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ESCHILO, ARCAICO E CONTEMPORANEO #teatro #tragedia #grecia

Creato il 21 agosto 2013 da Albertomax @albertomassazza

eschilo

Nato da nobile famiglia nel 525 a.C. nel demo attico di Eleusi, sede del più importante culto di Demetra, i Misteri Eleusini, ai quali fu probabilmente iniziato, stando a quanto lasciò intendere Aristofane ne Le rane (la leggenda lo vorrebbe esiliato per empietà, proprio per averne inconsapevolmente rivelato aspetti rituali segreti), Eschilo si rese protagonista dell’epica stagione delle Guerre Persiane, combattendo valorosamente a Maratona (490), Salamina (480) e Platea (479), tanto da ricevere onori da eroe. Il suo esordio teatrale avvenne già nei primissimi anni del V secolo e nel 484 ottenne la sua prima vittoria in un concorso tragico. In circa 40 anni di attività scrisse tra le 70 e le 90 opere, presumibilmente tutte o quasi divise nelle tetralogie (tre tragedie e un dramma satiresco legate dalla comune ambientazione mitica o storica) che venivano presentate ai concorsi. Di queste, solo 7 ci sono giunte in versione pressoché integrale, mentre di altre 10 si ha qualche scarna notizia da citazioni e riferimenti di altri autori.

Le 7 tragedie conservate furono scritte con ogni probabilità nell’ultimo periodo di attività, tra il 475-470 e il 458 a.C, anno in cui, dopo la trionfale rappresentazione dell’Orestea, Eschilo compì il suo secondo viaggio (o esilio?) in Sicilia, dove morì due anni più tardi. Solo una trilogia, priva del dramma satiresco, ci è giunta completa: l’Orestea, appunto, composta da Agamennone,  Coefore ed Eumenidi; le altre quattro sono I Persiani (572), Sette contro Tebe (567), Supplici (562) e Prometeo incatenato, di cui non si ha l’anno della partecipazione al concorso e si da una forbice tra il 570 e il 560.

Per secoli le sue tragedie vennero considerate arcaiche e solenni e messe in secondo piano rispetto ai successivi lavori di Sofocle ed Euripide. Furono i romantici a rivalutarne l’Opera, affascinati dalla sua parola pensante e dalla plasticità dei suoi personaggi, Prometeo in primis, archetipo perfetto del titanismo. Un arcaismo, quello di Eschilo, già sottolineato ironicamente da Aristofane che pure, nella contrapposizione con Euripide da egli stesso proposta ne Le Rane (che tanto fascino eserciterà su Nietzsche), parteggiava per l’eleusino. Ed è indubbio che l’afflato sacrale della sua lingua, l’essenzialità ermetica della sua parola, la ieraticità dei suoi personaggi danno l’impressione di qualcosa che si situa in “illo tempore”, non solo quando ha per soggetto il mito.

Eppure, Eschilo (ce lo dice Aristotele) fu un innovatore che introdusse il secondo attore nella tragedia, aprendo la via al dialogo e a una drammatizzazione più coinvolgente. Inoltre, fu il primo a concepire la trilogia legata, atta a rappresentare la concatenazione delle colpe e delle punizioni per tutta la durata del ciclo, dall’origine all’espiazione definitiva. Introdusse elementi scenografici come le maschere e i coturni, le calzature che ancor oggi simbolizzano lo scrittore di tragedie. Per quanto sia possibile ricostruirla, la cronologia delle sue opere mostra un artista in costante evoluzione, aperto, sia pure con qualche diffidenza, alle innovazioni, come l’introduzione del terzo attore proposta dal giovane Sofocle, già presente nel Prometeo incatenato e più compiutamente nell’Orestea.

Ma fu soprattutto nel trattamento delle tematiche che Eschilo mostrò uno sguardo lungimirante, capace di guardare ben oltre l’orizzonte dei suoi arcaici tempi. L’eleusino non si limitò a mettere in scena i grandi cicli mitici come monito per gli uomini, ma si interrogò profondamente sulle ragioni di quelle concatenazioni di colpe e punizioni che travalicavano le responsabilità personali, per contagiare la stirpe, fino all’estinzione della stessa (ciclo tebano) o alla clemenza degli Dei (Orestea). Eschilo superò la visione arcaica, successivamente codificata da Erodoto, dell’invidia degli Dei per la Hibris (il superamento dei limiti imposti all’uomo), scorgendo nell’intervento punitivo la necessità di affermare un ordine superiore di giustizia. Zeus stesso passa dal tiranno vendicativo del Prometeo, ambientato in un’epoca immediatamente successiva allo spodestamento di Crono, all’onnipotente e giusto delle Supplici, anticipatore del monoteismo giudaico e cristiano.

Le sue riflessioni non si limitarono all’indagine sulle ragioni del sofferto destino umano voluto dalla divinità, ma si rivolsero anche ad aspetti storici e sociali a lui contemporanei. Nei Persiani, se il soggetto storico contemporaneo non era una novità assoluta (prima di lui, Frinico aveva scritto la tragedia perduta La presa di Mileto), lo sguardo compassionevole e partecipato rivolto al nemico vinto testimoniano di un poeta e di una civiltà capaci di mantenere una dimensione nobilmente umana nel momento di un trionfo epocale. Né si può dire estranea ad Eschilo la riflessione sulle vicende politiche contemporanee. Unico tra i grandi tragici ad essere stato testimone diretto del periodo cruciale per l’affermazione della democrazia, dalle riforme di Clistene all’epoca aurea di Pericle, eccolo suggerire nelle Eumenidi la necessità della saggezza di Atena per garantire l’equità di giudizio dell’Areopago; ed eccolo affermare il diritto d’asilo nelle Supplici, anche a costo di minare quelli che oggi definiamo equilibri internazionali. Ma è con quell’ultimo lacerato grido di Prometeo che Eschilo svela la portata universale della sua poesia, capace di scavare fino alle radici della crisi, della precarietà umana:  “quello che soffro è contro la giustizia”.

Non rimarrebbe da fare altro che un accenno sulla sua morte, avvenuta a Gela in Sicilia nel 456. O meglio, dire qualcosa sull’enigma rappresentato dalla leggenda della sua morte, così inverosimile da sconsigliare a chiunque il tentativo di affermarne la veridicità. Lo si vorrebbe morto a causa di una testuggine scagliata da un’aquila in volo, avendo il rapace scambiato la sua testa pelata per una roccia su cui spaccare il carapace, per poi consumare il pasto. Dando per scontata, non me ne voglia Pirandello, la sua assoluta mancanza di riscontro reale, resterebbe da trovare un’interpretazione plausibile al mito. Ma eserciti di studiosi non son riusciti a cavare un ragno dal buco e forse è meglio così: la vita di Eschilo non avrebbe potuto trovare miglior compimento che in un enigma irrisolto.



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