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Filosofia contemporanea e il nodo dei rapporti tra scienza e metafisica

Creato il 05 ottobre 2014 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali
untitleddi Michele Marsonet. Il nodo dei rapporti tra scienza e metafisica costituisce uno dei grandi temi della filosofia contemporanea. E’ curioso notare a tale proposito come il neopositivismo logico, pur dopo il suo tramonto, continui a influenzare numerosi esponenti del mondo filosofico. Com’è noto i neopositivisti, e in particolare Carnap, parlavano della necessità di eliminare la metafisica mediante l’analisi logica del linguaggio, e questo obiettivo fu perseguito con coerenza per parecchi decenni. In seguito si dimostrò che anche il neopositivismo possiede una propria metafisica immanente, la quale è per di più un oggetto di studio di grande interesse. Eppure, nonostante il cambiamento di clima culturale le parole d’ordine dell’eliminazione della metafisica e della sua riduzione a discorso privo di senso compiuto continuano ad avere un certo corso, ragion per cui l’argomento è tutt’altro che datato.

Non v’è dubbio che gli esponenti del nepositivismo logico affrontarono un problema reale, a prescindere dal fatto che si condividano o meno le soluzioni da essi offerte. E tale problema risiede nel fatto che la filosofia è stata rimpiazzata, nella maggior parte dei settori della conoscenza, dalle discipline scientifiche, siano esse naturali o storico-sociali. Tale situazione è ovviamente ben nota, ma è pur tuttavia importante notare che la riflessione sulle sue conseguenze è stata, finora, piuttosto carente. Cominciamo allora a rilevare che, nel modello di indagine filosofica elaborato dai neopositivisti, l’analisi del linguaggio scientifico diventa qualcosa di molto simile ad una ricerca di tipo metafisico che si propone di fissare i “limiti del senso”.

Se i positivisti logici hanno ragione, e se quindi la filosofia è stata sostituita dalle scienze, allora è necessario concludere che non vi è più alcun bisogno della filosofia medesima. Si può anche notare, tuttavia, che tra gli stessi scienziati sta crescendo la consapevolezza che interrogativi tipicamente filosofico-metafisici continuano a sorgere in ambito scientifico. Ovviamente non stiamo parlando in questo caso di una ricerca metafisica tradizionale, dal momento che ai giorni nostri la figura del metafisico che ritiene possibile scoprire i principi primi standosene seduto a tavolino è del tutto anacronistica (anche se tuttora popolare in parecchi circoli filosofici). Si intende, invece, una metafisica contigua alla scienza, al punto che, quando i filosofi non si dimostrano propensi ad occuparsi di questioni metafisiche, gli scienziati li invitano a mutare il loro atteggiamento perché pensano che essi siano le persone più adatte a svolgere tale compito. Né si deve dimenticare che gli stessi scienziati sembrano spesso inclini a costruire una loro metafisica.

La situazione, del resto, non è del tutto nuova. Se prendiamo in considerazione il meccanicismo dell’800, è possibile verificare che esso fu in effetti un tipo di metafisica – derivante direttamente dalla scienza naturale – il quale ebbe successo non soltanto tra gli scienziati, ma anche tra i filosofi. Il meccanicismo, infatti, offrì ai positivisti dell’800 l’opportunità di costruire una sintesi unitaria della conoscenza scientifica di quel tempo, realizzando così il progetto di spiegare ogni fenomeno mediante un ben preciso modello. Ma questa “era” ovviamente metafisica, dal momento che i positivisti ritenevano di raggiungere i principi primi di una realtà concepita in termini di pura osservabilità. Essendo tutta la realtà, secondo quel modello, riducibile a ciò che è direttamente esperibile, la scienza veniva naturalmente giudicata in grado di conoscerla in modo completo. In questo caso siamo dunque in presenza di una metafisica che è sia monistica che inconsapevole.

Del positivismo ottocentesco il neopositivismo successivo conserva l’empirismo radicale, l’attenzione primaria per lo sviluppo delle scienze naturali e, per l’appunto, l’ostilità senza tentennamenti nei confronti della metafisica. E’ opinione dei neopositivisti che la scienza moderna abbia occupato l’intero campo della conoscenza, ivi inclusi quegli spazi che tradizionalmente venivano riservati alla filosofia. Lo spirito scientifico deve pertanto essere trasferito senza esitazioni in ambito filosofico.

Solo nella scienza si dà vera conoscenza, e le asserzioni della filosofia (intesa in primo luogo come metafisica) altro non sono che enunciati privi di significato. Nel famoso manifesto del Circolo di Vienna infatti leggiamo le seguenti considerazioni: “Se qualcuno afferma ‘esiste un dio’, ‘il fondamento assoluto del mondo è l’inconscio’, ‘nell’essere vivente vi è un’entelechia come principio motore’, noi non gli risponderemo ‘quanto dici è falso’, bensì a nostra volta gli poniamo un quesito: ‘che cosa intendi dire con i tuoi asserti?’. Risulta chiaro, allora, che esiste un confine preciso fra due tipi di asserzioni. All’uno appartengono gli asserti formulati nella scienza empirica: il loro senso si può stabilire mediante l’analisi logica; più esattamente, col ridurli ad asserzioni elementari sui dati sensibili. Gli altri asserti, cui appartengono quelli citati sopra, si rivelano affatto privi di significato, assumendoli come li intende il metafisico”.

I neopositivisti, dunque, attribuiscono valore soltanto agli enunciati empirici e a quelli analitici della logica e della matematica. Le verità logiche e matematiche sono – secondo la terminologia introdotta da Ludwig Wittgenstein nel “Tractatus logico-philosophicus” – tautologie, e cioè asserzioni sempre vere, non smentibili da alcun fatto e che nulla aggiungono alla nostra conoscenza della realtà. La vera conoscenza è soltanto quella empirica basata sui dati osservativi immediati, e la concezione scientifica del mondo è contraddistinta dal metodo dell’analisi logica. Ne consegue, ad esempio, che non esistono le proposizioni sintetiche a priori di kantiana memoria.

Ai giorni nostri si ritiene che il positivismo logico abbia dato vita alla visione classica (la cosiddetta “visione ricevuta”) della filosofia della scienza. Torniamo quindi all’attacco frontale che i positivisti logici hanno portato alla metafisica (attacco che costituisce il pilastro della loro concezione del lavoro filosofico). Si nota immediatamente una certa vaghezza in tale attacco. Chi, o che cosa, intendono attaccare? E’ evidente che il termine “metafisica” ha una vastissima pluralità di connotazioni semantiche. Platone ed Aristotele sono entrambi dei metafisici, ma si può davvero affermare che ciò è sufficiente ad accomunarli? E anche Hegel e Bergson sono dei metafisici, ma chi oserebbe sostenere che tale caratteristica li rende simili?
In realtà la nascita del positivismo logico ha una collocazione storico-geografica ben precisa: avviene in Austria e in Germania a cavallo tra ’800 e ’900, e tra Vienna e Berlino si muovono in pratica sia gli antesignani che i veri e propri fondatori del movimento. Il neopositivismo sorge in primo luogo come reazione al predominio negli ambienti accademici e culturali di quei Paesi degli eredi dei grandi sistemi idealistici tedeschi. I bersagli dei neopositivisti sono in particolare due: Hegel e il loro contemporaneo Martin Heidegger.

Non a caso, nel celebre saggio dedicato alla eliminazione della metafisica, Rudolf Carnap, uno dei fondatori del Circolo di Vienna e figura di assoluto rilievo del movimento neopositivista, per dimostrare la presunta mancanza di senso degli asserti metafisici altro non fa che sottoporre ad analisi logico-linguistica brani di opere di Hegel e Heidegger. E non è difficile capire che un conto è criticare due autori particolari, e un altro è attaccare la metafisica in quanto tale. Pur essendovi, secondo numerosi studiosi, buone ragioni per affermare che Heidegger concede troppo alla “magia delle parole”, non si vede come una simile accusa possa essere rivolta a pensatori logicamente rigorosissimi come Aristotele o Leibniz.

Le cose acquistano maggiore chiarezza se prendiamo in considerazione un altro classico del neopositivismo come “Linguaggio, verità e logica”, scritto negli anni ’30 del secolo scorso dal filosofo inglese Alfred J. Ayer. In tale opera troviamo questi rilievi che paiono molto significativi ai fini del nostro tema: “Il credere che occupazione del filosofo sia quella di andare alla ricerca dei principi primi è legato alla familiare concezione della filosofia quale studio della realtà come intero. E questa concezione è difficile da criticare, perché è piuttosto vaga (…) Coloro che fanno questa supposizione, restano fedeli all’opinione per cui nel mondo sussisterebbero cose tali da essere possibili oggetti di conoscenza speculativa e tuttavia trovarsi al di là del raggio d’azione della scienza empirica. Ma questa è illusione. Non sussiste alcun campo di esperienza che in linea di principio non si possa portare sotto qualche forma di legge scientifica, né alcun tipo di conoscenza speculativa intorno al mondo che, in linea di principio, la scienza non sia in grado di dare”.

Queste affermazioni di Ayer sono da un lato molto nitide ma, dall’altro, ci consentono di iniziare a capire perché il programma neopositivista di eliminazione della metafisica non sia stato portato a termine. Esse ci permettono di sottolineare altresì un fatto che è ai nostri fini molto importante, e cioè che occorre sempre distinguere tra ciò che i neopositivisti dicono e ciò che essi effettivamente fanno. Esaminiamo ad esempio il concetto di “intero”. Ayer ci fa notare che, pretendendo di studiare la realtà come intero, il metafisico presuppone di potersi proiettare fuori del mondo per prenderne visione a volo d’uccello, e ciò gli appare impresa irrealizzabile.

Supponendo che un metafisico serio voglia davvero far questo, c’è tuttavia una frase nel prosieguo del suo discorso che fa scattare un campanello d’allarme. Egli infatti continua asserendo che “non sussiste alcun campo di esperienza che in linea di principio non si possa portare sotto qualche forma di legge scientifica, né alcun tipo di conoscenza speculativa intorno al mondo che, in linea di principio, la scienza non sia in grado di dare”. Si noti allora che, esprimendosi in questo modo, Ayer non sta parlando di tanti pezzi di realtà, ognuno indagato da una scienza particolare. Parla invece di una realtà in quanto tale e di tipo esclusivamente empirico, nonché concepita in modo unitario, la quale è oggetto d’indagine della scienza unificata come la intendono i neopositivisti, e di un metodo unico che la scienza ha a disposizione per indagare detta realtà. Ma a questo punto risultano chiari altri due fatti: riducendo tutta la realtà alla realtà empirica – e cioè quella esperibile con i sensi – Ayer compie un’operazione che è metafisica a tutti gli effetti; e alla realtà empirica onnicomprensiva di cui parla il filosofo britannico difficilmente si possono negare le caratteristiche di “intero” che egli attribuisce – con valenza negativa – alle concezioni metafisiche che combatte.

Per esprimerci in modo ancora più chiaro, si può dire che i neopositivisti si sono imbattuti nello stesso tipo di ostacolo che aveva messo in crisi i positivisti ottocenteschi. Entrambi, nel combattere la metafisica e nel volerla eliminare, hanno finito col dare vita a un’altra metafisica sostenuta a livello inconscio. Esistono del resto parecchie prove che confermano quanto sto dicendo. Com’è noto, il principale pilastro della concezione neopositivista della filosofia è costituito dal principio di verificazione, secondo il quale un enunciato – che non sia un’asserzione puramente analitica della logica e della matematica – è significante dal punto di vista cognitivo se, e soltanto se, la sua verità o falsità può essere stabilita attraverso osservazioni di tipo empirico. Su questo fondamento i neopositivisti escludono dall’ambito del discorso dotato di senso non soltanto le proposizioni metafisiche, ma anche quelle etiche e religiose in base alla constatazione che esse non risultano verificabili empiricamente.

Si pone però, a questo punto, un quesito fondamentale: qual è lo statuto del principio di verificazione? E’ esso stesso un enunciato di tipo empirico, e quindi verificabile empiricamente? O altrimenti detto, com’è possibile accertare, in base a osservazioni empiriche, la verità dello stesso principio di verificazione? E’ piuttosto ovvio che ciò non si può fare, e risulta pertanto necessario ammettere che detto principio sfugge al controllo empirico. I neopositivisti ne tentarono in seguito una serie di progressive liberalizzazioni, nessuna delle quali tuttavia conseguì i risultati sperati. E si noti un fatto curioso: essi intendevano eliminare la metafisica utilizzando un principio che, accettando i criteri da loro fissati, risulta esso stesso metafisico.

Abbiamo dunque accertato che lo scopo dell’analisi si identifica con la chiarificazione del linguaggio al fine di renderlo preciso e perspicuo al massimo grado; solo agendo così è possibile distinguere gli pseudo-problemi (che sono poi quasi tutti quelli presi in considerazione dalla filosofia tradizionale) dai problemi genuini. Ne deriva che, quali che siano le difficoltà incontrate dai neopositivisti per definire il metodo dell’analisi logica, resta chiaro che la differenza che intercorre tra filosofia e scienza è la stessa differenza che passa tra il linguaggio da un lato, e il mondo che il linguaggio stesso descrive dall’altro.

Il netto rifiuto neopositivista delle verità sintetiche a priori intende tagliare la testa al toro riducendo tutta la conoscenza a (i) fattori puramente empirici o (ii) a fattori puramente linguistici, senza residui di sorta. Così, Moritz Schlick afferma che tra filosofia e scienza non esiste tanto un contrasto, quanto una differenziazione dei rispettivi ambiti d’indagine. Alla filosofia spetta la ricerca del significato, alla scienza quella della verità. Il filosofo deve soltanto preoccuparsi di chiarire il significato degli asserti scientifici, così ricostruendo il linguaggio della scienza in maniera quanto più possibile perspicua; lo scienziato, dal canto suo, usa il linguaggio per stabilire la verità o la falsità degli enunciati riguardanti il mondo, e costruisce teorie che debbono sempre risultare verificabili. Da ciò segue che, se lo scienziato si preoccupa di scoprire il significato delle asserzioni che compie nella propria disciplina, egli diventa filosofo. D’altra parte il filosofo, determinando la natura e l’estensione del discorso significante, stabilisce pure i parametri cui l’indagine scientifica deve attenersi se vuol essere considerata tale, il che significa – per dirla in modo diverso – che il filosofo fissa i “limiti concettuali” dell’indagine scientifica. E nessuno può negare che si tratti di un compito di fondamentale importanza: il filosofo si trasforma, in questo modo, in una sorta di super-scienziato, cui spetta il conferimento del senso e al quale lo scienziato che lavora sul campo deve rivolgersi continuamente per chiedere lumi.

Le precedenti considerazioni, tuttavia, forniscono la base che ci consente di pronunciare un’affermazione ancor più impegnativa. E’ infatti evidente che l’analisi logico-linguistica, se concepita in questi termini, diventa qualcosa di enormemente più importante del semplice esame dei termini e degli enunciati. Essa diventa a tutti gli effetti una sorta di “filosofia prima”, vale a dire una super-disciplina che si propone di fissare le condizioni che presiedono alla possibilità stessa di tutta la conoscenza. Se proprio non la si vuol definire metafisica la si chiami pure in un altro modo: ma è comunque chiaro che la sostanza non cambia. E non a caso Wittgenstein afferma nel “Tractatus Logico-philosophicus”: “La filosofia limita il campo disputabile della scienza naturale. Essa deve porre limiti a ciò che si può pensare; e, nel far questo, deve porre limiti a ciò che non si può pensare. Essa deve delimitare l’impensabile dal di dentro attraverso il pensabile”.

Featured image, Rudolf Carnap


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