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Ennio AbateSulla grandezza di Dante (e di Mandel’štam). Coda di discussione n. 2: @ Banfi, Bugliani e Simonitto

Da Ennioabate
Ennio AbateSulla grandezza di Dante (e di Mandel’štam). Coda di discussione n. 2: @ Banfi, Bugliani e Simonitto

Ritorno brevemente su alcuni punti e mi riassumo:

1. Grandezza di Dante

Ripeto che le mie critiche non sono rivolte a Dante e alla sua reale grandezza umana e poetica ma alla ideologia signorile della grandezza (che - riconosco ­- pur prende spunto e valorizza aspetti signorili ben presenti nell'opera di Dante ai danni di altri che per me contano di più). Non ho preso mai in considerazione gli aspetti "privati"(documentati o supposti) della vita di Dante come se potessero diventare prove valide a discapito della sua grandezza reale. No, quando scrivo che cerco in Dante " un altro tipo di grandezza, diciamo pure e senza esitazioni: quella "servile"" (e perciò ho richiamato la frase di Benjamin...), non sminuisco la grandezza reale di Dante ricorrendo a qualche pettegolezzo o scheletro nel suo armadio. Non avendo poi una visione progressiva della cultura, vedo che sulla grandezza - ripeto: reale, storica - di Dante si è costruita una grandezza scolasticizzata, un culto "borghese", che appunto ci ha dato o imposto il "nostro" Dante, un inaccettabile (per me) Dante "signorile". Che Dante sia " grande a prescindere dalla ideologia che si è costruita sul suo nome e sulla sua opera" e " non solo rispetto ai suoi tempi ma anche rispetto ai nostri" (Simonitto) è vero, ma fino a un certo punto. Molte nuvole possono offuscare la luce del sole. E le nuvole (le ideologie) sono un problema non trascurabile per noi quaggiù. Non vorrei innamorarmi semplicemente della stella polare-Dante e farne un feticcio, anche se non la vedo più. Non vorrei neppure sentirmi coevo di Dante solo per distinguermi da un " certo intellettualismo" odierno che se l'è dimenticato o lo disprezza. Dante non può diventare un mio distintivo. Mi deve servire: dovrei trovare nei suoi versi e nei suoi pensieri la scopa che mi aiuti a far pulizia proprio di questo degrado intellettualistico o relativistico che mi avvolge. Non è facile e non sempre ci riesco. E diffido pure della tendenza a far diventare monumenti gli autori, anche i grandi. È una complicazione in più per i lettori che ho in mente io, i quali dovrebbero avvicinarsi ai testi degli autori e non ai monumenti che li surrogano distraendoli in più dall'essenziale. L'ideale sarebbe accostarsi alla grandezza reale di Dante accantonando gli equivoci che una monumentalità posticcia gli impone. Ma pure questo è difficile.

1. 2.

Condivido in parte quanto Bugliani dice a proposito di Pound o Céline. Potrebbe adattarsi anche a Dante, "reazionario" per Sanguineti ( ma per ora non riprendo questa sua interpretazione). Aggiungo , però, che anche di questi altri autori voglio riconoscere la loro grandezza (o universalità) reale. Individuando cioè i punti in cui hanno davvero oltrepassato la loro limitazione storico-ideologica (il loro essere stati guelfi, antisemiti, filofascisti) e senza mai, però, dimenticare che in quelle stesse opere ci sono altri elementi ideologici nient'affatto riscattati dalla loro arte e, quindi, tuttora inaccettabili o insopportabili (o almeno discutibili).

2. La "morale del servo" oggi

Mi ostino in questa discussione su Dante/Mandel'štam a difendere la "morale del servo" invece di quella del signore. Se, mi chiedessi chi sta nella condizione dei servi, dovrei fare alcune precisazioni oggi necessarie. I potenziali portatori di tale morale dovrebbero essere un "noi" tutto da definire. Noi chi? Noi lavoratori, ceto medio in via d'impoverimento? Noi "nuovi miserabili" della globalizzazione? Difficile dirlo. Soprattutto sono cadute alcune certezze scientifiche o miti laici otto-novecenteschi sui soggetti motori della storia. Mi pare che questo "noi" che possa rientrare nella figura hegeliana del servo (o della Servitù, per stare a Partesana) non possa più coincidere con quel proletariato di cui Marx con enfasi idealistica poté dire che non aveva da perdere che le proprie catene. Salari, stipendi, pensioni o pensioncine che oggi ancora arrivano, case o casette in condominio, servizi pubblici rosicchiati ma non aboliti del tutto, sono "catene" da cui liberarsi? Non credo. E ai "miserabili" di oggi si può attribuire populisticamente un potenziale antagonista o rivoluzionario, leggendone i comportamenti ancora alla luce del "mito della povertà come depositaria di genuinità di valori"? Non credo. Non pretendo di rispolverare nessun neo-terzomondismo. Eppure non si deve fare l'errore di parlare di "poveracci di spirito", di "mentecatti senza alcuna cultura", i quali " peggio dei lanzichenecchi, mettono a ferro e a fuoco questo paese" (Simonitto). Eviterei di leggere una condizione sociale e culturale (quella dei servi o delle masse) esclusivamente dal punto di vista (stereotipato per me quanto quello populistico) della cultura "signorile". Giudicare "mentecatti senza alcuna cultura" i partecipi di tale condizione sociale mi pare comporti un regresso, la perdita di un punto di vista quantomeno più problematico. Quello cioè di Gramsci, il quale negli appartenenti alle classi subordinate vedeva, come minimo, i portatori di "culture subalterne". Che è altra cosa dalla semplice assenza di cultura. Adottando l'ottica gramsciana ci troveremo almeno a fare i conti con culture legate a civiltà preindustriali, schiacciate o emarginate per il loro rifiuto o l'incapacità di adattarsi al "progresso" delle società industriali o postindustriali oggi dominanti. Poi ci porremo anche il problema di valutare se e quanto il disagio, l'insoddisfazione, la resistenza che rendono i loro portatori ora inaffidabili ora docili davanti ai potenti possa farle diventare antagoniste o "potenzialmente rivoluzionarie" rispetto a quelle dominanti dell'attuale globalizzazione. Senza rifugiarci subito in risposte preconfezionate. Quello che non riesco ad accettare è invece la distrazione crescente o il rifiuto di interrogarsi su questa realtà sociale e antropologica fatta da milioni di uomini e donne. Essa mi pare sempre meno indagata o del tutto ignorata. E proprio dal ceto medio intellettuale odierno di cui noi facciamo parte. Mentre in passato, infatti, si ebbero in Italia gli studi rilevanti di Ernesto De Martino e anche, sul piano filosofico, le riflessioni di Ernst Bloch su un tempo multiversum[1], che arginavano facili sottovalutazioni o cancellazioni di problemi, oggiforse solo il filone degli studi postcoloniali (Said, ecc.) ha proseguito tali tipi di ricerche. Questo per dire che non mi convince per nulla la descrizione stereotipata dei servi o delle masse come gregge di illusi, che puntano esclusivamente a imitare i signori o a scimmiottare la loro grandezza. E credo che negli ultimi tempi il degrado politico e culturale abbia inciso su tutti i linguaggi che usiamo. Non è che sono stati colpiti solo quelli che usano gli altri, i "nuovi barbari". O che la "dittatura dell'ignoranza" (Majorino) non abbia condizionato o inquinato anche i nostri linguaggi (intellettuali, poetici, di conversazione). A me pare che anch'essi si siano comunque rinsecchiti e non hanno più quella indispensabile (e magari relativa) traducibilità dai livelli alti ai bassi e viceversa. Restano troppo inter nos.

3. L'estetizzazione come rischio dell'ottica del "signore"

Quanto ricordato (da Simonitto) a proposito del film "Il terzo uomo" di Wells esemplifica a mio avviso uno degli effetti negativi a cui arriva l'ottica "signorile" sul mondo o sulla storia: l'estetizzazione. Se ho ben capito, in questo film viene detto che la storia del Rinascimento sarebbe superiore a quella della Svizzera, perché , pur con tutti i suoi orrori, ci ha dato il grande Michelangelo. Mentre la seconda, pur avendo permesso "cinquecento anni di pace e democrazia", ha prodotto al massimo un buon artigianato (gli orologi a cucù). Sarà soltanto una battuta. Ma la trovo davvero cinica. Non voglio dire che implicitamente, in nome dell'arte, qui l'ottica signorile approvi gli orrori della storia, presentandoli quasi come un'utile "droga" per la "creazione artistica". Ma poco ci manca. Critichiamo pure quanti il conflitto nella storia umana, lo negano, lo cancellano, lo sublimano. Ma chi ha dimostrato che l'unico motore della storia sia esclusivamente il conflitto? Come non vedere le spinte cooperativistiche e solidali, sia pur ambivalenti, deformate o spesso abortite? Come approvare la distruttività (non sempre "creatrice") che il conflitto comunque comporta? E perché cancellare ogni ipotesi che dal conflitto (storico e per me niente affatto "naturale") possano emergere, fosse pure temporaneamente, situazioni di non conflitto o di minor conflitto, favorevoli magari anche allo sviluppo delle arti?


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