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Fast Food, Slow Genocide.

Da Arturo Robertazzi - @artnite @ArtNite
  • Categoria Cuore
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“Cosa ti hanno fatto esattamente?”

“Hanno distrutto tutto ciò che avevo dentro.”

Luci gialle di neon, microfoni accesi, le testimoni parlano.

“Hanno fatto quello che volevano. Uno di loro mi ha morso sul collo, ero ricoperta di sangue”, dice FWS-105.

FWS-50 racconta di essere stata assaltata da un soldato che, armato con un coltello da caccia, la minacciò di tagliuzzarla a forma di crocifisso, se non si fosse concessa.

FWS-87 aveva diciassette anni quando tutto cominciò. Era vergine. Durante la deposizione, non riesce a ricordare quante volte fu violentata durante i suoi otto mesi di schiavitù.

Queste sono solo alcune di sedici donne musulmane che hanno testimoniato all’Aja per il caso degli stupri di massa di Foča, una città della Repubbika Srpska in Bosnia.

Si stima (per difetto) che 20.000-50.000 donne musulmane siano state sistematicamente violentate durante il conflitto in Bosnia, tra il 1992 e il 1995. Nessuno sa quante di queste abbiano lasciato vivere i bambini nati dalle violenze, e quante, invece, abbiano fermato la gravidanza.

Dopo essere state catturate dai soldati, le donne venivano condotte in prigioni ricavate spesso da strutture preesistenti: scuole, palestre, hotel, o i famigerati “bordelli” con nomi come “Fast Food Restaurant”, “Coffe House Sonja” o  ”Le trecce della Ninfa”. Quasi tutte le notti, i soldati entravano nei centri di detenzione e sceglievano le proprie prede: torturate e violentate, ripetutamente. Per settimane. Alcune per mesi, fino al parto. Donne anziane, giovani, bambine, tutte trattate come schiave, come oggetti, come “beni mobili”.

Non erano violenze frutto dell’impulso sessuale di un soldato, ma il prodotto di un piano politico-militare organizzato dalle più alte autorità dello Stato. Uno strumento di guerra con lo scopo di colpire un’intera società al cuore della sua sacralità. Con lo scopo di terrorizzare. Con lo scopo di ingravidare le donne di un gruppo etnico-religioso nemico con il seme della propria “razza”. Un genocidio lento che, a distanza di anni, pulsa ancora come una ferita sotto la pelle.

Questo, purtroppo, non è un racconto romanzato. E nemmeno acqua passata.

Ora, proprio mentre scrivo, accade lo stesso: in Libia lo stupro è uno strumento di terrore utilizzato dal dittatore per combattere le popolazioni che a lui si sono ribellate.

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