che, comunque, sono ritenuti necessari. «E perché devono esistere lavori a basso salario?» rispondono gli autori «con l’introduzione di un reddito minimo si incentiverebbe anche l’aumento dei salari, inoltre si contrasterebbe la precarietà, poiché una persona sarebbe nella possibilità di rifiutare un lavoro senza garanzie, con contratto temporaneo e mal pagato».

Il tema del contrasto alla precarietà è forse uno dei più interessanti. Più che di contrasto sarebbe forse più corretto parlare di reinvenzione della precarietà. Citando il filosofo André Gorz, «il carattere sempre più intermittente del rapporto salariale va trasformato in una nuova libertà, un nuovo diritto per ciascuno d’interrompere la propria attività professionale. Il che, beninteso, esige la garanzia di un reddito». La precarietà, dunque, come occasione di libertà. Una libertà  che diventerebbe spazio di democrazia garantito dallo Stato, appunto detto “democratico”, capace di governare e distribuire equamente la propria ricchezza a tutti i cittadini. Un sogno possibile se pensiamo che, a fronte dei 14 miliardi di euro l’anno previsti da Boeri e Garibaldi, sono ben 60 i miliardi che, secondo la Corte dei Conti, sono costati al nostro paese a causa della corruzione.

Una panacea quindi? Certo che no, ma un’idea alternativa, concreta e possibile, da prendere in considerazione e cui dare maggior rilievo di quello dato nel nostro paese fino a oggi.

Tags: disoccupazione, economia, mario draghi, reddito minimo garantito, stato sociale, welfare state, zola matteo Categories: Economia, Slider


Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog