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FESTIVAL DI CANNES 2011: “This must be the place” di Paolo Sorrentino

Creato il 26 maggio 2011 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

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C’era una volta a Napoli. Così si potrebbe iniziare, raccontando l’avventura del sodalizio tra Paolo Sorrentino e il suo acuto produttore Nicola Giuliano, ricordando che i due, amici di vecchia data, compagni del calcetto come tantissimi ragazzi di ieri, oggi e domani, hanno vissuto un lungo percorso insieme che li ha portati a realizzare la grande impresa che è This Must be the place. Un cammino lungo e meditato, coraggioso e intraprendente, differente per tanti versi dalle produzioni italiane canoniche, perchè alla base c’è non solo la volontà di fare film di qualità, ma soprattutto di andare incontro al proprio pubblico, rispettando, quindi, lo spettatore, mantenendo una certa coerenza creativa.

Un tragitto che è iniziato con L’Uomo in più, che diceva tantissimo delle intenzioni progressiste del team della Indigo, e poi è passato per il successo de Le Conseguenze dell’Amore, che sembrava voler spiegare quanto si potesse essere individualisti e internazionali anche nel nostro paese. Successivamente, L’Amico di Famiglia si spingeva oltre, senza paura di porre come fulcro della vicenda il più misero dei soggetti, e ancora Il Divo, che poneva fine a un percorso produttivo che doveva aprire al livello successivo. E questo è avvenuto con This must be the place. Quello che spesso ci si sente chiedere è se sia una produzione americana. No. Affatto. È il traguardo da cui parte la nuova era di una produzione che ha creduto in se stessa e ha voluto fare della sagacia e della libertà artistica le proprie bandiere. Una produzione tutta italiana (insieme al supporto europeo di Francia e Irlanda) che però sfida il mercato americano più ostico, ovvero quello indipendente d’autore. Ovvio che è semplice pensare che una carta come Sean Penn sia come partire con un tris d’assi, e probabilmente è così, ma il poker arriva solo se si crede fermamente in quello che si fa. Se si decide di plasmare quel mercato in base al proprio gusto artistico. Perchè This must be the place è tout court un film di Paolo Sorrentino, fatto di personaggi irrisolti, spesso sordidi, a volte inconsapevoli, ma profondamente umani, che sono tali al di là dell’interprete.

Mentre si osserva l’epopea di Cheyenne, la rockstar dall’aspetto mutuato da Robert Smith che, in piena crisi esistenziale, cerca il carnefice nazista di suo padre, ci si chiede come sarebbe stato il film se a interpretarlo fosse stato un altro…uno qualsiasi. Sarebbe stato lo stesso, perchè Paolo Sorrentino fa il film suo, nel linguaggio e nella storia, semplicemente adattandolo con mestiere non a un pubblico, ma a un universo ben più espanso, ovvero il mondo. Sorrentino, attento osservatore dei microcosmi regionali, universalizza il suo stile di scrittura e lo rende eterno. Questo crea una frattura per lo spettatore abituato alle sue opere precedenti, nella stessa misura in cui si subisce il trauma del passaggio alla maturità, che sorprende anche nelle sue irregolarità. Però l’individuo è sempre lo stesso, e il sangue non mente mai. Lo stile risente del passato, ma è proiettato verso un piano più grande, nel quale, invece di piegarsi, sceglie di adattarsi.

Adattamento: la parola chiave della narrazione cinematografica. This must be the place non poteva essere altro che questo: il viaggio agrodolce di un’anima confusa. E non meravigliamoci se tutto è diverso da quello che dovrebbe collimare con il rassicurante gusto Hollywoodiano, perchè questo non è Hollywood. E non è neanche la scimmia di Hollywood. Questa è la specificità di un itinerario che deve rimanere tale, ma si trasforma in questo spazio e in questo tempo: il mondo del cinema risponde al percorso di quei due ragazzi che si sceglievano sempre in squadra nelle partite del mercoledì a calcetto. Si trasforma in qualcosa che nel suo intimo è profondamente umano.

Gianluigi Perrone


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