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Ennio Abate-Gli equivoci della poesia sociale

Da Ennioabate

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@ Giarmoleo

Caro Enzo,  prendo spunto da quanto detto incidentalmente nel mio precedente commento (qui ) per allargare il discorso. Non ho sollevato «la questione Polansky», ma  la questione della cosiddetta poesia sociale o civile, varie volte affrontata nel Laboratorio Moltinpoesia di Milano, esperienza a cui tu hai partecipato attivamente per anni e ora chiusa. So che la pensiamo diversamente, ma è utile confrontarci. Poi ciascuno  trarrà le conclusioni che gli paiono più giuste. Seguo perciò il filo del tuo ultimo intervento (qui) che esemplifica secondo me gli equivoci in cui  facilmente si cade quando in poesia si affacciano temi sociali d’attualità: la condizione degli homeless, degli immigrati che arrivano (quando arrivano) a Lampedusa, dei lavoratori precari o disoccupati o delle donne vittime della violenza maschile (il cosiddetto “femminicidio”). E si potrebbe risalire a tanta poesia che in passato ha  trattato il tema della lotta antifascista o della condizione operaia. Per questa basta fare il nome di Ferruccio Brugnaro. Io ricordo  pure che  negli anni Settanta usciva una rivista di poesia scritta esclusivamente da operai, Abiti lavoro. Come poi sono uscite riviste o antologia di poesia femminile o di poesia omosessuale o di letteratura della migrazione (su El Ghibli ad es.). Che hanno avuto una funzione conoscitiva mai disprezzabile, ma hanno anche rafforzato gli equivoci.

Anche per me non esiste «un solo modo di fare poesia». Non ne possono esistere però mille o diecimila. E soprattutto non può esistere una poesia che che si spezzetta per temi o per categorie sociali o fasce di età o  di professione, ecc. Banalizzo un po’, ma non esiste una poesia dei pensionati, una dei pescatori, una delle casalinghe, una dei manager, una degli impiegati, una degli adolescenti, ecc. L’attuale proliferazione delle pratiche di scrittura poetica a livello di massa (scolarizzata) non fa saltare i confini –  magari provvisori, più o meno ristretti o ampi, più o meno permeabili o impermeabili -  che distinguono la poesia da ciò che non è poesia o è parapoesia o similpoesia. O è  quel fenomeno confuso e ambivalente  che ho chiamato dei moltinpoesia. Preciso che confusione e ambivalenza non sono di per sé il negativo in assoluto o una sciagura. Non mi metto dalla  parte dell’élite contro la massa. Ma non ritengo che la massa (o il popolo, gli emarginati, gli oppressi, gli esclusi, gli ultimi, i poveri) di per sé  sia il positivo in assoluto.  O sia già, così com’è oggi, in questa precisa società, il positivo. Proprio perché essere oppressi, esclusi, poveri è un limite non una qualità.  Qui uno degli equivoci peggiori. E bada bene:  non è che solo  gli “amati” poeti, come tu sostieni, non riescono a vedere il positivo (cioé la poesia) che ci sarebbe sicuramente in tutta l’attuale produzione dei moltinpoesia o nelle migliaia di  libri e libretti, o di siti e blog di poesia (compreso questo su cui sto scrivendo, che non a caso ho voluto chiamare Poesia e Moltinpoesia per correggere l’equivoco, che invano ho cercato di non alimentare quando facevamo insieme il Laboratorio moltinpoesia di Milano!). Non è così. Neppure io e molti altri, che non siamo “amati” (cioè riconosciuti come poeti, invitati  nei salotti buoni, premiati, intervistati alla TV o non so dove), vediamo solo il positivo (cioè la poesia) in quanto oggi passa per tale in Italia (ma credo anche altrove).

Quei confini -  è sempre da verificare dove si pongono o vanno posti! – tra poesia e non poesia (o semplicemente altro dalla poesia) sono stati fissati e mutati in continuazione. Ma non possono essere aboliti. Anche oggi, malgrado  prevalga il caos nelle idee, nelle poetiche, nelle pratiche poetiche o parapoetiche,  quei confini ci sono. Ovviamente per chi sa vederli. Meglio: per chi sa vederli e non l’ignora per partito preso.  Perciò posso capire che a te non vadano i confini ristretti e magari fortificati come un castello medievale che separano, come tu scrivi, «un linguaggio più o meno aulico, raffinato o che so io» da tutti gli altri linguaggi (comuni, speciali, tecnici,ecc.). Dà fastidio anche a me che i tentativi – ripeto: confusi e ambivalenti – dei moltinpoesia vengano respinti in blocco e squalificati con termini quasi sempre dispregiativi: barbari, selvaggi, anarcoidi, plebei, populisti, ecc. Anche a me i confini  stabiliti  per difendere interessi corporativi  o accademici o editoriali non vanno. Ma non possiamo allargarli così tanto da farli semplicemente coincidere, come tu fai, con l’«Azione» o, come altri sostengono, con la Vita.

Tutti viviamo. Tutti agiamo. Ma ci sono vite che meritano di essere vissute e vite parassitarie o nocive per l’intera società. E  lo stesso vale per le azioni. La poesia poi non è un fatto biologico. È un fatto culturale. E la cultura nasce proprio separandosi – più o meno, in modi traumatici e “rivoluzionari” o in modi lenti ed evoluzionistici, disgraziatamente per alcuni,  necessariamente per altri – dalla vita, dal biologico. Le culture (oggi almeno una parte dei pensatori ammette che non esiste più una sola cultura: la propria, cioè quella nazionale, europea, occidentale per noi) si sono differenziate nel corso di una lunghissima e  spesso feroce storia. Proprio stabilendo confini. Non a casaccio, ma in base alle spinte di forze sociali e politiche e culturali che hanno portato a restringerli o ad allargarli. Tali confini possono essere e sono continuamente contestati. E, sempre a seconda delle forze sociali e politiche e culturali reali che si scontrano (e che alcuni gruppi o individui riescono a rappresentare nel bene e nel male), ora vengono ristretti a vantaggio di pochi, ora ampliati a vantaggio di molti. Mai di tutti, come  sperarono i rivoluzionari francesi o predicarono i cristiani. E questo avviene senza requie, senza mai raggiungere risultati definitivi. Questa è la storia. Che continua e smentisce tutti i proclamatori (interessati) a stabilire una «fine della storia». Basta dunque studiarsi un po’ di storia sociale o politica (ma anche solo della letteratura o della poesia) per vedere questo pendolo continuo tra epoche che – potremmo dire – “si aprono” all’altro da sé ed epoche che “si chiudono” e si arroccano.

Noi oggi stiamo vivendo ancora una volta lo scontro tra “globalizzatori” (veri e falsi però!), che vogliono spazzare via tutti i confini e “conservatori” (anch’essi veri e falsi!) che li vogliono rafforzare o restaurare. E non sappiamo dove si arriverà. Nella realtà, almeno per il momento, prevalgono, perché in posizioni di vantaggio storico (pensa agli USA dopo il crollo dell’Urss), quelli che spazzano i confini che a loro  non fanno più comodo. Eppure ne mantengono o costruiscono altri ancora più raffinati e rigidi. (Ad es. la circolazione deve essere libera per i capitali e le élites sovranazionali, ma la circolazione degli immigrati poveri viene impedita con le Lampeduse che vediamo in varie parti del mondo).
In una situazione come questa, che sta accrescendo il divario tra certi strati privilegiati delle popolazioni dei vari paesi e gli strati che stanno perdendo i minimi vantaggi dello Stato sociale (o Welfare) oppure quelli che sono restati da sempre emarginati o esclusi, che ha fatto Polansky?  All’incirca quello che fecero i populisti russi prima della rivoluzione d’Ottobre. Quelli andarono verso il popolo. Polansky è andato verso gli emarginati. O, come tu dici benissimo ma troppo idealizzando “l’Azione”, «ha solo vissuto con gli homeless e i vagabondi, come ha vissuto con i rom». Ed è qui un altro equivoco.  Sì, « Polansky è riuscito a creare con gli homeless» una relazione empatica con loro, e questo gli ha permesso di parlare della condizione di queste persone “in presa diretta”  o meno indiretta. E possiamo ammirare la sua generosità, il suo coraggio, il suo altruismo. (Ma senza lasciarsi sfuggire l’altra faccia della generosità, del coraggio e dell’altruismo, che può essere anche il narcisismo, l’esibizionismo, il prestigio che viene dall’essere portavoce di chi non ha voce propria). Quello che si sente leggendo i suoi versi è solo questo: che per lui «sono importanti i temi politici e sociali». Ma basta questo perché i suoi versi siano poesia e soprattutto *buona* poesia, capace di imporsi all’attenzione non solo di chi già è portato a simpatizzare per gli emarginati, ma anche di chi li odiasse o fosse indifferente nei loro confronti?

Non è automatico che, avendo Polansky vissuto con homeless e rom, « ci fa avvicinare ad una realtà che tentiamo di allontanare». Qui è il tuo sbaglio. Lui si è avvicinato, sì, fisicamente ed emotivamente a quella realtà sociale. Ma non è detto che noi (un noi del tutto generico), leggendo questi suoi versi, ci avviciniamo automaticamente a quella stessa realtà sociale. Ammesso poi che questo avvicinamento produca effetti benefici per gli emarginati. Anzi – so che ti scandalizzerai – chiediamoci: e se noi, leggendo i versi di Polansky sulla vita degli homeless, ci sentissimo migliori o più buoni solo perché leggiamo poesia sugli emarginati invece che sui privilegiati?

Allo stesso modo non è  affatto automatico che, quando vediamo alla TV la tragedia degli immigrati nel mare di Lampedusa, ci avvicinamo a loro. Al massimo ci commuoviamo, ci indigniamo, magari mandiamo un contributo in denaro alle Ong che si occupano di immigrati. Siamo sinceri e onesti. Dobbiamo riconoscere che il tema degli homeless o le immagini spettacolari e commoventi trasmesse dalla TV su tante tragedie di miseria e di guerra possono semplicemente impietosirci  e farci venire qualche scrupolo morale. Quando addirittura non ottengono un altro insidioso effetto: possono allarmarci, impaurirci, rafforzare le nostre pulsioni più egoistiche. Come si vede dalle reazioni viscerali della “gente” o del “popolo” anche “di sinistra” e non solo “di destra” di fronte a tanti fatti di cronaca. E, tra l’altro, è proprio questa paura sociale che viene per lo più alimentata dalla spettacolarizzazione del fenomeno degli sbarchi. Ed amministrata abilmente, come si è visto. Le massime autorità hanno proclamato una bella giornata di lutto nazionale, molto sentita “dalla gente” (da una parte della gente!). E il silenzio subito dopo è calato. Si sono quietate le invettive, le indignazioni, le emozioni vere o artificiali. E i responsabili politici di quelle tragedie restano con le loro facce di bronzo ai posti di comando. Perché?  Perché i “buoni” si sono accontentati ancora una volta di aver provato pietà e non hanno voluto ragionare più a fondo sul fatto che i “cattivi”, che non sono soltanto gli scafisti (o i poliziotti nei versi di Polansky) stanno già preparando il prossimo intervento umanitario a suon di bombe e Tornado o  stanno  continuamente aumentando le spese per  addestrare  nuove polizie e corpi speciali in vista di eventuali rivolte urbane. È questo  insieme di cose che Polasky proprio non vede. È questa realtà, che non si coglie certo vivendo con gli homeless per qualche mese o anno, che non entra nei suoi versi e che non si fa poesia.

Per dimostrarti che non ho i pregiudizi che mi attribuisci, io potrei allargare in teoria i confini della poesia come tu vuoi e farci rientrare anche i versi di Polansky. Resta però il fatto che, anche se riconoscessimo questi suoi versi come poesia, essi  non hanno quella autenticità e qualità per convincere quelli che – a ragione secondo me -  ritengono che non è trattare  in versi certi temi (homeless, immigrati, femminicidio, ecc.)  a garantire che essi raggiungano quel grado di elaborazione  linguistica, comunicativa, di pensiero, che permette di dire: qui c’è poesia e buona poesia che ci fa vedere la realtà daun punto di vista insospettato e… ci mette davvero in crisi.

Non ti puoi accontentare del fatto che in quei versi « riemergono il suo [di Polansky] sapere, la sua empatia, il suo taglio giornalistico, il suo particolar modo di poetare, i finali inquietanti , esplosivi, l’ironia, il ritmo del linguaggio» (tutte cose, tra l’altro da dimostrare). Io, come ho detto, trovo questi versi pietistici, descrittivi, a volte banali («i britannici in cambio/ si presero Hong Kong, /ma alla fine/ l’abbiamo riavuta», p.43), a volte rozzi («La fottuta bandiera americana/ non significa più/ un cazzo», p. 17), a volte piattamente maschilisti («Non importa quel che si dice,/ le donne preferiscono ancora /farlo al buio», p. 79). E, se ci tieni, potrei fare un’analisi più accurata e documentata.
Ritengo perciò sbagliato dire che è «normale per molti prendere le distanze da questo tipo di poesia» perché essa «appartiene ad un altro pianeta diverso dal pianeta dei poeti ufficiali in Italia». No, non sta affatto su un altro pianeta. Sta, ma ai livelli più bassi (sempre per me), nel filone tradizionale della poesia sociale e di denuncia (generica). Non sfiora neppure la forza, la precisione, l’immaginazione ragionata e accurata che  troviamo, ad esempio, nella poesia di un Brecht. E non c’è nessun «approccio fondamentalista» da parte mia nel muovere queste critiche. Né si può dire che Polansky «non rispetta i canoni». Rispetta i canoni di un realismo in modo povero, descrittivo e diaristico. Non si può scambiare «l’empatia di Polansky» verso gli homeless o i rom per poesia. L’empatia è solo l’anticamera di una possibile poesia. Sta prima del linguaggio e del lavorio che il poeta fa su un’emozione, un’esperienza, un’idea.  Quella empatia potrebbe esprimersi in altro modo: con gesti, carezze, atti gentili. Ma questi non sono poesia. (O, se proprio vuoi, lo sono soltanto metaforicamente). E non è neppure, come tu dici, questione di metrica, di metafore, di figure retoriche. Queste possono benissimo esserci in Polansky o in poeti più acculturati di lui. Ma di per sé anche la presenza o l’abbondanza di tali elementi non fa poesia. Certi accorgimenti tecnici o un certo mestiere si possono apprendere facilmente da autodidatti con l’esercizio o, oggi, iscrivendosi a qualsiasi scuola di scrittura. Sono, come ho appena detto a proposito dell’empatia di Polasky, solo l’anticamera della possibile poesia.
Polansky per me resta, dunque, un costruttore di versi che utilizza – non so se furbescamente o ingenuamente o in piena sincerità – alcuni strumenti  della poesia sociale realistica (quelli più elementari, descrittivi, patetici) per attirare l’attenzione del pubblico su certi temi sociali (non a caso è «attivista per i diritti umani»). Ma per me va elogiato come attivista e militante non come poeta.

Per finire. Chiediamoci se troppo facilmente l’importanza che noi diamo ad un contenuto (in questo caso alla condizione degli homeless) non ci faccia essere tolleranti e di bocca buona nel giudicare come quel contenuto viene tradotto in parole e, meglio ancora, in poesia. L’equivoco si ripresenta ogni volta che una questione sociale occupa il nostro immaginario. Quanta poesia sociale si fece durante la Resistenza o attorno al ’68? Riletta adesso che reazioni suscita? Quanta di essa resiste ancora? Accorsi (qui) fa il paragone con l’Antologia di Spoon River di Lee Master. Bene. Sfido a confrontare questi versi di Polansky con quelli di Spoon River. O le immagini di Polansky con quelle di Lee Master. Nel primo caso abbiamo uno schizzo generico. Nel secondo abbiamo una sintesi plastica dell’intera vita di un personaggio e di una società. Non ci prendiamo in giro.


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